L'Essere
Umano è, per sua inoppugnabile natura, vulnerabile.
Vulnerabile nel corpo, fragile e precaria sembianza
destinata a corrompersi fino a tornare polvere.
Vulnerabile nello spirito, debole ricettacolo di
futilità esposto alle lusinghe del vizio, del peccato,
della perversione. Mi servo non a caso di termini 'da
sermone', imbevuti di moralismo, necessari però a far
luce sulle premesse biografiche all'opera di Witkin: una
rigorosa educazione religiosa, contrastata tra il
cattolicesimo della madre e l'ebraismo del padre.
Perché
partire proprio da qui? E' presto detto: perché non può
esserci blasfemia laddove non vi sia Fede (un po' come
dire, semplificando al massimo, che una bestemmia detta
da chi non creda in dio non ha valore né senso di
esistere, in quanto rivolta a qualcosa che si presume
non esista). Le immagini di Witkin sono invece
un'apoteosi del blasfemo; trasudano insubordinazione nei
confronti delle convenzioni e della morale cristiana; si
nutrono di sacralità profanate.
E risulta chiaro come non vi
sia necessità di ribellione laddove non si riconosca il
potere di un'autorità superiore contro cui reagire.
Immagini come queste, dunque, non potevano che essere
generate da un'interiorità profondamente influenzata da
concetti quali Redenzione e Condanna; la tensione ideale
verso la Salvezza, scontrandosi con l'umana discesa
terrena verso la Perdizione, genera in Witkin una sorta
di poetica dell' "angelo caduto", esemplificata
chiaramente in una delle sue più celebri immagini, Woman once a Bird, del 1990: un corpo di donna,
seduto e visto di spalle, costretto in un bustino di
metallo stretto intorno alla vita quasi come un antico
strumento di tortura; sulla schiena, due ampie
lacerazioni conducono l'occhio dell'osservatore laddove
in precedenza si presume fossero le ali: ali di uccello
o di angelo, poco importa; ali essenzialmente come
simbolo di una libertà e di un'innocenza donate e poi
sottratte con violenza, destino comune ad ogni Essere
Umano.
Contro l'arrogante ipocrisia di un ordine che si
vorrebbe all'insegna del Bello e del Buono, Witkin
oppone la brutalità delle sue visioni apocalittiche, che
si nutrono di deformità (del corpo come dell'anima), di
anomalie, di corruzioni materiali quanto spirituali. Emblematica
l'immagine Venus preferred to Christ (qui sopra),
in cui su uno sfondo giottesco si staglia l'attraente
figura di una donna nuda; la croce, spodestata della sua
tradizionale centralità, è relegata in un angolo; Cristo
è ridotto ad un feto ancora informe, quasi un aborto a
cui sia stata negata la possibilità di svilupparsi
compiutamente (e che lascia, quindi, un'umanità orfana
di redenzione); Venere è qui consapevolemente preferita a
Cristo, come esprime chiaramente il titolo, e mentre la
croce si libra naturalmente nell'aria, essa ha invece
bisogno di un'imbragatura di cinghie e di un'asta da
equilibrista per staccarsi a fatica dalla fisicità e
materialità terrene.
O, ancora, il Crucified Horse, del 1999: al
posto del corpo di Cristo, sulla croce appare
l'imponente carcassa di un cavallo, come ad elevare la
sofferenza di ogni essere vivente a martirio,
caricandola di valenze sacre e universali (una lettura alternativa
può altresì derivare dalla simbologia tipica del cavallo
nella storia dell'arte, che rimanda alla soddisfazione
immediata ed istintiva degli impulsi sessuali). Messe
in scena sacrileghe che mirano essenzialmente, nelle intenzioni
dell'autore, a destabilizzare una visione del
mondo piegata alle esigenze del 'politically correct'.
