L’avvento della fotografia digitale ha mandato definitivamente in pensione strumenti che ai tempi della pellicola erano ritenuti indispensabili come i filtri di correzione colore e quelli di conversione, ma il filtro polarizzatore continua ad avere senso di esistere e di essere sempre presente nella borsa del fotografo.
Ricordate la temperatura cromatica, tormento e cruccio di chi lavorava con le diapositive? Beh, oggi ci fa un baffo, dato che il bilanciamento del bianco si fa in macchina o – più professionalmente – in postproduzione.
A me è accaduto di sbagliare clamorosamente l’impostazione della temperatura cromatica in fase di ripresa: avevo inavvertitamente selezionato “tungsten” sul dorso digitale della Phase One, mentre fotografavo nel deserto in piena luce solare; quando ho aperto i RAW mi sono ritrovato ad osservare rocce e montagne di un imbarazzante colore verdastro. Ma niente paura: mi è bastato selezionare “daylight” in Camera Raw e tutto è andato a posto. Una libidine!
Anche i filtri per il bianco e nero sono diventati inutili. Oggi il bianco e nero (serio) si fa in postproduzione, con la possibilità di simulare l’effetto di qualunque tipo di filtro. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalla Leica M Monochrom e dal dorso Phase One Achromatic: sensori che “vedono” esclusivamente in bianco e nero e che permettono l’utilizzo dei filtri colorati, come si faceva una volta (devo ammettere, con molto divertimento).
Ma esistono ancora filtri che possono essere usati con successo nella fotografia digitale e in questo articolo ci soffermeremo sul filtro polarizzatore.
Schematizzazione del funzionamento di un filtro polarizzatore. In alto, le molecole del filtro sono orientate parallelamente al piano di vibrazione del raggio polarizzato: il raggio riflesso passa attraverso il filtro. In basso, le molecole del filtro sono orientate perpendicolarmente al piano di vibrazione del raggio polarizzato: il raggio riflesso viene bloccato.
Per capire come funziona, bisogna riportare alla mente le nozioni di fisica imparate ai tempi del liceo e considerare la natura ondulatoria della radiazione luminosa. Sappiamo, infatti, che le radiazioni elettromagnetiche (di cui la luce visibile rappresenta una minima frazione) possiedono una doppia natura: corpuscolare e ondulatoria. Secondo la natura corpuscolare, un flusso di fotoni (particelle elementari considerate mediatrici dell’interazione elettromagnetica) si propaga nello spazio alla velocità della luce.
Tuttavia i fotoni, essendo oggetti quantistici, possiedono tanto le proprietà delle particelle quanto quelle delle onde: da questo deriva che la radiazione elettromagnetica possiede parametri quali l’ampiezza, la lunghezza d’onda, la frequenza, per non citare che i più conosciuti e usati (anche per descrivere i fenomeni dell’ottica). Una caratteristica tipica delle onde elettromagnetiche è la polarizzazione.
Per “polarizzazione”, in fisica, s’intende la direzione di oscillazione del vettore campo elettrico durante la propagazione dell’onda nello spazio. Tradotto in italiano corrente, questo significa che i raggi di luce, una volta polarizzati, vibrano su un solo piano. Ma come si fa a polarizzare un fascio di fotoni?
Un raggio di luce bianca che viaggia libero nello spazio vibra disordinatamente in tutte le direzioni. Quando però questo raggio colpisce una superficie riflettente non metallica (acqua, ghiaccio, ma anche semplicemente un muro, una roccia, una persiana verde) ne viene per così dire schiacciato, appiattito: il raggio riflesso vibrerà secondo un solo piano, parallelo alla superficie stessa. Si dice che in questo caso il raggio è stato polarizzato.
Anche le goccioline d’acqua in sospensione nell’atmosfera sono in grado di polarizzare la luce che le attraversa (polarizzazione per diffusione). A sua volta il filtro polarizzatore ha la capacità di polarizzare la luce che lo attraversa. Questo perché le molecole che costituiscono la sostanza polarizzante sono orientate in modo da formare una specie di griglia (immaginate una griglia metallica composta di sbarre parallele), che lascia passare solo la luce che vibra secondo il senso di orientamento delle molecole stesse.
Utah. Arches National Park. Alle due del pomeriggio il sole si trovava nella posizione ideale: quasi esattamente alla mia destra. Ho scattato due fotografie: quella in alto senza filtro, quella in basso con il filtro polarizzatore orientato in modo da ottenere l’effetto più marcato. Il risultato è rappresentato non soltanto da una maggiore saturazione dell’azzurro del cielo, contro il quale risaltano le nuvole bianche, ma anche da un miglioramento dei colori del terreno e delle rocce, anch’essi più pastosi, puri e saturi.
Facciamo un altro esempio.
