VENEZIA E IL NUOVO PALAZZO GRASSI

La riapertura della prestigiosa sede espositiva è l'occasione per un breve viaggio nel fascino senza scampo di Venezia, tra riflessioni sull'arte e inevitabili interrogativi esistenziali, nella difficile impresa - qui più che altrove - di discernere il reale dal fasullo.

Basta il rosa di un tramonto riflesso in un piccolo canale secondario per far dimenticare di colpo tutte le angherìe subìte durante la giornata... Venezia lo sa bene, come farsi perdonare!

Appena 2 passi "anarchici" oltre le rotte stabilite per  imbattersi nella calma irreale di angoli come questo: un "giardino segreto" nascosto tra lo sciabordìo di acqua e foglie... a neanche 10 metri dalla centralissima e trafficatissima Strada Nuova!!

Il Canal Grande visto dal Ponte di Rialto

"Quei nostri santi padri che, mille e più anni fa, posero mano alla costruzione di questa macchina straordinaria dovevano pur avere, insieme con una enorme provvista di testarda volontà, un grano di generosa pazzia".

Esordisce così Diego Valeri nel suo piccolo libretto Guida sentimentale di Venezia, cogliendo a mio avviso uno degli aspetti fondamentali di questa improbabile città: la pazzia.
La pazzia del progetto, prima di tutto, di una città che sorga dalle acque. Un sontuoso riflesso al contrario, degno compagno delle surreali costruzioni illusorie di calviniana memoria.
La pazzia del suo fascino sconsiderato, supponente, estenuante.
La pazzia delle folle ammaestrate che si riversano qui da ogni parte del mondo (me compresa), e che già in questi primi mesi di caldo somigliano a un gruppo troppo numeroso di pesci trovatisi costretti in un'unica, piccola pozzanghera, pateticamente boccheggianti e pigiati l'uno contro l'altro.
Ma felici, nonostante tutto, di esserci.

Eh sì, perché la pazzia, qui, è stata davvero "generosa": "Tutto è pittura, pittorico sogno, in questo fisico e metafisico paese; anche la più solida e massiccia architettura, anche la propria persona di carne e d'ossa". E come dar torto a chi dica che la materia di cui è fatta Venezia ha un che di magico, simile a quella di cui son fatti i sogni, trovandosi affacciati sul Ponte di Rialto verso la fine del giorno, con lo sguardo perso a rincorrere quella curva del Canal Grande, i palazzi avvolti da quella leggera nebbiolina di umidità sottile che sfuma i contorni e le sensazioni fino a far pensare, non senza una punta di presunzione metafisica, che Venezia, in realtà, non esiste.

Qui non c'è spazio per la banalità di un tiepido sentire. Venezia è dispotica in questo, non transige. E tutto ciò che può sembrare calma indolente, qui non è altro che un'altezzosa indifferenza a tutto ciò che non sia un Grande Sentimento (come ebbe a scrivere André Suarès), sia esso nostalgia disperata o esaltazione gioiosa. Mai città fu così sopra le righe, nel bene e nel male.
Poi basta poco e la magia svanisce, certo. Ti volti e vedi una città stanca, ansimante. Fatta di gelati gocciolanti, canali mefitici, calli sporche del passaggio di migliaia di passi e altrettante impellenze fisiologiche, traghetti a 5 euro, prezzi esorbitanti, gondole di plastica e troppa, assolutamente troppa umanità concentrata in un unico, piccolo e angusto angolo di mondo.

Ma Venezia è unica. E come ogni "pezzo unico" che si rispetti, è insostituibile. E tanto basta per far abbassare gli occhi a chi, come me, si azzarderebbe quasi a tentare di demolire il "mito veneziano", giusto per prendersi una piccola rivincita dopo i tre giorni al limite dell'umana (turistica) sopportazione che mi ha fatto passare.
Ma Venezia detta legge. Ti si offre intera, ammaliante. Ma alle sue condizioni. Come ogni scaltra donna di piacere che si rispetti.

E se anche te ne vai via disgustato, già sai che prima o poi ci tornerai. Non fosse altro che per provare a sentirla tua una volta almeno, solo tua, senza rassegnarsi a doverla dividere costantemente con quell'esercito di amanti distratti.
Non si può fare a meno di sognare un'esclusiva, un rivelarsi, basterebbe una parola appena sussurrata all'orecchio, ma che sia solo per te.

E' quest'illusione che ti riporterà a Venezia, ogni volta.