Immagini che urtano lo sguardo, trafiggono la
sensibilità dell'osservatore come acuminate frecce;
impossibile non chiamare in causa il concetto di punctum teorizzato da Roland Barthes nel
fondamentale saggio "La camera chiara", che
qui richiamo attraverso una citazione dal testo "Corpografie" di Erika
D'Amico: "Barthes afferma che non è l'osservatore a
cercare il punctum ma esso stesso lo invade
partendo dalla scena rappresentata, lo 'punta', lo
ghermisce: 'Il punctum non si cura della morale o
del buon gusto; il punctum può essere maleducato' (R.
Barthes)".
Witkin, non a caso, fa della scorrettezza e della
'mancanza di tatto' i suoi
vessilli. Con le sue immagini barocche e ridondanti,
costruite e maniacalmente studiate fin nel più piccolo
dettaglio, enfatizza scenograficamente tutto ciò che
preferiremmo non considerare parte del nostro esistere: la morte, il deterioramento a
cui siamo destinati, la nostra grottesca imperfezione,
le contraddizioni e le lotte interiori entro cui ci
dibattiamo. Più che di fotografia, qui si tratta di
teatro: morbosi fermo-immagine di una claustrofobica,
visionaria rappresentazione che ha per protagonista la
caducità dell'esistere, il dramma sotteso alla vita, la vanitas del tutto
(ancora un chiaro riferimento biblico: l'omnia
vanitas del Prologo dell'Ecclesiaste).
Rifacendosi alle Nature Morte della pittura secentesca,
Witkin sostituisce agli oggetti-simbolo tipici di questo
genere - orologi e candele, teschi, frutta marcescente,
strumenti ricoperti di polvere, fiori recisi... - un
raccapricciante repertorio di corpi e membra umane: si
veda per esempio Still Life, Marseille (1992),
in cui il vaso atto a contenere un mazzo di candidi
gigli - simbolo di purezza, da sempre accostato alla
figura di Maria nelle Annunciazioni - è
sostituito dalla testa di un cadavere dal volto
contratto. Qui, rispetto alle rappresentazioni
pittoriche a cui si ispira, il messaggio di fondo
risulta palesato ed esasperato fino al parossismo: memento mori, 'ricorda che devi morire'; un perentorio, estenuante
ricondurre la mente dell'uomo al suo destino mortale
(particolare di cui - dirà qualcuno a ragione - ci si
dimentica ben volentieri).
Che la fotografia riconduca, in generale, al concetto di
morte, non è certo una novità: basti qui ricordare le
parole di Susan Sontag - "Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa
partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della
mutabilità di un'altra persona (o di un'altra cosa)"
- o di Roland Barthes, secondo cui l'atto del
fotografare, congelando le sembianze del reale e
preservandole così intatte anche dopo la morte (della
persona ritratta) o la scomparsa (dell'evento), genera
nient'altro che 'spettri', fantasmi. In Witkin, questo
generico 'potere mortifero' della fotografia viene
spogliato di ogni metafora per venirci presentato così,
sconcio e sfrontato, in veste di prepotente e
incontrastato protagonista
dell'immagine.
Il parallelismo con il genere pittorico della Natura
Morta si rivela assai fertile per comprendere più a
fondo l'opera di Witkin: così come i pittori secenteschi
seppero condurre la rappresentazione degli oggetti
inanimati ai più alti gradi di sofisticazione e
virtuosismo pittorico, così Witkin dà sfoggio della
propria maestria nel comporre le sue formalmente
impeccabili messinscene. Ma c'è un altro aspetto, ancor
più interessante: lo sviluppo e l'affermazione della
Natura Morta in pittura nell'Europa del Seicento fu
strettamente correlata al senso di precarietà che
investì il continente in seguito alla guerra dei
Trent'anni e al diffondersi delle epidemie di peste;
allo stesso modo, le immagini di Witkin possono essere
riconosciute - come sostiene Davide Faccioli nel saggio
che accompagna le immagini in catalogo - quali "figlie
della crisi. Crisi intesa come paura sociale e politica,
una crisi permanente che attraversa la civiltà
occidentale sviluppatasi nel XX secolo": incubi
generati dagli scenari apocalittici del Novecento,
dall'olocausto all'11 settembre, passando per l'atomica
di Hiroshima.
