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Il volto che ci accoglie una volta entrati a Palazzo Magnani non è uno, bensì una moltitudine. Il percorso inizia con un grande pannello costellato di occhi. La forza espressiva di alcuni di essi è talmente forte da far quasi distogliere lo sguardo, a volte, quasi un sentirsi 'frugati'.
Non perché vi si colga la 'pazzia', attenzione. Bensì perché quelle che traspaiono sono personalità forti, forti della loro alterità orgogliosa, forti e diverse come potrebbe esserlo ognuna delle nostre. Occhi nei quali, in due parole, si 'rischia' di riconoscersi.
Subito dopo, il mio consiglio spassionato è quello di imboccare immediatamente le scale, senza perder tempo a soffermarvi in una piccola saletta laterale in cui si proietta un inutile filmato fatto di strani grugniti e sospiri strozzati fatti apposta per alimentare quel difettaccio che più o meno tutti abbiamo e che ci finge interessati quando in realtà siamo solo banalmente attirati dal 'morboso' (un po' come quando si formano le code 'di curiosi' in autostrada, per intenderci). No, non è questo lo spirito che deve accompagnarci nelle sale di questa mostra. Saliamo quelle scale senza che l'unica spinta a farlo sia la solita tendenza al voyeurismo tra le sbarre fitte di un manicomio. Cerchiamo di abbandonare quella presunzione che ci fa automaticamente sentire 'migliori' rispetto ai volti che ci aspettano al piano di sopra. Almeno, proviamoci. L'ideale sarebbe entrarci nudi: nudi nell'anima, come tutti loro. Ma certo sarebbe chiedere troppo.
Se c'è una cosa - tra le tante - che questa esposizione può aiutarci ad avvicinare, è la capacità di accostarci al dolore, all'incomprensione e alla 'diversità' altrui con le mani aperte e tese, e non come presuntuosi soggetti giudicanti e distanti, dall'alto della nostra presunta 'normalità'.
Non parlo di 'buonismo'. Parlo di umanità.
Quattro sezioni e importanti nomi tra i quali Uliano Lucas, Bruno Cattani, Luciano D'Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Raymond Depardon, Ferdinando Scianna.
Alcune foto sono prettamente documentarie: la 'follia' è fotografata minuziosamente, tra occhi persi e bizzarre condanne tipo imbecillità morale o demenza malinconica: bizzarre sì, ma sufficienti a negare la libertà ad una vita per un'arbitraria questione di semplicistico puntiglio borghese: leggeri letti di ferro dai materassi sottili, muri scrostati, occupazioni quotidiane mischiate a strumenti di contenimento altrettanto di routine. Sulla parete, una frase di Franco Basaglia (la legge che porta il suo nome e che portò alla chiusura dei manicomi risale al 1978): parla di come alla base della creazione dei manicomi ci fosse la necessità (anche questa, ahinoi, disastrosamente umana) di trasformare l'irrazionale - che spaventa, perché inspiegabile e di conseguenza non controllabile - in razionale: il 'folle', una volta internato, si tramutava docilmente in 'malato' (e quindi guaribile e 'gestibile'). Il Seicento fu il secolo della 'caccia alle streghe': questa consuetudine servì a rassicurare gli animi di una società in preda a ogni tipo di crisi e disordine: la 'strega' non era altro che il capro espiatorio: bruciata la strega, l'illusione era quella che l'ordine fosse ripristinato. Era la strada più semplice, la più immediata per aggirare l'ostacolo reale. Lo stesso meccanismo sta alla base dei manicomi, a mio avviso. Ma ci sarebbe di che discuterne per ore.
Altri scatti sono spudoratamente gratuiti e 'facili': ci vuole davvero troppo poco a far parlare una foto di 'follia' quando, per esempio, l'intero fotogramma è riempito dall'enorme pancia di un'anziana signora che sfida il fotografo denudandosi completamente. Questo, secondo me, è svendere concetto e immagini.
Ma ce ne sono altre, in gran numero, che riescono a 'parlare'. Foto che, al di là dell'innegabile godimento estetico, chiedono di essere interpretate e comprese, chiedono di scrutare a fondo tra le ombre, tra i netti contrasti tra il bianco delle camicie di forza e il nero del sonno che accompagnava queste vite rinchiuse, negate: il sonno in cui ci si dimentica, dormire per smettere di esistere, per un po'. Alzate gli occhi e una frase vi ricorda che Per raccontare la verità occorre dire le ombre (Paul Celan).
E le mani. Le mani, specchi migliori degli occhi, contorte come anime lasciate sole in un dolore che nessuno capisce, neanche chi lo sta vivendo. Mani che parlano di un modo diverso di stare al mondo, forse, una rivolta ai 'valori' che ci siamo ritrovati tatuati addosso senza sapere perché, senza neanche essere più in grado di scegliere se sono giusti o meno. Giusti per noi. Un rifiutare ad alta voce una parte che non ci siamo scelti.
Basta recite. Questa è la follia. Questo è il coraggio di non farcela. Di vivere il dolore fino in fondo.
Un ritagliarsi metodico del proprio diritto alla sconfitta, in questo mondo di presunti vincitori. Urlare e dibattersi. Non farlo è solo il risultato di un ragionamento che iniziano ad insegnarti già dall'asilo. Questa nostra perenne compostezza non è 'salute mentale'.
Ci vuol coraggio, ad essere 'matti'. Non cadiamo nel tranello di crederci più 'forti'.
Mani che forse hanno in sé dei fremiti che siamo in grado di riconoscere, perché in fondo, magari, se ci scrutiamo dentro, ci appartengono più di quanto pensiamo.
Riconoscersi. Almeno un po'. Comprendere l' 'altro da sé' per comprendere meglio noi stessi, tutto ciò che ci portiamo dietro, e che queste vite immortalate da un obiettivo hanno avuto il coraggio - la necessità - di mostrare alla luce del sole. E che ognuno, poi, tragga le proprie, autonome conclusioni.
A sinistra e sopra, alcune foto della mostra ben allestita
all'interno della splendida cornice di Palazzo Magnani
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