IL NUOVO MUSEO DI ARTE EROTICA
"Venezia è il sesso femminile d'Europa", scrisse Apollinaire.
Città candidamente sconcia e svenduta (inevitabile destino: difficilmente il Bello si mantiene Puro), bilancia il suo genetico essere profano con dosi di sacro di ineguagliabile intensità. Solo un esempio: a due passi da quello scrigno di luce oscura che è la basilica di San Marco, "la Bibbia più gloriosa che mai città abbia avuto" per dirla con Ruskin (per accedere alla quale adesso sono necessarie ben due code distinte, per la gioia di noi poveri e incompresi Insofferenti: una per depositare borse e zaini in una chiesetta vicina, la seconda per entrare; e infatti stavolta mi son fatta bastare il ricordo!), all'inizio di Calle dei Fabbri, si trova il neonato Museo di Arte Erotica: degno complemento d'arredo in una città che annovera nella sua toponomastica un eloquente Ponte delle Tette (dalla pratica usanza delle prostitute di mescolare ai fiori sul davanzale ben altri floridi doni di Madre Natura), sul quale spendo due parole giusto per dovere di cronaca, in quanto "nuova attrazione".

Atmosfere soffuse all'interno del museo di Arte Erotica (il cui sito è visitabile QUI)
Una delle opere esposte

Unico nel suo genere in Italia, e gestito direttamente dal più famoso Musée de l'Erotisme di Parigi, questo museo ha solo due cose per cui può valer la pena farci un salto: il Libro degli Ospiti (divertentissima lettura, con i commenti dei visitatori più "colpiti") e la piccola terrazza, all'ultimo piano, con una vista meravigliosa sui tetti (e se vogliamo aggiungerne una terza, è anche l'unico museo di Venezia completamente deserto, il che non è poco). Poteva essere una bella idea. Poteva, appunto. Perché il risultato è sconfortante. Opere perlopiù mediocri (e non parliamo poi delle fotografie, per carità!!) che ben poco hanno a che fare con l'idea di erotismo, forse qualche riproduzione di stampe illustranti i Modi di Pietro Aretino un po' più sfiziose (possono sempre tornare utili nel caso in cui si fosse a corto di idee sull'argomento); ciliegina sulla torta, una musica improbabilissima diffusa in tutte le sale, che spegnerebbe i "bollenti spiriti" dell'amante più passionale. Insomma, se proprio non volete perdervi questa paradossale esperienza, vi consiglio di affrettarvi: secondo me chiude i battenti nel giro di qualche mese (si accettano smentite! *).

* Nota: Come era stato immaginato, dopo qualche mese
il Museo di Arte Erotica è stato effettivamente chiuso.

LA MOSTRA A PALAZZO GRASSI
Lasciamoci alle spalle questa mal riuscita commercializzazione dello spirito libertino veneziano, e torniamo alla nostra beneamata pazzia. La pazzia dell'arte, stavolta. Dell'arte contemporanea, nella fattispecie. Tralascio tutte quelle noiose segnalazioni che ogni buona guida può fornirvi (non senza consigliarvi però spassionatamente quel piccolo e raccolto salotto di capolavori che è la Collezione Peggy Guggenheim, con quel suo microscopico giardinetto a ridosso del Canale) per approdare in Campo San Samuele, proprio di fronte ad un Palazzo Grassi sfavillante e tirato a lucido, forte dei suoi pochi mesi di nuova vita. Forse in molti se lo ricorderanno, quanto importante fosse questa prestigiosa sede espositiva quando ancora era gestita dalla Fiat: mostre superbe come quella sull'arte egizia o maya o le monografiche su Balthus e Dalì, solo per citare le prime che mi tornano in mente. Poi, dopo la morte di Gianni Agnelli, il silenzio. Fino all'arrivo del nuovo padrone di casa, il mecenate francese François Pinault (il cui teschio ai raggiX vi dà il benvenuto al sommo dello scalone principale, nell'opera Untitled (Monsieur François Pinault) di Piotr Uklanski), grande collezionista d'arte, che come ogni nuovo inquilino che si rispetti non ha perso tempo ad imprimere il suo marchio personale alla nuova dimora.

