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VENEZIA E IL NUOVO PALAZZO GRASSI
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"Quei nostri santi padri che, mille e più anni fa, posero
mano alla costruzione di questa macchina straordinaria
dovevano pur avere, insieme con una enorme provvista di
testarda volontà, un grano di generosa pazzia".
Esordisce così Diego Valeri nel suo piccolo libretto Guida
sentimentale di Venezia, cogliendo a mio avviso uno degli
aspetti fondamentali di questa improbabile città: la pazzia.
La pazzia del progetto, prima di tutto, di una città che
sorga dalle acque. Un sontuoso riflesso al contrario, degno
compagno delle surreali costruzioni illusorie di calviniana
memoria.
La pazzia del suo fascino sconsiderato, supponente,
estenuante.
La pazzia delle folle ammaestrate che si riversano qui da
ogni parte del mondo (me compresa), e che già in questi
primi mesi di caldo somigliano a un gruppo troppo numeroso
di pesci trovatisi costretti in un'unica, piccola
pozzanghera, pateticamente boccheggianti e pigiati l'uno
contro l'altro.
Ma felici, nonostante tutto, di esserci.
Eh
sì, perché la pazzia, qui, è stata davvero "generosa": "Tutto
è pittura, pittorico sogno, in questo fisico e metafisico
paese; anche la più solida e massiccia architettura, anche
la propria persona di carne e d'ossa". E come dar torto
a chi dica che la materia di cui è fatta Venezia ha un che
di magico, simile a quella di cui son fatti i sogni,
trovandosi affacciati sul Ponte di Rialto verso la fine del
giorno, con lo sguardo perso a rincorrere quella curva del
Canal Grande, i palazzi avvolti da quella leggera nebbiolina
di umidità sottile che sfuma i contorni e le sensazioni fino
a far pensare, non senza una punta di presunzione
metafisica, che Venezia, in realtà, non esiste.
Qui non c'è
spazio per la banalità di un tiepido sentire. Venezia è
dispotica in questo, non transige. E tutto ciò che può
sembrare calma indolente, qui non è altro che un'altezzosa
indifferenza a tutto ciò che non sia un Grande Sentimento
(come ebbe a scrivere André Suarès), sia esso nostalgia
disperata o esaltazione gioiosa. Mai città fu così sopra le
righe, nel bene e nel male.
Poi basta poco e la magia svanisce, certo. Ti volti e vedi
una città stanca, ansimante. Fatta di gelati gocciolanti,
canali mefitici, calli sporche del passaggio di migliaia di
passi e altrettante impellenze fisiologiche, traghetti a 5
euro, prezzi esorbitanti, gondole di plastica e troppa,
assolutamente troppa umanità concentrata in un unico,
piccolo e angusto angolo di mondo.
Ma Venezia è
unica. E come ogni "pezzo unico" che si rispetti, è
insostituibile. E tanto basta per far abbassare gli occhi a
chi, come me, si azzarderebbe quasi a tentare di demolire il
"mito veneziano", giusto per prendersi una piccola rivincita
dopo i tre giorni al limite dell'umana (turistica) sopportazione che mi
ha fatto passare.
Ma Venezia detta legge. Ti si offre intera, ammaliante. Ma
alle sue condizioni. Come ogni scaltra donna di piacere che
si rispetti.
E se anche te ne vai via disgustato, già sai
che prima o poi ci tornerai. Non fosse altro che per provare
a sentirla tua una volta almeno, solo tua, senza rassegnarsi
a doverla dividere costantemente con quell'esercito di
amanti distratti.
Non si può fare a meno di sognare
un'esclusiva, un rivelarsi, basterebbe una parola appena
sussurrata all'orecchio, ma che sia solo per te.
E'
quest'illusione che ti riporterà a Venezia, ogni volta.
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IL NUOVO MUSEO DI ARTE EROTICA
"Venezia è il sesso femminile d'Europa", scrisse
Apollinaire.
Città candidamente sconcia e svenduta (inevitabile
destino: difficilmente il Bello si mantiene Puro),
bilancia il suo genetico essere profano con dosi di
sacro di ineguagliabile intensità. Solo un esempio: a
due passi da quello scrigno di luce oscura che è la
basilica di San Marco, "la Bibbia più gloriosa che mai
città abbia avuto" per dirla con Ruskin (per accedere alla quale adesso sono necessarie ben due code distinte, per la gioia di noi poveri e incompresi Insofferenti: una per depositare borse e zaini in una chiesetta vicina, la seconda per entrare; e infatti stavolta mi son fatta bastare il ricordo!), all'inizio di Calle dei Fabbri, si trova il neonato Museo di Arte Erotica: degno complemento d'arredo in una città che annovera nella sua toponomastica un eloquente Ponte delle Tette (dalla pratica usanza delle prostitute di mescolare ai fiori sul davanzale ben altri floridi doni di Madre Natura), sul quale spendo due parole giusto per dovere di cronaca, in quanto "nuova attrazione".
