HIROSHI SUGIMOTO
O DELL'INFOTOGRAFABILE

E' possibile racchiudere in un'immagine lo scorrere del tempo? E scattare un ritratto posato ad un personaggio storico defunto da centinaia d'anni? O, magari, rappresentare fotograficamente concetti matematici quali lo zero e l'infinito?
Di primo acchito, la maggior parte di noi sarebbe probabilmente propensa ad aggirare tali spinosi quesiti... che sono invece il nutrimento essenziale della ricerca concettual-filosofica dell'artista giapponese Hiroshi Sugimoto. Sono cinquanta le fotografie - tutte stampe alla gelatina d'argento di grandi dimensioni, scattate con una fotocamera grande formato 8x10'' - mirabilmente esposte nei sontuosi saloni di Villa Manin di Passariano; un allestimento di estremo impatto, progettato dall'artista stesso: poche immagini in ogni sala, scenografica e parsimoniosa illuminazione, così che i concetti e le idee di cui le foto si fanno portatrici siano liberi di respirare entro grandi spazi, rimbalzando tra stucchi ed affreschi, decantando nelle conche degli alti soffitti. Il contrasto tra la raffinata sfarzosità delle decorazioni e il minimalismo delle opere crea un'atmosfera incredibilmente coinvolgente, che già di per sé sarebbe sufficiente a motivare una visita.

Potremmo azzardarci a chiamarla "meta-fotografia", la sua: una fotografia, cioè, che riflette incessantemente su se stessa, interrogandosi sui propri limiti fino a mutarne il segno, tramutandoli in potenzialità atte a sondare le più varie problematiche di teoria fotografica.
Prendiamo la sua capacità di illusione, per esempio: il modo in cui, con estrema nonchalanche, la fotografia riesce a conferire parvenza di realtà anche alla più spudorata messa in scena, beffandosi di chi guarda, ignaro dell'inganno. L'ingenua fiducia che l'osservatore ripone nella assoluta sincerità della fotografia - in base ad un assunto culturale duro a morire: "la fotografia non può mentire!" - è alla base di alcune delle numerose serie sviluppate da Sugimoto a partire dalla metà degli anni Settanta. Nella serie Dioramas - la prima della sua carriera di fotografo, iniziata nel 1975 -, per esempio, Sugimoto fotografa scene di vita primitiva allestite nel Natural History Museum di New York con modellini di animali e piante stagliati su fondali dipinti: soggetti "falsi", che, una volta fotografati, divengono «as good as real», visivamente plausibili e credibili quanto scene reali, quasi fossero immagini di un reportage naturalistico.
Stesso discorso vale per i celebri Portraits, in cui Sugimoto ritrae contro sfondi neri riproduzioni in cera di famosi personaggi storici; statue di cera che sono a loro volta copie di antichi dipinti (si veda la foto che ritrae Napoleone, e, in fondo all'articolo, quella che documenta l'allestimento della sala dedicata ad Enrico VIII, attorniato per l'occasione dalle sue numerose mogli).


Dunque: se il ritratto pittorico è una copia della realtà, la statua di cera è allora la copia di una copia, e la fotografia finale una copia di una copia di una copia... e se proprio volessimo complicarci la vita, tirando in ballo Platone (secondo il quale anche la realtà che vediamo non è altro che apparenza, cioè a dire l'ombra/copia di modelli ideali: è il mito della Caverna), finiremmo per affermare che ogni Portrait di Sugimoto riproduce una realtà quattro volte falsa! La realtà iniziale - qualunque essa sia - si è trovata a dover attraversare così tanti "filtri", che verrebbe da pensare ne fosse rimasta solo una debole parvenza nell'immagine finale: eppure, di fronte a queste foto l'illusione è tenace, tanto da farci rimanere spiazzati, pronunciando la fatidica, paradossale frase: "sembra più vero del vero!"; ed è proprio in questo istante che la volontà dell'artista prende forma, che la sua opera acquista un senso: nel momento in cui la contemplazione di essa ci obbliga a porci interrogativi che altrimenti avremmo forse trascurato. Queste due serie di Sugimoto, alla luce di quanto detto, avrebbero senza dubbio fatto la gioia di Susan Sontag: a questo proposito, consiglio caldamente la (ri)lettura dei capitoli Nella grotta di Platone e Il mondo dell'immagine contenuti nel volume Sulla fotografia.