Il nuovo look minimalista di Palazzo Grassi
Piotr Uklanski, Untitled (Monsieur François Pinault)

Il palazzo ha subìto un totale restyling ad opera dell'architetto giapponese Tadao Ando: linee essenziali, spazi minimali, quasi invisibili nella loro volontà di non rubare la scena all'arte che vi sarà esposta, di per sé già abbastanza esuberante. Un allestimento consono alla nuova impronta che, come si coglie al volo dalla mostra di riapertura Where are we going? Opere scelte dalla collezione Pinault (visitabile fino al 1° ottobre), è principalmente contemporaneistica.
Duecento opere di arte internazionale del dopoguerra trovano spazio tra le bianche pareti autoportanti, magistralmente esposte in un percorso godibilissimo (non ha prezzo l'affacciarsi, dall'ultimo piano, sul vasto cortile interno a colonnato, ora coperto a mo' di atrio, per una panoramica generale sulle opere). L'arte di questo periodo risponde fondamentalmente ad un unico imperativo: la Novità. Impellenza non fine a se stessa, attenzione, bensì necessità quasi viscerale ed etica di un linguaggio che sia di qualsiasi tipo, purché lontano il più possibile da quella grammatica, da quello stato di coscienza sballati che lanciarono il mondo tra le braccia di una morte lunga anni.
E' un'arte che si suole definire "concettuale" proprio per le sue scarse (se non del tutto assenti) concessioni estetiche, che ambisce a superare la Forma, a scrollarsi di dosso quel pesante fardello, a ridurla a mero "facchino" di Idee, vere protagoniste.
Ed ecco quindi l'Informale, corrente artistica votata alla riscoperta della materia primordiale e del gesto istintivo, violento e liberatorio, contro l'inibizione e il soffocamento creativo imposto dalla precedente tradizione artistica.

La Pop Art, di segno opposto, mantiene quell'imprescindibile substrato rivoluzionario: l'oggetto diventa di per sé opera d'arte, in forza del "sogno americano" di una società votata all'opulenza, al consumismo sfrenato, al superfluo; si approda qui ad una polemica "mitologia del banale", che cerca di restituire visibilità a tutta quella miriade di oggetti di massa ("pop" deriva, com'è noto, dall'aggettivo popular) che quasi non vediamo più, presi come siamo nell'incoscienza di un consumo smodato e preoccupantemente automatico. Spiccano le grandi e colorate sculture dal tono infantile di Jeff Koons, come il Balloon Dog (Magenta), un enorme cane che imita quelli fatti annodando palloncini, affacciato sul Canale.
Come reazione alla colorata sfacciataggine Pop, il Minimalismo rincorre una totale astrazione, una forma che sia "assoluta", al di là e al di fuori dell'uomo, e si serve di strutture elementari, essenziali, di elementi minimi che conducano lo spettatore ad una sorta di "svuotamento contemplativo" che lo avvicini all'Essenza (qualsiasi essa sia): qui rappresentato dalle tele di Rothko, le coraggiose variazioni "bianco su bianco" di Ryman, le sculture in acciaio di Donald Judd e i famosi neon di Dan Flavin.
Come il Minimalismo, anche l'Arte Povera (di cui Pinault è il maggiore collezionista al mondo; tra le opere esposte, quelle di Fontana, Manzoni, Pistoletto) fa da contraltare all'opulenza precedente, proponendo materie grezze, mediatrici di niente se non della loro intrinseca fisicità, non contaminate da sovrastrutture culturali. Povere, insomma, ma dense di sostanza (almeno nelle intenzioni. E a noi non rimane che crederci sulla parola).

Maurizio Cattelan, Him
Piotr Uklanski, Untitled (The Bomb)

Tra le opere, non sempre chiaramente riconducibili esclusivamente ad uno solo dei movimenti citati, spiccano (secondo la mia personalissima opinione), per esempio, l'inquietante Him di Maurizio Cattelan, ritratto in cera di Hitler, inginocchiato in preghiera, relegato nella solitudine di un angolo, con gli occhi rivolti verso il vuoto di quel bianco privo di risposte; le opere di Hirst, che nascono da una riflessione sull'enorme potere – spesso sconsiderato – della scienza, come Infinity, vetrina in vetro e specchio di circa 3 metri per 5, dove fanno bella mostra di sé un'infinità di pillole e pasticche di ogni forma e colore; o l'impressionante vita artificiale del Mechanical Pig, scultura animatronica di McCarthy; l'alienante video di Pierre Huyghe Les Grand Ensembles, in cui la vita viene ridotta ad un succedersi isterico e insensato di finestre che si accendono e si spengono; il colorato collage di carta strappata Untitled (The Bomb) di Piotr Uklanski, che riproduce la sagoma di un fungo atomico con la tragica ingenuità di un bambino; e la stanza-installazione di Rudolf Stingel, completamente tappezzata con celotex argentato coperto da graffiti, decisamente d'effetto.