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Atmosfere soffuse all'interno del museo di Arte Erotica (il
cui sito è visitabile QUI)
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Una delle opere esposte
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Unico nel suo genere in Italia, e gestito direttamente
dal più famoso Musée de l'Erotisme di Parigi, questo
museo ha solo due cose per cui può valer la pena farci
un salto: il Libro degli Ospiti (divertentissima
lettura, con i commenti dei visitatori più "colpiti") e
la piccola terrazza, all'ultimo piano, con una vista
meravigliosa sui tetti (e se vogliamo aggiungerne una
terza, è anche l'unico museo di Venezia completamente
deserto, il che non è poco). Poteva essere una bella
idea. Poteva, appunto. Perché il risultato è
sconfortante. Opere perlopiù mediocri (e non parliamo
poi delle fotografie, per carità!!) che ben poco hanno a
che fare con l'idea di erotismo, forse qualche
riproduzione di stampe illustranti i Modi di Pietro Aretino un po' più sfiziose (possono sempre tornare utili nel caso in cui si fosse a corto di idee sull'argomento); ciliegina sulla torta, una musica improbabilissima diffusa in tutte le sale, che spegnerebbe i "bollenti spiriti" dell'amante più passionale. Insomma, se proprio non volete perdervi questa paradossale esperienza, vi consiglio di affrettarvi: secondo me chiude i battenti nel giro di qualche mese (si accettano smentite! *).
* Nota: Come era stato immaginato, dopo qualche mese
il Museo di Arte Erotica è stato effettivamente chiuso.
LA MOSTRA A PALAZZO GRASSI
Lasciamoci alle spalle questa mal riuscita
commercializzazione dello spirito libertino veneziano, e
torniamo alla nostra beneamata pazzia. La pazzia
dell'arte, stavolta. Dell'arte contemporanea, nella
fattispecie. Tralascio tutte quelle noiose segnalazioni
che ogni buona guida può fornirvi (non senza
consigliarvi però spassionatamente quel piccolo e
raccolto salotto di capolavori che è la Collezione Peggy
Guggenheim, con quel suo microscopico giardinetto a
ridosso del Canale) per
approdare in Campo San Samuele, proprio di fronte ad un
Palazzo Grassi sfavillante e tirato a lucido, forte dei
suoi pochi mesi di nuova vita. Forse in molti se lo
ricorderanno, quanto importante fosse questa prestigiosa
sede espositiva quando ancora era gestita dalla Fiat:
mostre superbe come quella sull'arte egizia o maya o le
monografiche su Balthus e Dalì, solo per citare le prime
che mi tornano in mente. Poi, dopo la morte di Gianni
Agnelli, il silenzio. Fino all'arrivo del nuovo padrone
di casa, il mecenate francese François Pinault (il cui
teschio ai raggiX vi dà il benvenuto al sommo dello
scalone principale, nell'opera Untitled (Monsieur
François Pinault) di Piotr Uklanski), grande
collezionista d'arte, che come ogni nuovo inquilino che
si rispetti non ha perso tempo ad imprimere il suo
marchio personale alla nuova dimora.
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Il nuovo look minimalista di Palazzo Grassi
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Piotr Uklanski, Untitled (Monsieur
François Pinault)
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Il palazzo ha
subìto un totale restyling ad opera dell'architetto
giapponese Tadao Ando: linee essenziali, spazi minimali,
quasi invisibili nella loro volontà di non rubare la
scena all'arte che vi sarà esposta, di per sé già
abbastanza esuberante. Un allestimento consono alla
nuova impronta che, come si coglie al volo dalla mostra
di riapertura Where are we going? Opere scelte dalla
collezione Pinault (visitabile fino al 1° ottobre), è
principalmente contemporaneistica.
