La Patagonia identifica la parte meridionale del continente sudamericano e grazie a scrittori come Bruce Chatwin e alla bellezza delle sue montagne, come il Cerro Torre e il Fitz Roy, teatro di imprese e drammi alpinistici, è divenuta nel tempo mito della lontananza, della solitudine e di libertà.
Si racconta che anche Butch Cassidy e il Sundance Kid vi trovarono un posto dove nascondersi, inseguiti per tutta l'America dagli implacabili detectives della Agenzia Pinkerton. Un posto fatto di spazi immensi, vento fortissimo, ghiacciai giganteschi, valli nascoste e misteriose. In realtà, dietro l'avventura alpinistica e geografica si nascondono storie di miseria, di ingrato lavoro, di fughe da passati oscuri che è meglio non rivangare (alcuni ex nazisti ora pastori alemàn, in fuga dalla loro precedente esistenza, ad esempio), di storie tristissime di solitudine. Una terra aspra, difficile, inadatta a chi non sia animato dal desiderio di fuggire da ciò che è noto o dal peso del passato: alpinisti in cerca dell'ideale della montagna perfetta o disperati reietti di una vita maledetta. Talvolta il mito costruito è meglio della realtà vera, che si preferisce ignorare per inseguire un senso di libertà che svuota il pensiero e il fisico. Un altrove, astratto come un miraggio, una terra di mezzo tra la frenesia metropolitana di Buenos Aires e l'impossibile deserto antartico. Tuttavia questa è la Patagonia atlantica, quella argentina, la più conosciuta e visitata: esiste anche un'altra Patagonia, quella del versante sul Pacifico, totalmente diversa.
Lungo e stretto, costellato di fiordi, isolette ed insenature, il versante occidentale riceve i furiosi venti dell'oceano, che scaricano le precipitazioni sulla stretta lingua di terra che precede la cordillera andina, creando una foresta temperata fittissima ed impenetrabile. Poi, dopo aver superato le Ande, i turbini percorrono a tutta velocità, come treni impazziti, l'immensa pianura del versante Est. In mezzo a questa furia della natura troneggia il secondo campo di ghiaccio più grande del mondo, dopo quello della Groenlandia e al di fuori dei Poli: lo Hielo Continental (Ghiacciaio Continentale, diviso in Sur e Norte, separati dal Canale di Baker) è una immensa distesa quasi piatta, da cui si dipartono bracci laterali, che vanno a scaricarsi in grandi laghi sul versante argentino e direttamente in mare da quello cileno.
Negli anni ho visitato molti di questi ghiacciai, spesso mappati e nominati da quel grande esploratore italiano dimenticato, ovvero il padre salesiano Alberto Maria De Agostini, che ha dedicato anni all'esplorazione di queste terre lontane ed affascinanti.
I ghiacciai laterali dello Hielo sul versante argentino, si esauriscono spesso in grandi laghi, come il noto Perito Moreno, divenuto nel tempo attrazione turistica, e l'avanzare del ghiacciaio e il conseguente crollo di grandi colonne di ghiaccio, spesso alte anche cento metri, formato icebergs immensi di colore azzurrino.
Il versante cileno è molto meno accessibile e quasi del tutto disabitato: non vi sono strade né piste di atterraggio, in quanto l'intricata vegetazione non lo permette, e l'unico modo per avvicinarsi alla costa e ai ghiacciai è la navigazione. Con emozione, dopo alcuni giorni di navigazione, si intravedono i primi icebergs, piccoli e bianchi, che vanno alla deriva verso il mare aperto per poi sciogliersi lentamente. Il canale stretto e allungato del fiordo, percorso lentamente come un sentiero iniziatico, si apre improvvisamente, l'acqua ora è piena di tanti icebergs di diverse dimensioni, mentre in fondo, tra le nuvole basse, occhieggia la grande parete bianca del ghiacciaio San Rafael, uno dei più estesi del versante cileno. E' difficile capirne le dimensioni, sia perché è lontano, sia perché il suo fronte, lungo ben tre chilometri, non è paragonabile a nessun ghiacciaio del Bianco, del Rosa o dell'Oberland bernese, di solito larghi qualche centinaio di metri. La nave avanza lentamente all'interno della laguna San Rafael, ed è obbligata a mantenere una distanza minima di un chilometro dal fronte glaciale, in quanto le torri di ghiaccio che ogni tanto crollano in acqua, grandi come palazzi a dieci piani, provocano un'onda di rimbalzo che scuote l'intera laguna e che fa rollare la nostra imbarcazione.
