La visita alla mostra allestita al MNAF di Firenze (fino al 25 marzo 2007, info qui) è l'occasione per ripercorrere i due anni più intensi e significativi di un fotografo che con i suoi 'documenti lirici' aprì una nuova strada nella fotografia americana di reportage, e non solo.
New York. Borsa di Wall Street. 29 ottobre 1929.
Le quotazioni di una cinquantina di titoli industriali,
artificialmente gonfiate da anni di selvagge speculazioni
finanziarie, crollano all'improvviso, spingendo i possessori
ad una massiccia e frenetica vendita. E' il crack. E'
l'inizio di quell'interminabile periodo di recessione
economica passata alla storia con l'appellativo di Grande
Depressione, che manderà sul lastrico milioni di
individui, travolgendo ogni strato sociale e professione:
agricoltori, banche, industrie.
Una serie di reazioni economiche a catena (agricoltori
beneficiari di prestiti che vanno in rovina - anche a causa
della concomitante siccità - e non possono quindi più
restituirli > banche che falliscono > industrie che, a causa
della conseguente indisponibilità di denaro, sono costrette
a chiudere o a ridimensionarsi > lavoratori licenziati >
crollo della domanda) portano l'economia americana al
collasso.
Nel 1933, il neoeletto presidente degli Stati Uniti
Roosevelt (rappresentante del partito democratico) attua il New Deal, con l'intenzione di fronteggiare la crisi
imprimendo un 'nuovo corso', appunto, al sistema
finanziario ed economico nazionale e sostenendo le categorie
più colpite. Per cercare di
intervenire più miratamente era però necessario rendersi
conto di quali fossero, concretamente, i danni causati; ed è
anche in risposta a questa necessità documentativa che
nasce, nel 1935 (appoggiandosi all'esperienza già in corso
della Rural Resettlement Administration),
l'istituzione governativa Farm Security Administration:
all'interno di essa, un'équipe di fotografi - diretti però
da un sociologo, Roy Stryker - ebbe il compito di 'schedare'
in maniera chiara ed obiettiva le condizioni di vita del
mondo rurale americano.
Il lavoro dei circa 30 fotografi che fino al 1943 si
impegnarono in questa ambiziosa opera reportagistica
(tra i quali spiccano Dorothea Lange, Ben Shahn,
Russell Lee...) si
concretizzò in oltre 270 mila negativi, oggi conservati
presso la Library of Congress di Washington:
un'operazione che non solo dette vita ad un immane affresco di un
popolo e di un'epoca, ma che seppe altresì imprimere una
svolta nella storia della fotografia americana.
Uno dei nomi che più influì sui futuri sviluppi
fotografici fu proprio Walker Evans, nonostante la sua
esperienza nella FSA si sia esaurita tra il 1935
e il '37: due anni particolarmente intensi - che furono,
tra l'altro, il suo primo impiego stabile in veste di
fotografo - che lo videro aggirarsi, in incognito, entro gli Stati più
arretrati e in difficoltà del Sud e del Centro degli
Stati Uniti (West Virginia, Pennsylvania, Lousiana,
Mississipi, Georgia, Carolina del Sud e Alabama), maturando uno
stile che farà scuola e che traccerà i contorni di
quella che rimarrà la stagione più fertile e
significativa della sua carriera. Evans si distinse subito per la sua insofferenza nei
confronti delle rigide imposizioni governative -
soggetti da privilegiare, scadenze e richieste di
ingenti quantitativi di immagini da rispettare - e portò avanti il lavoro in
maniera piuttosto autonoma; una 'ribellione' tollerata
solo in forza delle sue riconosciute doti di fotografo,
che non poté però non sfociare in una prematura rottura.
Gioverà a questo punto accennare, per meglio comprendere
lo scarto stilistico emergente dalle immagini di Evans,
al panorama della fotografia americana precedente agli
anni qui presi in considerazione (con in mente nomi
quali Alfred Stieglitz e Edward Steichen): una fotografia che
ancora indulgeva nella ricerca di effetti pittorici,
lasciandosi spesso sedurre dalle linee moderniste
dell'Art Dèco e, in generale, dalla piacevolezza visiva; una fotografia che voleva essere, più di
ogni altra cosa, arte. Appare immediatamente chiaro,
osservando anche solo le poche foto qui riportate, la
controtendenza che ci troviamo ad analizzare.