Paul McCarthy, Mechanical Pig
Rudolf Stingel, Untitled

Jeff Koons, Balloon Dog (Magenta): un'icona post-Pop a guardia di Palazzo Grassi

Damien Hirst, Infinity (particolare)

Insomma, l'arte contemporanea è difficile. Difficile, nel senso di quasi incomprensibile, spesso. Tanto che la maggior parte delle volte, fingendo un'espressione sofferta e concentratissima che finisce per somigliare di solito ad una forma di ebetitudine, ci si trova a fissare un'opera qualunque chiedendosi cosa diavolo avrà voluto dire l'artista, fino alla misera rinuncia che ci vede allontanarci mestamente e risuona del nostro delusissimo "boh!" (illuminante, a questo proposito, un'affermazione di chi ha visitato la mostra con me, al cospetto dell'opera di Mario Merz Accelerazione=sogno che si compone di una motocicletta attaccata al muro con contorno di tubi al neon: "Ecco come sprecare una bella motocicletta!"; mia risposta, di cui non sfugga l'alto tasso intellettualistico: "Eh sì").

L'arte contemporanea, diciamocelo, può essere un'esperienza mentalmente frustrante. Ma ha un pregio, innegabile: non lascia mai indifferenti. Può urtare la sensibilità, lasciare interdetti, disgustare anche (a questo proposito, attenzione all'opera di Damien Hirst Some Comfort Gained from the Acceptance of the Inherent Lies in Everything - Un po' di conforto derivante dall'accettazione della sostanziale bugia di tutte le cose, più o meno - , una mucca accuratamente sezionata ed esposta in colonne di formaldeide, nella penultima sala: sconsigliata agli stomaci deboli; così come le spudorate foto di manichini sessuati di Cindy Sherman, subito dopo), ma smuove sempre qualcosa, spinge inevitabilmente a porsi domande, a cercare significati nascosti e originali, ad andare "al di là" di ogni abitudine interpretativa, sia pure quando la si critica strenuamente.

Alla fine vien davvero da chiederselo: Dove stiamo andando?, dove va l'arte, dove andiamo noi, che fine hanno fatto i buoni, vecchi, cari e rassicuranti "confini", reazionari certo, ma senza dubbio utili di tanto in tanto a orientarsi, a individuare una qualsiasi direzione certa verso cui voltarsi. Perché qui si rischia davvero di scambiare per opera d'arte un prosaicissimo cartello "Vernice fresca" appoggiato ad un termosifone, che di essere opera d'arte non ci pensava proprio (a me è successo, credetemi sulla parola).
Si rischia l'immobilità per le troppe strade tra cui scegliere, quasi che avere una quantità infinita di possibilità equivalga a non averne in realtà più nessuna.

..."Di altri isolotti anche il nome è svanito, se pure è esistito mai. Bisognerebbe interrogare le lucertole che strisciano tra l'erba di quei dossi sperduti, o i gabbiani che vi girano sopra a volo fermo".
Per concludere, vi lascio una piccola, parzialissima Bibliografia senza pretese, se non quella di fornirvi qualche titolo utile ad una preparazione pre-partenza per godervi ogni cosa più a fondo e con una seppur minima cognizione di causa:
le citazioni, quando non diversamente specificato, sono tratte dal libro di Diego Valeri Guida sentimentale di Venezia, Passigli Editori: indulge un po' troppo nel pittoresco, ma è una lettura piacevolmente "d'altri tempi". In fatto di città improbabili, niente di meglio di una rilettura di Le città invisibili di Italo Calvino, Oscar Mondadori.
Due altre "guide d'autore": Le pietre di Venezia di John Ruskin, Oscar Mondadori, un saggio di un celebre viaggiatore del passato che si legge come un romanzo, tra riflessioni d'arte e poesia; e Venezia è un pesce di Tiziano Scarpa, Feltrinelli Economica, una scanzonata e originale passeggiata veneziana a cura di uno degli scrittori di ultima generazione.

Se poi vi interessasse arrivare alla mostra di Palazzo Grassi un po' meno sprovveduti in materia, o semplicemente non vi dispiacerebbe darvi un po' di arie con chi vi accompagna, snocciolando i soliti termini incomprensibili propri della critica d'arte, vi consiglio questo bel saggio, Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'Informale al Neo-oggettuale, di un'autorità in merito quale Gillo Dorfles, Feltrinelli Economica. O, in ogni caso, passate dal Bookshop prima di salire verso la mostra, e acquistate la piccola guida a 6 euro, sorta di "vademecum di sopravvivenza" che forse renderà un po' meno incomprensibile il percorso.

Serena Effe © 06/2006

Tutte le foto, ad eccezione di quelle delle opere esposte, sono di Rino Giardiello

Il grigiore della vita quotidiana è sempre in agguato nelle opere di Gerhard Richter, che con questo olio su tela Personengruppe simula un effetto "foto mossa"




Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Lovers-Paris)... e guai a scambiarla per una giacenza di magazzino di un elettricista!