Come chiaramente si evince da quanto detto finora, la
storia dell'arte (materia in cui è laureato) e
l'ossessiva tensione verso la 'diversità' costituiscono
i cardini del suo percorso creativo. I suoi esordi in
campo fotografico sono quantomai vicini all'arte di
Diane Arbus:
nonostante l'abissale differenza di approccio, ambedue i
fotografi concentrano la loro attenzione sulla
rappresentazione di un'umanità reietta, affetta da
anomalie fisiche, psichiche e comportamentali tali da essere emarginata e
temuta al pari di 'mostri' dal resto della società.
Witkin, come la Arbus, scatterà le sue prime fotografie
(nel '56, all'età di 17 anni) ai 'fenomeni da baraccone' del circo di Coney Island -
nani, ermafroditi, freaks in genere -,
continuando poi lungo tutta la sua carriera a ricercare
la deformità e l'anomalia al fine di sfruttarne il
potenziale sovversivo: spettacolarizzando il rimosso,
Witkin inietta dosi letali di caos ed irrazionalità
fuori controllo nelle vene dell'ordine prestabilito;
sbatte in faccia al perbenismo i suoi incubi peggiori,
burlandosi dei patetici sforzi con cui la società tenta
di coprirsi gli occhi, terrorizzata dal suo stesso
provar terrore.
Successivamente, questi stessi elementi 'perturbanti'
saranno chiamati ad animare le sue meticolose
reinterpretazioni fotografiche di episodi e personaggi
mitologici (Apollo e Dafne, Leda e il Cigno, Cupido e il Centauro,
le Grazie...) e, soprattutto, di celebri capolavori
della storia dell'arte. Ispirandosi ai grandi Maestri
della tradizione pittorica del passato, Witkin
trasfigura, alla luce dei suoi tormenti interiori, le
loro creazioni, dando vita a dei tableaux vivants incredibilmente fedeli alla struttura formale degli
originali, quanto anarchici e dissidenti nei contenuti.
E' il caso, tra i tanti, di Gods of Earth and Heaven (1988), mirabile d'aprés de La nascita di
Venere del Botticelli, in cui il pudico e inviolato
corpo della dea è sostituito dall'anomala esibizione di
un caso di ermafroditismo; ulteriori ispirazioni gli
verranno da Goya, Velazquez, Picasso, Max Ernst... Trovatasi però a dover riassumere in un unico nome
questa congerie di influenze e suggestioni artistiche,
la critica ha unanimamente battezzato Witkin "lo
Hieronymus Bosch della fotografia", in forza della
tensione al macabro, al grottesco e al deforme che
accomuna i due artisti, maestri d'irriverenza.
Al di là delle immagini relativamente 'soft'
presentate a corredo di quest'articolo, sfogliando il
catalogo della mostra o una qualsiasi altra raccolta di
foto witkiniane ci si imbatte spesso in immagini
decisamente inquietanti, tanto da far quasi distogliere
lo sguardo dal raccapriccio; salvo poi, ovviamente,
tornare ad osservarle con attenzione, in forza di un
perverso quanto umano voyeurismo. Alla repulsione
sopraggiunge l'attrazione, insieme ad un vago senso di
angoscia, di fastidio. Perché, questo? Non sarà per caso
il timore (unito ad un fatale senso di ineluttabilità)
di rinvenire in quelle immagini una sorta di potere
riflettente, quasi fossero specchi tramite cui si rischi
di riconoscersi parte di quella stessa umanità priva di
difese credibili, esposta alla brutalità di ogni sorta
di deriva? Ad ognuno l'onere della risposta.
Interrogarsi sulle ambivalenti sensazioni provocate
dalla visione di certe immagini significa comunque aver
già imboccato un'ottima strada
per fruirne in modo critico, autonomo e consapevole.