Duecento opere di arte internazionale del dopoguerra
trovano spazio tra le bianche pareti autoportanti,
magistralmente esposte in un percorso godibilissimo (non
ha prezzo l'affacciarsi, dall'ultimo piano, sul vasto
cortile interno a colonnato, ora coperto a mo' di atrio,
per una panoramica generale sulle opere). L'arte di
questo periodo risponde fondamentalmente ad un unico
imperativo: la Novità. Impellenza non fine a se stessa,
attenzione, bensì necessità quasi viscerale ed etica di
un linguaggio che sia di qualsiasi tipo, purché lontano
il più possibile da quella grammatica, da quello stato
di coscienza sballati che lanciarono il mondo tra le
braccia di una morte lunga anni.
E' un'arte che si suole
definire "concettuale" proprio per le sue scarse (se non
del tutto assenti) concessioni estetiche, che ambisce a
superare la Forma, a scrollarsi di dosso quel pesante
fardello, a ridurla a mero "facchino" di Idee, vere
protagoniste.
Ed ecco quindi l'Informale, corrente
artistica votata alla riscoperta della materia
primordiale e del gesto istintivo, violento e
liberatorio, contro l'inibizione e il soffocamento
creativo imposto dalla precedente tradizione artistica.
La Pop Art, di segno opposto, mantiene
quell'imprescindibile substrato rivoluzionario:
l'oggetto diventa di per sé opera d'arte, in forza del
"sogno americano" di una società votata all'opulenza, al
consumismo sfrenato, al superfluo; si approda qui ad una
polemica "mitologia del banale", che cerca di restituire
visibilità a tutta quella miriade di oggetti di massa
("pop" deriva, com'è noto, dall'aggettivo popular) che
quasi non vediamo più, presi come siamo nell'incoscienza
di un consumo smodato e preoccupantemente automatico.
Spiccano le grandi e colorate sculture dal tono
infantile di Jeff Koons, come il Balloon Dog (Magenta),
un enorme cane che imita quelli fatti annodando
palloncini, affacciato sul Canale.
Come reazione alla
colorata sfacciataggine Pop, il Minimalismo rincorre una
totale astrazione, una forma che sia "assoluta", al di
là e al di fuori dell'uomo, e si serve di strutture
elementari, essenziali, di elementi minimi che conducano
lo spettatore ad una sorta di "svuotamento
contemplativo" che lo avvicini all'Essenza (qualsiasi
essa sia): qui rappresentato dalle tele di Rothko, le
coraggiose variazioni "bianco su bianco" di Ryman, le
sculture in acciaio di Donald Judd e i famosi neon di
Dan Flavin.
Come il Minimalismo, anche l'Arte Povera (di
cui Pinault è il maggiore collezionista al mondo; tra le
opere esposte, quelle di Fontana, Manzoni, Pistoletto)
fa da contraltare all'opulenza precedente, proponendo
materie grezze, mediatrici di niente se non della loro
intrinseca fisicità, non contaminate da sovrastrutture
culturali. Povere, insomma, ma dense di sostanza (almeno
nelle intenzioni. E a noi non rimane che crederci sulla
parola).
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Maurizio Cattelan, Him
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Piotr Uklanski, Untitled (The Bomb)
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Tra le opere, non sempre chiaramente riconducibili
esclusivamente ad uno solo dei movimenti citati,
spiccano (secondo la mia personalissima opinione), per
esempio, l'inquietante Him di Maurizio Cattelan,
ritratto in cera di Hitler, inginocchiato in preghiera,
relegato nella solitudine di un angolo, con gli occhi
rivolti verso il vuoto di quel bianco privo di risposte;
le opere di Hirst, che nascono da una riflessione
sull'enorme potere – spesso sconsiderato – della
scienza, come Infinity, vetrina in vetro e specchio di
circa 3 metri per 5, dove fanno bella mostra di sé
un'infinità di pillole e pasticche di ogni forma e
colore; o l'impressionante vita artificiale del Mechanical Pig, scultura animatronica di McCarthy;
l'alienante video di Pierre Huyghe Les Grand Ensembles,
in cui la vita viene ridotta ad un succedersi isterico e
insensato di finestre che si accendono e si spengono; il
colorato collage di carta strappata Untitled (The Bomb) di Piotr Uklanski, che riproduce la sagoma di un fungo
atomico con la tragica ingenuità di un bambino; e la
stanza-installazione di Rudolf Stingel, completamente
tappezzata con celotex argentato coperto da graffiti,
decisamente d'effetto.