Visualizziamo il raggio di luce polarizzata come una lama d’acciaio molto sottile, e cerchiamo di far passare questa lama attraverso una grata composta da stecche parallele fra loro. Se la lama è disposta in senso parallelo rispetto alle stecche, passerà tranquillamente attraverso la grata, infilandosi tra una stecca e l’altra. Ma se cerchiamo di far passare la lama tenendola perpendicolare al senso di orientamento delle stecche, queste la bloccheranno, impedendole di passare. Il filtro polarizzatore si comporta esattamente come la nostra grata.
Nella sua forma più semplice, esso è composto molecole orientate in modo da bloccare l’oscillazione del campo elettrico della radiazione elettromagnetica, quando questo non ha lo stesso orientamento delle molecole. Grazie a questa proprietà, possiamo eliminare la luce riflessa dalle superfici, ottenendo diversi effetti interessanti:
- restituire trasparenza all’acqua, permettendo di vedere quello che c’è sotto la superficie;
- rendere più saturi i colori delle superfici non metalliche, eliminando parte della luce da queste riflessa (con le superfici metalliche non funziona, perché queste riflettono la luce senza polarizzarla);
- rendere più azzurro e più saturo il cielo, bloccando la luce polarizzata diffusa dalle goccioline di vapore acqueo sospese nell’atmosfera.
I risultati migliori si ottengono quando la fonte di luce è posizionata a novanta gradi rispetto all’asse di ripresa, cioè quando il fotografo ha il sole di fianco.
Se il sole è alle spalle, l’effetto sarà egualmente visibile, anche se meno intenso; nel controluce, invece, il filtro deve essere tolto, non solo perché sarebbe inefficace, ma anche perché potrebbe indurre riflessi indesiderati (ne parleremo dopo).
I filtri polarizzatori sono alloggiati all’interno di una ghiera girevole, che consente di orientare il piano di polarizzazione.
In commercio esistono due tipi di filtri polarizzatori: lineari e circolari.
I filtri circolari sono più costosi, ma non per questo sono più efficaci dei lineari: l’effetto è assolutamente identico. La differenza consiste in un diverso principio di funzionamento: il polarizzatore circolare compie un doppio lavoro di polarizzazione e depolarizzazione per evitare problemi ai sensori autofocus delle fotocamere, molti dei quali sono sensibili al piano di polarizzazione della luce che li colpisce.
Un parametro di cui tenere conto quando si usano i filtri polarizzatori (e non solo quelli) è il fattore-filtro.
Esso indica l’incremento di esposizione necessario a compensare l’assorbimento di luce dovuto al filtro.
Il filtro polarizzatore, ad esempio, richiede una compensazione che può arrivare a due stop, secondo le condizioni di luce e l’intensità della polarizzazione.
Il fattore-filtro è (o dovrebbe essere) sempre indicato sulla confezione o sulla montatura del filtro. Esistono due modi per farlo.
Il primo – e più diffuso, oltre che più professionale – consiste nell’indicazione del fattore di incremento dell’esposizione: così 2x (si legge “due per”) vorrà dire che al sensore deve arrivare il doppio della luce necessaria senza filtro, e cioè che il diaframma va aperto di uno stop (ad esempio, da f/11 a f/8) oppure che il tempo di posa va raddoppiato (ad esempio da 1/60 a 1/30 di secondo); 4x indica un incremento di due stop, 8x di tre e così via. Il secondo sistema segnala semplicemente di quanti stop incrementare l’esposizione. Così ad esempio +2 significa che il diaframma va aperto di due valori, e così via.
La tabella che segue mette a confronto, a titolo esemplificativo, i due sistemi.
2x |
+1 |
uno stop |
3x |
+1 2/3 |
uno stop e mezzo |
4x |
+2 |
due stop |
6x |
+2 2/3 |
due stop e mezzo |
8x |
+3 |
tre stop |
Ma che utilità può avere conoscere il fattore-filtro? Non ci pensa l’esposimetro a compensare automaticamente la caduta di luce? In teoria sì, ma bisogna considerare due cose. La prima è che le cellule esposimetriche non reagiscono tutte allo stesso modo: la loro risposta spettrale potrebbe non essere costante per tutte le lunghezze d’onda e rendere così inaffidabile la lettura. Perciò, a essere superpignoli, bisognerebbe effettuare la misurazione esposimetrica senza filtro, applicando poi il fattore-filtro manualmente. Nessuno lo fa, anche perché lavorando in digitale è possibile vedere subito se la foto “è venuta” (o almeno così si crede), ma ho già assistito a svarioni madornali.
Purtroppo le case produttrici (proprio per i motivi appena elencati) tendono a non indicare più il fattore-filtro sulla confezione, per cui l’unica soluzione è mettere il filtro, scattare e sperare nella benevolenza degli dèi della luce.
