LEGGERE UNA FOTOGRAFIA
Carlo Riggi, ottobre 2017

Nel marzo del 2009 vedeva la luce “Il Rosso e il Nero”, l’esclusiva galleria commentata dei lettori di Nadir.

L’idea nasceva dai vivaci scambi di opinioni con il compianto Romano Sansone, all’interno di una mailing list di collaboratori di Nadir, e voleva essere un modo non solo per valorizzare le fotografie, selezionandole accuratamente tra le numerose che ogni settimana arrivavano alla redazione con la richiesta di un giudizio o un consiglio, ma anche per promuovere un esercizio più ragionato della critica fotografica, attraverso il confronto tra due approcci quasi antitetici, ma entrambi plausibili.

Leggere una fotografiaEcco uno stralcio del messaggio di lancio dell’iniziativa:

“Perché il Rosso e il Nero? Perché non esistono mai maniere assolute per valutare le foto. Due modi di concepire la fotografia, due vertici di lettura complementari, originali e stimolanti. Romano Sansone e Carlo Riggi sceglieranno 4 foto al mese da "sezionare" a proprio modo, secondo le proprie corde, la propria sensibilità e il proprio stile”.

La selezione delle fotografie, oltre che a promuovere le migliori, era ottimizzata per esaltare le differenze di stile e di gusto dei due commentatori, ma la scelta cadeva comunque sempre su foto di spessore, con valori tecnici, estetici e semantici in grado di supportare i piccoli deliri che Romano e io imbastivamo su di esse. Alcuni degli autori ospiti della galleria de “Il Rosso e il Nero”, infatti, sono oggi fotografi assai conosciuti e apprezzati.

Quella della critica d’arte è sempre stata una questione complessa, a volte ambigua, sospesa com’è tra il gusto soggettivo, la componente tecnica, e la dimensione commerciale. Nelle interminabili diatribe tra Romano e me era palpabile il gusto della contrapposizione dialettica tra due modi diametralmente opposti di guardare alla cosa, analitico e razionale il suo, istintivo ed emozionale il mio; ma era evidente anche l’ammirazione reciproca per l’altrui punto di vista, nel quale ci rispecchiavamo più di quanto le regole del gioco ci permettessero di ammettere.
Non ho mai capito davvero chi dei due fosse il più istintivo e chi il più razionale, ed è giusto così, poiché la valutazione di una foto non può prescindere da entrambe queste componenti, che soltanto per la rigorosa assegnazione dei ruoli ci ostinavamo a scindere in modo così netto: eravamo il Rosso e il Nero, appunto, senza vie di mezzo.

Il Rosso e il NeroIn questa piccola chicca storica si vede come la prima versione della locandina suggerisse addirittura l’idea di un duello, poi fortunatamente mitigata nella versione definitiva, con una grafica decisamente meno “cruenta”.

Per illustrare il mio personale approccio alla critica fotografica, riporto qui un paio di commenti tratti dalla galleria. Emerge in essi un carattere marcato, una precisa determinazione a trascendere il dato tecnico e/o puramente estetico per accedere a contenuti più intimi. Mi interessa poco la correttezza formale di una fotografia, quanto invece la sua capacità di suscitare emozioni, evocare immagini mentali, ricordi, fantasie e sogni. Non che la tecnica non sia importante, ma mi piace leggere l’immagine lasciando che essa evochi dentro di me una narrazione, piuttosto che esprimere su di essa dei freddi giudizi tecnici. Sempre che l’immagine si presti a questo tipo di operazione.