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Paul McCarthy, Mechanical Pig
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Rudolf Stingel, Untitled
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Jeff Koons, Balloon Dog (Magenta): un'icona post-Pop a guardia di
Palazzo Grassi
Damien Hirst, Infinity (particolare)
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Insomma,
l'arte contemporanea è difficile. Difficile, nel senso di
quasi incomprensibile, spesso. Tanto che la maggior parte
delle volte, fingendo un'espressione sofferta e
concentratissima che finisce per somigliare di solito ad una
forma di ebetitudine, ci si trova a fissare un'opera
qualunque chiedendosi cosa diavolo avrà voluto dire
l'artista, fino alla misera rinuncia che ci vede
allontanarci mestamente e risuona del nostro delusissimo
"boh!" (illuminante, a questo proposito, un'affermazione di
chi ha visitato la mostra con me, al cospetto dell'opera di
Mario Merz Accelerazione=sogno che si compone di una
motocicletta attaccata al muro con contorno di tubi al neon:
"Ecco come sprecare una bella motocicletta!"; mia risposta,
di cui non sfugga l'alto tasso intellettualistico: "Eh sì").
L'arte contemporanea, diciamocelo, può essere un'esperienza
mentalmente frustrante. Ma ha un pregio, innegabile: non
lascia mai indifferenti. Può urtare la sensibilità, lasciare
interdetti, disgustare anche (a questo proposito, attenzione
all'opera di Damien Hirst Some Comfort Gained from the
Acceptance of the Inherent Lies in Everything - Un po' di conforto derivante dall'accettazione della sostanziale bugia di tutte le cose, più o meno - , una mucca accuratamente
sezionata ed esposta in colonne di formaldeide, nella
penultima sala: sconsigliata agli stomaci deboli; così come
le spudorate foto di manichini sessuati di Cindy Sherman,
subito dopo), ma smuove sempre qualcosa, spinge
inevitabilmente a porsi domande, a cercare significati
nascosti e originali, ad andare "al di là" di ogni abitudine
interpretativa, sia pure quando la si critica strenuamente.
Alla fine vien davvero da chiederselo: Dove stiamo andando?,
dove va l'arte, dove andiamo noi, che fine hanno fatto i
buoni, vecchi, cari e rassicuranti "confini", reazionari
certo, ma senza dubbio utili di tanto in tanto a orientarsi,
a individuare una qualsiasi direzione certa verso cui
voltarsi. Perché qui si rischia davvero di scambiare per
opera d'arte un prosaicissimo cartello "Vernice fresca"
appoggiato ad un termosifone, che di essere opera d'arte non
ci pensava proprio (a me è successo, credetemi sulla
parola).
Si rischia l'immobilità per le troppe strade tra
cui scegliere, quasi che avere una quantità infinita di
possibilità equivalga a non averne in realtà più nessuna.
..."Di altri isolotti anche il nome è svanito, se pure è
esistito mai. Bisognerebbe interrogare le lucertole che
strisciano tra l'erba di quei dossi sperduti, o i gabbiani
che vi girano sopra a volo fermo".
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Per concludere, vi lascio una piccola, parzialissima
Bibliografia senza pretese, se non quella di fornirvi
qualche titolo utile ad una preparazione pre-partenza per
godervi ogni cosa più a fondo e con una seppur minima
cognizione di causa:
le citazioni, quando non diversamente specificato, sono
tratte dal libro di Diego Valeri Guida sentimentale di
Venezia, Passigli Editori: indulge un po' troppo nel
pittoresco, ma è una lettura piacevolmente "d'altri tempi".
In fatto di città improbabili, niente di meglio di una
rilettura di Le città invisibili di Italo Calvino,
Oscar Mondadori.
Due altre "guide d'autore": Le pietre di
Venezia di John Ruskin, Oscar Mondadori, un saggio di un
celebre viaggiatore del passato che si legge come un
romanzo, tra riflessioni d'arte e poesia; e Venezia è un
pesce di Tiziano Scarpa, Feltrinelli Economica, una
scanzonata e originale passeggiata veneziana a cura di uno
degli scrittori di ultima generazione.
Se poi vi interessasse arrivare alla mostra di Palazzo Grassi un po' meno sprovveduti in materia, o semplicemente non vi dispiacerebbe darvi un po' di arie con chi vi accompagna, snocciolando i soliti termini incomprensibili propri della critica d'arte, vi consiglio questo bel saggio, Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'Informale al Neo-oggettuale, di un'autorità in merito quale Gillo Dorfles, Feltrinelli Economica. O, in ogni caso, passate dal Bookshop prima di salire verso la mostra, e acquistate la piccola guida a 6 euro, sorta di "vademecum di sopravvivenza" che forse renderà un po' meno incomprensibile il percorso.
Serena Effe © 06/2006
Tutte le foto, ad eccezione di quelle delle opere esposte, sono di Rino Giardiello
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