La seconda considerazione riguarda proprio l’incremento di esposizione imposto dal filtro. Ci sono due modi per farlo: aprire il diaframma o allungare il tempo di otturazione (o entrambe le cose insieme).
Ora, l’apertura del diaframma non ha effetti pesanti se si fotografa un paesaggio all’infinito (a parte l’aumento delle aberrazioni ottiche che si può verificare ai diaframmi più aperti, ma qui solleveremmo problematiche dalle quali il dilettante medio non si sente neppure sfiorato), ma se ci sono soggetti in primo piano, l’aumento dell’apertura relativa può provocare sfocature dovute alla diminuzione della profondità di campo, se non si cura in modo meticoloso la scelta del piano di messa a fuoco.
D’altra parte, se s’incrementa il tempo di otturazione si rischiano immagini mosse (o più subdolamente micromosse), data l’abitudine diffusa di lavorare a mano libera. Il dilettante medio (sempre lui) crede di poter lavorare a un cinquantesimo di secondo, “tanto io ho la mano ferma”, salvo poi restare amaramente deluso dalla nitidezza delle sue fotografie, una volta visualizzate al 100% sullo schermo del PC. Da tutto questo consegue che l’uso del polarizzatore può diventare pericoloso se non si ricorre al cavalletto, o almeno a un appoggio stabile.
Arizona. Grand Canyon National Park. Panorama da Vista Encantada Point. Sullo sfondo la Navajo Mountain, la montagna sacra dei Navajo. Uno degli effetti del polarizzatore è una (parziale) penetrazione della foschia atmosferica, che permette di rendere più leggibili i particolari lontani del paesaggio.
Di che cosa è fatto il filtro polarizzatore?
I materiali sono diversi, essenzialmente oggi si usano vetro ottico o resina.
I filtri in resina sono più economici, ma possono rigarsi e patiscono il calore, che può deformarli (okay, chi dice che esagero provi a fotografare nel deserto dello Utah alle due del pomeriggio, poi ne riparliamo), alterando il perfetto parallelismo tra le due superfici e inducendo difetti di rifrazione.
Quelli in vetro ottico sono più resistenti e sicuramente più indicati per l’uso all’aperto.
I diversi obiettivi di ogni corredo sono caratterizzati da diametri differenti.
Per evitare di dover acquistare tanti filtri quanti sono gli obiettivi, si può fare ricorso a una serie di anelli adattatori, oppure ai sistemi tipo Cokin o Lee Filters, che permettono di inserire il filtro (sempre lo stesso) in una cornicetta universale; il raccordo ai diversi obiettivi avviene grazie ad anelli adattatori.
Sirmione (Lago di Garda). L’uso del polarizzatore ha reso trasparente l’acqua, permettendo di distinguere i sassi sul fondo.
Ci sono “controindicazioni” all’uso dei filtri?
Beh, controindicazioni proprio no, ma precauzioni d’uso sì. Vediamo perché. Prima di tutto va detto che un filtro, sia esso in vetro ottico o in resina, è di fatto un elemento estraneo che noi aggiungiamo a un sistema ottico (l’obiettivo) progettato per lavorare da solo: l’aggiunta di due ulteriori superfici aria-vetro e vetro-aria implica il rischio di riflessi parassiti, flare e immagini fantasma; senza contare che se le due facce del filtro non sono perfettamente piane e parallele (come può avvenire per i filtri più economici) possono insorgere difetti di rifrazione.
Inoltre, la polvere e la sporcizia depositate sulle superfici del filtro possono diminuire il contrasto e la nitidezza dell’immagine. Infine, se il filtro non è originale (cioè prodotto dallo stesso fabbricante dell’obiettivo), il trattamento antiriflesso a cui esso è stato sottoposto risulterà diverso da quello a cui sono state sottoposte le lenti dell’obiettivo: questo può causare fenomeni di interferenza ottica che abbassano la qualità dell’immagine.
Scozia. Costa atlantica nell’estremo nord delle Highlands, presso Durness. In una situazione come questa il polarizzatore è inutilizzabile: il cielo è coperto e la luce proviene da tutte le parti, senza ombre nette e ben definite. L’unico modo per evitare fotografie scialbe e senza contrasto è intervenire in postproduzione, regolando sapientemente (cioè senza strafare) colori e contrasti.