Nel lavoro di Evans si attua infatti un'anti-artisticità
perseguita con rigore, metodicamente e con indubbia
efficacia, senza forzature. La sua visione è spoglia,
essenziale, austera, improntata ad una lucida ed
analitica osservazione del reale che risulti il meno
possibile 'annebbiata' da formalismi ed estetismi
prospettici o compositivi; il punto di vista è nel
maggior numero dei casi quello frontale, o, comunque,
sempre il più immediato; la nitidezza raggiunge anche
gli angoli più reconditi dell'immagine, in modo da
eleggere ogni particolare a co-protagonista dell'intera
scena (risultato dovuto all'uso quasi esclusivo di una
macchina grande formato - una Folding 8x10'', i cui negativi misuravano
quindi 20,3x25,3
cm - e accentuato dalla ricerca di un'estesa profondità di
campo, che non abbandoni niente in balìa dell'indistinto):
neanche il più piccolo elemento viene sacrificato in nome di
un'atmosfera o 'effetto' globali. Ogni tassello del reale
risulta intatto e parla con voce incorrotta, senza
subordinazione alcuna.
Questo perché Evans non mira a creare delle 'opere d'arte',
ma delle immagini che documentino la realtà con la realtà
stessa, senza passaggi interpretativi intermedi.
Semplici 'documenti', quindi? Difficile (impossibile?)
individuare con certezza il confine tra documento e
creazione artistica, in fotografia forse più che in ogni
altra espressione umana. Ma conoscere le intenzioni
dell'autore può fornirci qualche indizio. L'arte, essendo
sostanzialmente inutile, non è un documento, afferma Evans; ma, continua,
può adottarne lo stile. Sarà lui stesso a coniare il termine
'documento lirico' per definire le sue immagini,
arrivando ad un compromesso che ha un effettivo e
coerente riscontro nei suoi scatti.
Lo sguardo è distaccato, quel
tanto che si conviene per dar vita ad immagini che, pur
concentrandosi sulla rappresentazione di stenti e povertà,
non si lascino andare al benché minimo patetismo
commiserativo. Una distanza che non è cinica indifferenza,
quanto piuttosto volontà di lasciare il campo libero al
reale, così che possa esprimersi a suo piacimento,
scegliendo il tono adatto al momento senza che gli venga
suggerito dall'interpretazione di chi lo osserva.
C'è questa sorta di rispettosa deferenza in Evans, nei
confronti della realtà 'così com'è': la accoglie intera,
imperfetta, senza osare modificarla o alterarla in alcun
modo ("Dio l'ha sistemata così, non potrei toccarla.");
non la cerca neanche: aspetta che sia lei a venirgli
incontro ("Io non cercavo niente; le cose mi cercavano;
sentivo che mi chiamavano").
Evans immortala un mondo desueto, che sembra venire da un
passato remotissimo ed essere destinato ad un'immobilità
perpetua, tanto appare radicato in se stesso. "Se io non
vedo che il prodotto è una trascendenza della cosa , del
momento reale, non ho raggiunto niente e allora lo scarto":
è una sorta di universalità, quella che Evans tenta di
cogliere in ciò che vede; mira ad una rappresentazione che
alluda alla condizione dell'uomo al di là della contingenza
di spazio e tempo (e al di là della specifica 'missione'
affidatagli), che lasci naturalmente emergere quel 'significato
mistico' di cui ogni luogo si fa inconsapevole ed
ingenuo portatore (qui più che altrove).
Le circa 100 immagini esposte nell'ambito della mostra
"Walker Evans. Argento e carbone" allestita al Museo Alinari della Fotografia di Firenze (visitabile
fino al 25 marzo 2007) ben rappresentano queste
caratteristiche, attraverso una selezione di scatti che
rendono ampiamente conto dei soggetti privilegiati da Evans:
sparuti villaggi-fotocopia abitati da minatori, mezzadri e
fittavoli di piantagioni di cotone, umili e spogli interni casalinghi (uno
più toccante dell'altro; questa serie è a mio avviso una
delle più compiutamente riuscite), negozi che sono poco più
che baracche e vetrine la cui merce è ridotta
all'essenziale. L'essere umano vi compare talvolta (e
numerosi sono anche gli intensi ritratti che si concentrano
sulla fierezza di sguardi e volti lavorati dal sole e dalla
fatica), ma nella maggior parte dei casi domina la
desolazione di luoghi in cui la presenza umana si limita ad
essere allusa attraverso edifici che l'uomo è solito
frequentare (chiese, stazioni di servizio, uffici postali) o
tramite l'ingombrante presenza di insegne e cartelloni che
pubblicizzano prodotti che l'uomo si presume debba
consumare; 'si presume', appunto, perché in realtà quelle
icone consumistiche creano un contrasto stridente con
l'ambiente circostante, ben lungi dall'essere in grado di
acquistare beni superflui o di assistere a qualsivoglia
spettacolo teatrale tutto paillettes e lustrini.