“Insignificante?” di Luca Marzola ©

“Insignificante?” di Luca Marzola

L’immagine di Luca Marzola, costruita su un registro rigorosamente metafisico, porge il proprio surreale enigma fin dal titolo. “Insignificante?” è ovviamente una domanda paradossale, resa più capziosa dalla pluralità di “significanti” disseminati nella foto. Marzola arruola i suoi omini-interpunzione come elementi di perturbazione del sistema, sulla scorta del principio per cui ciò che esiste è solo quel che il fruitore vede, e il senso della foto è ciò che la sua mente può significare dopo lo shakeraggio percettivo cui è sottoposta. I feticci di Marzola sono elementi bizzarri, parti scisse del Sé, residuati di un incubo diurno, resti alienati d’identificazioni parziali; alterano la congruità della scena, spezzano il ritmo, introducono esclamazioni di senso sullo sfondo di un gran punto di domanda esistenziale. Un animo ingenuo potrebbe chiedersi: “Fotografia?”. Marzola se la riderebbe, pensando a Magritte, a Breton e al gatto di Schroedinger…

La porta” di Morgan Bencivenga ©

“La porta” di Morgan Bencivenga

Ingredienti essenziali, una linea e due colori, un soggetto minimale per una pietanza a forte gradiente emozionale. La regola dei terzi, pur rispettata al millimetro, non si impone con pesantezza all’osservatore. Lo sguardo resta libero, sollecitato con garbo da quella che sembrerebbe una porta di calcio ma è invece una soglia, una cornice ghirriana, il punto di avvio di un viaggio wendersiano fino alla fine del mondo. Un viaggio immaginario ma non lisergico: la porta non è quella di Huxley, è saldamente ancorata ad una realtà familiare, sugo e terra, fango e sudore, erba secca, puzza di piedi. Paesaggio interiore di memorie evocate. Un condensato di esplicito e implicito, intimo e condiviso. Uno sguardo naturale, privo di bizzarrie o di eccessi, appena sussurrato. Un enigma tranquillo, una tensione lieve, la cui risoluzione non è data dall’andare in goal penetrando una porta senza reti, ma dal mettersi lì davanti, in silenzio, pazientemente ad aspettare. Quella di Bencivenga è un’immagine da ascoltare.

In questo tipo di approccio non si tratta ovviamente di “indovinare” le intenzioni dell’autore. L’immagine innesca una deriva di pensiero in un certo senso autonoma, essa cresce nella mente dell’osservatore e così si tiene viva, alimentandosi del potenziale creativo della platea dei fruitori. I significati dell’opera non vengono traslati unilateralmente dall’autore al fruitore, ma vengono co-costruiti, in un continuo rimando simbolico tra l’autore, l’opera e l’osservatore. Così che lo stesso fotografo, infine, sia aiutato dal fruitore a scoprire nella propria immagine significati che erano in embrione, ma che non erano ancora del tutto svelati. A questo, per me, serve la critica fotografica. E non occorre avere il patentino per esercitarla proficuamente. Ciascun fruitore d’arte è un “critico”, e ciascuno può contribuire, con un minimo d’impegno, a questa continua fecondazione di significati.

A rileggere questi brevi commenti del 2009 mi pare evidente come essi ambissero a farsi “opera” a loro volta, accanto alla foto che accompagnavano. Un piccolo peccato di vanità, sempre però temperato dall’autoironia che aleggiava nelle nostre prolungate conversazioni all’interno della redazione di Nadir, dove le idee prendevano forma.
Per espiare in parte questo peccato e provare a fornire uno strumento utile ai lettori interessati, ho preparato un piccolo testo dove ho raccolto sinteticamente le linee guida alle quali personalmente mi rifaccio nella lettura di un’immagine fotografica, che credo si ritrovino facilmente anche nei due commenti riportati sopra. Si tratta di un vertice di lettura certamente soggettivo e parziale, ammesso che ce ne siano di definitivi, e va considerato come un modello con cui confrontarsi, da espandere o limare secondo le peculiari sensibilità di ciascuno. Magari anche un modo per affinare le proprie capacità di valutazione di un’immagine, emancipandosi, quando è necessario e quando il materiale si presta, dal laconico “mi piace” che ormai dilaga sul web.

È possibile scaricare il documento in formato pdf cliccando sul link qui sotto. Spero che la lettura non risulti troppo faticosa.
Chissà come avrebbe commentato questo mio testo il buon Romano. Quanti discorsi sono rimasti incompiuti tra noi…

Carlo Riggi © 10/2017
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