In canotto giriamo ripetutamente all'interno della laguna, soffermandoci ad ammirare le forme degli icebergs, colorati in tutte le sfumature di un azzurro luminoso e trasparente, segno di una compressione di centinaia o forse migliaia di anni. Proprio per questo ho innestato sulla mia Leicaflex SL2 un Elmarit 19mm f/2,8, seconda versione, un'ottica grandangolare estrema, per poter utilizzare tempi adeguati, anche sopra lo 1/125 di sec, in modo da controbilanciare i continui scossoni che avvengono a pelo d'acqua. Questo obiettivo è uno dei grandi capolavori della moderna tecnologia Leica degli anni Novanta, con una resa estremamente incisa da f/4 in avanti, bassa distorsione, e una purissima resa dei colori, quasi trasparenti. Il barilotto risulta molto compatto, e solo il grosso paraluce lo ingigantisce alquanto, ma occorre considerare l'estremo angolo di campo. Rispetto al classico Super Angulon 21/4 del 1968, il nostro Elmarit non solo guadagna un intero stop di luminosità, il che si riflette positivamente anche nella visione reflex, ma un maggior angolo di campo, e di una tecnologia dei vetri ad alta rifrazione nettamente superiore. Inoltre sono presenti anche le lenti flottanti, per correggere l'aberrazione sferica alle brevi distanze, sino a 30cm. Il primo Leitz Elmarit 19/2,8 del 1975 era un disegno della Leitz Canada, mentre la seconda versione da me utilizzata è stata concepita a Solms. La lunghezza focale così particolare nasce dalla volontà di creare un obiettivo con un angolo di campo più estremo del 21mm, ma che non si confondesse col 18mm della Carl Zeiss, suo primo rivale.
Raramente scatto con il diaframma più chiuso di f/5,6, proprio per mantenere sempre un tempo di otturazione quanto più possibile elevato: la ns nave Skorpios, ripresa dal canotto, appare come un piccolo puntino rosso nell'immensa laguna, anche grazie all'ampliamento prospettico dell'Elmarit. Il tempo rimane patagonico per tutti i due giorni che restiamo nella laguna, ovvero coperto, freddo e parzialmente ventoso, pertanto decido di inserire qualche nota di colore nelle immagini, che sia l'arancio del canotto, o la giacca a vento viola di mia moglie Anna. Da notare che la zona, ora Parco Nazionale, ai tempi della nostra visita, negli anni Novanta, vedeva un afflusso di circa un centinaio di persone l'anno, forse meno, contro le 2500 persone conteggiate nel 2018.
La nave è ferma: siamo immersi in un silenzio irreale, interrotto dal crollo improvviso di un blocco di ghiaccio. Avverti, con la ragione e con l'anima, di essere in un luogo lontano da tutto e che quella immensità con cui sei a contatto è niente di fronte alla ulteriore immensità che esiste (lo sai anche se non lo vedi), ovvero il ghiacciaio che si trova al piano superiore, il grande Hielo Continental, da cui nasce il piccolo ghiacciaio San Rafael. La mente ha bisogno di tempo per adattarsi sia al nuovo concetto di spazio, sia alle relazioni delle distanze. E' una sensazione che ho provato spesso, sia che si tratti dell'aspra aridità del Rhub AlKhali, o dell'infinita costa ghiacciata della Penisola Antartica. Esistendo carte geografiche e fotografie aeree, so per certo che questi soverchianti spettacoli naturali possiedono un inizio e una fine, ma quando ci sei dentro, la mente si perde in una dimensione fisica e temporale cui non sei abituato, e che ti strega ogni volta.
In questo consiste il mito della Patagonia: spazi sconfinati da fin do Mundo, non solo terrestri ma mentali, ove l'immaginazione può vagare all'infinito per ricreare sempre nuovi mondi, reali e immaginari. L'ultima terra abitabile, al di fuori della civiltà del controllo: un modo fantastico dove è possibile ricostruirsi una esistenza, l'ammaliante sensazione di una altra possibile vita. E l'Elmarit da 19mm li cattura non solo per riprodurli, ma per amplificare il sogno!
Perché la Patagonia, prima di essere un luogo geografico, è una necessità della nostra immaginazione!