Emblematico, tra i tanti, lo scatto che ritrae un malconcio
carretto trainato da due muli e parcheggiato di fronte ad un
alto muro completamente spoglio, se non fosse per un
improbabile manifesto di uno spettacolo teatrale zeppo di
vorticose ed elegantissime ballerine: un'immagine senza
titolo, perché difficilmente a parole si potrebbe esprimere
più di quanto già non facciano da soli quei tre miseri, lampanti,
assoluti soggetti.
Sono luoghi in cui il boom economico degli anni
Venti non ha fatto in tempo ad arrivare; luoghi per questo
'innocenti', ma nei quali, paradossalmente, si sconta ora la
pena più pesante. E' qui che si paga l'ammenda più alta per
un benessere cresciuto, altrove, a dismisura e troppo
velocemente. Sarebbe stato facile, considerato questo stato
di cose, trasformare ogni scatto in dolente testimonianza di
un martirio: una delle abilità maggiori di Evans sta proprio
nell'essere riuscito ad evitarlo.
Da un punto di vista prettamente formale, ciò che per prima
cosa colpisce, osservando da vicino le immagini esposte, è
l'eloquenza e la forza visiva impareggiabili del grande
formato: la già citata nitidezza dei particolari, insieme
con una gamma tonale incredibilmente ricca, danno vita ad
immagini che 'parlano' anche (se non soprattutto) attraverso
dettagli solitamente marginali quali, per esempio, le
venature delle assi di legno di cui è fatta la totalità
degli edifici, o le scritte in rilievo su una stufa di
ghisa. Brani infinitesimali di poesia inconsapevole dai
quali l'occhio viene magneticamente attratto.
Non sarà superfluo specificare come nessuna delle immagini
esposte sia stampata direttamente da Evans: alcune sotto la
sua supervisione, altre invece rifacendosi il più fedelmente
possibile alla sua abituale interpretazione. Contrariamente
a quanto accadeva per la maggior parte dei fotografi che
utilizzava il grande formato, che
tendeva a stampare personalmente le fotografie, spesso a
contatto, per non mortificare i vantaggi derivanti dall'uso
di quel particolare formato (Ansel Adams su tutti: maestro
esemplare in quanto a sviluppo e stampa, dedito però ampiamente agli ingrandimenti), Evans non era un intransigente
della camera oscura: delegava spesso il lavoro ad
altri (negli anni della FSA, dati i continui spostamenti,
era spesso l'unica soluzione) e non esitava a ritagliare ed
ingrandire il fotogramma (o a stamparlo a contatto ma su
formati più piccoli), se ciò serviva a migliorare l'insieme.
Segno di un rapporto particolarmente libero nei confronti
del negativo originale, che non veniva considerato un
supporto inviolabile (alla stregua di un'opera d'arte
compiuta, appunto), bensì un serbatoio di informazioni
suscettibili di sempre nuove decodificazioni a seconda
dell'utilità del momento (più prossimo, quindi, al
documento). Una soluzione che, al di là delle inevitabili
questioni di etica fotografica che può a ragione sollevare,
rimanda intatto il fascino di un reportage che è una pietra
miliare nella storia della fotografia tout court.
A parte il catalogo della mostra in questione (Walker Evans. Argento e Carbone,
Alinari 2005. 63 pagg., 70 foto b/n, testo it/in, 25x25cm; 20 euro, che scendono a 16 se si acquista presso il bookshop
del Museo), segnalo un libro particolarmente interessante per comprendere più
a fondo l'esperienza svolta da Evans nell'ambito della FSA;
si tratta della riedizione italiana di Let Us Now
Praise Famous Men ('Sia lode ora agli uomini di fama'):
una selezione di fotografie di Evans accompagnata dalle
parole del poeta-scrittore James Agee, che con Evans
condivise l'esperienza di vita a stretto contatto con una
famiglia di mezzadri. Il testo fu pubblicato nel 1994 in
versione economica, oggi esaurita: con un po' di fortuna
potrete trovarlo in qualche reparto Remainders; la
successiva edizione del 2002, più prestigiosa e inevitabilmente
più costosa, la trovate segnalata più dettagliatamente nella
nostra Biblioteca Ideale (sezione 'Cataloghi e Immagini').
Serena Effe © 02/2007
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