Soluzioni? Poche e semplici:
- usare esclusivamente filtri di buona qualità e possibilmente originali, cioè prodotti dallo stesso fabbricante dell’obiettivo. Questo ci rende ragionevolmente tranquilli non solo sulla qualità del filtro, ma anche sull’uniformità del trattamento antiriflesso;
- usare un efficace paraluce (che andrebbe usato sempre!), per evitare che i raggi di luce esterni al campo inquadrato vadano a colpire il filtro, inducendo flare e rifrazioni parassite;
- curare con pignoleria maniacale la pulizia dei filtri, che vanno sempre mantenuti nella loro custodia ed estratti solo al momento dell’uso; ovviamente, quando si sporcano vanno puliti, prima con un pennellino morbido poi con il fiato e una cartina Kodak; usare con cautela i liquidi detergenti, soprattutto se economici.
Abbiamo dimenticato a casa il filtro: è possibile simulare l’effetto del polarizzatore in postproduzione? Più o meno, con pesanti limitazioni.
In postproduzione non si possono eliminare i riflessi dall’acqua, ma si possono saturare i colori delle superfici e – soprattutto – migliorare l’aspetto del cielo: basta diminuire la luminosità (NON aumentare la saturazione!) del canale del blu e il cielo apparirà intenso e saturo, facendo risaltare le nuvole.
Ma questo è l’unica correzione ragionevolmente ottenibile: gli effetti di “vera” polarizzazione si ottengono soltanto ricorrendo all’apposito (e indispensabile) filtro.
Michele Vacchiano © 03/2017
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I POLARIZZATORI CIRCOLARI BILORA LOW PROFILE
Negli anni ho accumulato un numero incredibile di filtri polarizzatori. Dapprima erano tutti lineari visto che il digitale era ben lontano dall’arrivare e la prima reflex analogica a presentare dei problemi con l’esposizione a causa della presenza del filtro polarizzatore fu la splendida Pentax LX. Il sistema di esposizione della LX, vera innovazione per l’epoca, usava una sola cellula al silicio posta all'interno dell'apparecchio sotto lo specchio mobile. Questa cellula era rivolta all'interno verso il piano pellicola e misurava prima e durante l'esposizione stessa la luce riflessa da una superficie con un particolare trattamento riflettente sulla prima tendina e/o dall'emulsione della pellicola stessa. Per questo motivo, proprio con la Pentax LX, è nato il problema dei polarizzatori circolari e lineari. Con i polarizzatori lineari, la luce che arriva sullo specchio ha un'intensità diversa rispetto a quella iniziale, a seconda di quanto si ruota il filtro. Poiché i sensori che stanno dietro gli specchi di fotocamere come le Pentax LX sono tarati per ricevere una percentuale fissa della luce totale (nel caso della LX il 15%), se ricevono più luce di quella che si aspettano portano il fotografo a sottoesporre, e se ne ricevono di meno sovraespongono. I polarizzatori circolari invece polarizzano la luce in maniera diversa, senza variarne l'intensità: quindi sul sensore continua ad arrivare, attraverso la parte semiriflettente dello specchio, la stessa percentuale di luce che gli arriverebbe senza filtro. Va da sé che il problema sorge solo quando si lavora in manuale affidandosi ai LED del mirino: lavorando in automatismo, con la LX c'è un controllo continuo dell'esposizione in tempo reale anche quando lo specchio è sollevato.
Ma la Pentax LX fu solo l’inizio della caduta in disgrazia dei polarizzatori lineari ed i miei ottimi filtri Zeiss vennero messi da parte uno alla volta. Con le digitali ho dovuto rinnovare tutti i miei polarizzatori lineari, ho provato tante marche e, tutto sommato, tranne le più economiche, andavano tutte bene: eventuali piccole dominanti cromatiche si eliminavano facilmente in postproduzione, ma restava il problema dei riflessi. Già, non sempre si pensa al fatto che il nostro amato e costosissimo obiettivo dall’ottimo trattamenti antiriflessi possa diventare pari ad un qualsiasi Ciofegon da pochi Euro per colpa dell’inadeguato (spesso inesistente) trattamento antiriflessi dei filtri!
Quando ho comprato il 10-20 Sigma EX ed il 24-70 Zeiss ho scoperto che nessuno dei filtri in mio possesso era del diametro giusto. Pensai allora, visto il prezzo esorbitante dei filtri polarizzatori di diametro elevato, di comprarne uno di marca sconosciuta su internet. Be’, creava riflessi ed aloni diffusi anche in situazioni non critiche per cui l’ho dovuto mettere da parte. La salvezza mi è venuta dalla Bilora i cui polarizzatori circolari hanno un prezzo molto buono per la qualità e, nei test che ho fatto immediatamente, non aggiungono riflessi a quelli che l’obiettivo farebbe senza polarizzatore. Sono anche privi di dominanti cromatiche - almeno a livello visivo - per quanto questo, come dicevo prima, oggi non sia un grave problema. La montatura “slim” (Bilora la chiama “low profile”) assicura l’assenza di vignettatura anche con gli obiettivi supergrandangolari.
Rino Giardiello, marzo 2017