Pierpaolo Ghisetti © 01/2021
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LEICA Elmarit R 19mm
Negli anni Sessanta, agli albori del sistema Leicaflex, i super-grandangolari da 21mm erano forniti dalla Schneider Kreuznach, società da sempre specializzata in questo settore; nel Febbraio 1975 la Leitz si affrancò presentando un 19mm di nuovo disegno, con codice 11225 e luminosità spinta a f/2,8: il progetto di questa nuova ottica non poteva che essere affidato a Walter Mandler di Leitz Midland, al tempo punta di diamante dell'innovazione ottica Leitz.
Mandler volle andare oltre scendendo a 19mm e creando una lunghezza focale particolare che si differenziasse dal classico Zeiss Distagon 18mm f/4. Composto da 9 lenti in 7 gruppi con vetri ad alta rifrazione e dispersione anomala ed un classico disegno retrofocus, il nuovo Elmarit-R copriva un angolo di campo da 95,7° e pesava ben 550g, con minima distanza di messa a fuoco a mezzo metro (30cm nei primissimi esemplari); l'obiettivo non prevede elementi flottanti e alle distanze inferiori ad 1 metro la curvatura di campo è sensibile ed occorre chiudere molto il diaframma (anche f/11) per avere a fuoco simultaneamente centro e bordi con una buona qualità; il diaframma esagonale chiude da f/2,8 ad f/16 con arresti a scatto anche sui mezzi valori.
Il grosso paraluce rettangolare in plastica 12529, da ben 11cm di sezione, era fornito di serie ed inseribile ad incastro tramite due perni cromati; il barilotto presenta una sezione anteriore molto vistosa ed ingombrante con un attacco filettato da 82mm e speciale tappo a pressione; la Leitz sconsigliava ufficialmente l'uso di filtri in quanto avrebbero inevitabilmente incrementato una vignettatura fisiologica che, nonostante gli elementi convergenti anteriori di grande diametro, è davvero notevole a tutta apertura, riducendosi sensibilmente a f/5,6; in caso di necessità la Casa suggeriva filtri B&W da 96mm con stepper 82-96mm.
L'obiettivo venne inizialmente fornito con due camme; poi, partendo dalla matricola 2.736.900, fu aggiunta anche la terza camma.
La criticità e l'anzianità del progetto sono anche responsabili di una distorsione con andamento ad onda, a barilotto nelle zone centrali e a cuscinetto ai bordi, molto visibile e difficile da mappare anche in digitale; nonostante sia nato dopo l'avvento del multicoating, il 19mm f/2,8 Elmarit-R apparentemente presenta un antiriflessi non particolarmente sofisticato e risente del flare di controluce, il che rende indispensabile l'uso costante del paraluce dedicato.
Nella foto satellitare: la laguna San Rafael e il ghiacciaio segnato dalla freccia: notare gli eisbergs nella laguna e il canale d'accesso in alto. Coordinate 46°40′S 73°55′W
L'obiettivo si caratterizza per una bella resa dei colori, tipicamente Leitz, apprezzabili nel paesaggio; la resa ottica era ottima al centro già a tutta apertura e a tutti i diaframmi, con una progressiva perdita di definizione a 2/3 del fotogramma per poi decrescere ulteriormente ai bordi estremi; diaframmando la qualità nelle zone mediane e ai bordi migliora progressivamente pur restando inferiore rispetto al centro del fotogramma, penalizzata da un evidente astigmatismo volutamente introdotto per controllare la forte curvatura di campo; sicuramente la correzione delle aberrazioni, tra cui si segnalava anche un evidente difetto di coma, era molto difficile da ottenere proprio per le caratteristiche principali del progetto, forse fin troppo spinto per l'epoca; tuttavia la difficoltà di superare questa realizzazione trova evidenza nel fatto che l'Elmarit rimase in produzione per ben quindici anni, ovvero sino al 1990; si suggerisce quindi di lavorare ad f/8 o f/11 per avere una qualità adeguata in ogni zona, tuttavia l'alto contrasto dell'obiettivo diaframmato forniscono un'appagante piacevolezza di resa soggettiva.
L'indice di Qualità, pubblicato a suo tempo dal Centro Studi di Progresso Fotografico mostra chiaramente come l'ottica in questione presenti già a f/4 una resa molto alta, di poco inferiore alla resa ottenibile a f/5,6, molto buona la vignettatura ed eccezionale la distorsione per la lunghezza focale, appena il 3%, definita 'sufficiente' in generale ma ottima per un super grandangolare.
Per approfondire storia e tecnica del Leica Elmarit R 19mm F/2.8, vedi www.wetzlar-historica-italia.it/19R.html dove l'articolo prosegue con la 2a serie, oggetto di questo articolo.
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