Certo, non ci è dato sapere se queste creazioni
fotografiche siano o meno, e in che misura, la sincera emanazione di
un'interiorità particolarmente tormentata: quando la
provocazione si fa così insistita, in ambito artistico,
spunta sempre fuori il fantasma del business,
dell'operazione commerciale fine a se stessa (della
serie: immagini create appositamente per scandalizzare
e, di conseguenza, imporsi all'attenzione mondiale - e
al mercato! - con
più facilità).
L'arte deve necessariamente stupire, afferma Witkin,
dichiarando di preferire di gran lunga il termine
'stupore' a quello, più scandalisticamente connotato, di
'provocazione'; in un'intervista, si disse incredulo
riguardo la lugubre reputazione di cui godono le sue
creazioni: "Non sono affatto lugubri", dichiarò,
"si tratta solo della condizione umana: mistero e
miseria". Chissà. La buona fede di un artista è
concetto troppo ambiguo e relativo per venir indagato
compiutamente. Non ci resta che prendere atto del nostro
istintivo disagio
di fronte ad immagini che fanno innegabilmente leva su
certe nostre paure ataviche, ancestrali, contribuendo se
non altro a portare a galla dal nostro inconscio tutta
una serie di intimi terrori con i quali può valer la
pena, di tanto in tanto, fare i conti.
Serena Effe © 03/2007
Il catalogo della mostra allestita a Seravezza
fino all'8 aprile 2007, in corso di pubblicazione da Photology, racchiude in un
formato 'tascabile' (13x18cm) le 54 immagini esposte, tracciando un riassunto dell'evoluzione
stilistica di Witkin dagli anni Ottanta ad oggi.
Prezzo relativamente onesto: 20 euro.
Corredato dal breve saggio "The Body Horror
Picture Show" di Davide Faccioli, introduttivo
all'opera del fotografo americano (attenzione:
nonostante il titolo sia già presente nei
cataloghi delle varie librerie online, la
distribuzione verrà correttamente avviata solo
intorno ai primi di aprile).
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Questo saggio, a firma di una giovane studiosa, mi
risulta essere uno dei pochi testi in italiano che si
dedichino in maniera più ampia all'analisi
dell'opera di Witkin (anche se in maniera non
esclusiva, dato che prende in considerazione
l'opera di due altri fotografi che hanno fatto del
corpo il soggetto privilegiato delle loro foto:
Mapplethorpe e Serrano). Attraverso la
comparazione e l'analisi approfondita di
immagini/testi fotografici, l'Autrice mira a
dimostrare quanta parte possa avere il concetto di
Morte nella fotografia di questi artisti. L'ho
trovata una lettura senz'altro interessante e
ricca di stimoli, ma
che potrebbe risultare assai faticosa per chi non
abbia una certa dimestichezza con il genere della
saggistica, a causa dei numerosi termini specifici
utilizzati, che rendono alcune parti eccessivamente
'oscure' e ardue da decifrare.
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"Disciple
& Maître", volume particolarmente interessante
tra quelli risultanti da una ricerca su Amazon.com,
propone alcune tra
le più celebri fotografie di Witkin messe in
relazione con le immagini che le hanno
direttamente ispirate (di autori quali Evans,
Cartier-Bresson, Lartigue e moltissimi altri); le
varie coppie di fotografie sono corredate da testi
di Witkin stesso, che ne spiega le complesse
relazioni, svelando così il processo mentale che
si cela dietro la creazione di ogni sua immagine.
Il volume, pubblicato come catalogo di una mostra
svoltasi a Parigi nel 2000, è
disponibile in inglese e francese; 120 pagg.,
formato 29x29cm; costa 50 dollari (ma su Amazon
c'è la possibilità di trovarlo usato ad un prezzo
inferiore). Pur non avendo avuto il piacere di
sfogliarlo, mi pare uno strumento di tutto
rispetto
per avvicinarsi con cognizione di causa allo studio dell'opera di Witkin.
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