Ora, è chiaro che Sugimoto non poteva entrare in un cinema limitandosi a sedere con un secchiello di pop-corn in grembo in attesa dell'inizio del film come qualsiasi altro essere umano a corto di fantasia; no di certo. E' l'artista stesso a raccontarci l'illuminazione che lo portò alla creazione di un'altra serie, nel 1978: «Una sera ebbi una specie di allucinazione. Il botta-e-risposta interiore che seguì questa visione fu una cosa del tipo: "è possibile immortalare un intero film in un singolo fotogramma? e cosa otterrei?"; la risposta fu: "nient'altro che un rettangolo luminoso". Mi misi immediatamente all'opera per materializzare l'idea. Camuffato da turista, entrai in un cinema di seconda categoria dell'East Village di New York portando con me una fotocamera grande formato. Non appena il film ebbe inizio, azionai l'otturatore con il diaframma alla massima apertura; due ore dopo, alla fine del film, chiusi l'otturatore. La sera stessa sviluppai la pellicola: la mia visione era lì, di fronte ai miei occhi». E' la serie dei Theaters, composta da foto scattate col procedimento appena descritto all'interno di teatri americani degli anni Venti e Trenta convertiti in sale cinematografiche, come il Radio City Music Hall di New York: visioni vagamente surreali in cui il tempo che passa, racchiuso a forza in una dimensione che non gli appartiene, si tramuta in luce che scava l'oscurità portando delicatamente a galla gli elementi della scena circostante. Un'ulteriore sperimentazione incentrata sulla cattura dell'impronta del passare del tempo attraverso lunghissimi tempi d'esposizione sarà anche In the praise of shadow, una serie di scatti tramite cui Sugimoto intende registrare la "vita" di una candela, dalla sua accensione al suo naturale estinguersi: ne risultano squarci luminosi ogni volta diversi, a seconda della reazione della fiamma alle sollecitazioni della brezza notturna di cui viene lasciata in balìa; immagini nelle quali Sugimoto non manca di individuare una sorta di astratta "personalità", talvolta prepotentemente intensa, talaltra morbidamente arrendevole.


Scrive Francesco Bonami, curatore della mostra, nonché direttore artistico del Centro d'Arte Contemporanea di Villa Manin: «Il lavoro di Sugimoto è una ricerca dentro le origini della Storia, sia questa la storia zoologica della terra che quella delle azioni umane, vista, simbolicamente, attraverso lo scorrere del tempo attraverso la lente della macchina fotografica, e utilizzando la pellicola come superficie della memoria». Questa incessante "sfida" che Sugimoto ingaggia col tempo, spesso e volentieri si tramuta in un ritorno al passato, non solo in forza dei soggetti ritratti, ma anche grazie all'evocazione di alcuni dei Padri della fotografia, con i quali l'artista intesse un ideale dialogo: il titolo stesso Diorama pare quasi essere un omaggio tributato a Daguerre, che prima di perfezionare il procedimento dagherrotipico si distinse in veste di abile realizzatore di diorama, appunto; o, ancora, nella serie Talbot (una delle ultime), Sugimoto si rifà direttamente agli esperimenti di fotogenic drawings ('disegni fotogenici': silhouettes in negativo ottenute appoggiando piccoli oggetti - come foglie o merletti - su carta sensibilizzata ai sali d'argento, esposta alla luce del Sole e poi sottoposta a fissaggio) compiuti intorno agli anni Trenta dell'Ottocento dall'inventore inglese, passato alla storia per la messa a punto del rivoluzionario procedimento negativo/positivo della calotipìa (negativo su carta).
E' la suggestione di un passato ancestrale che Sugimoto insegue nelle immagini della serie Seascapes, porzioni verticali di mondo in cui acqua e aria si dividono lo spazio equamente, con precisione e pulizia millimetriche: unico indizio di questo connubio, l'evanescente linea retta - talvolta appena percepibile - che divide il fotogramma in due bande orizzontali perfettamente uguali. «Ogni volta che guardo il mare - scrive Sugimoto -, percepisco un tranquillo senso di sicurezza, come se mi trovassi nella mia dimora ancestrale; e mi imbarco in un viaggio all'origine del vedere»; la vertigine di una visione primigenia, quale potrebbe esser stata quella dei primi uomini sulla terra, intrisa di un'atmosfera mitica più prossima al divino che all'umano: è questa la sensazione che ha guidato lo sguardo del fotografo, e che con queste immagini tenta di riproporre alla sensibilità dell'osservatore.

In Conceptual Forms ci troviamo invece alle prese con formule e concetti matematici astratti, tradotti in immagine - e dunque "materializzati" - mediante la riproduzione fotografica di antichi ed enigmatici "modelli matematici": piccole sculture la cui creazione fu a suo tempo motivata dalla volontà di rendere visibile l'invisibile, dando forma e tangibilità a funzioni trigonometriche, teoremi ed astrazioni di ogni sorta; idee tradotte in forme essenziali e tridimensionali, che Sugimoto ci presenta avvolte da una pesante oscurità da cui emergono quasi come "lampi di genio", per l'appunto, nobilitate da uno sguardo che le considera alla stregua di opere d'arte («L'Arte può trovare dimora anche in creazioni prive di intenzioni artistiche», puntualizza a tal proposito l'artista).
Con Architecture, infine, le più celebri icone architettoniche del XX secolo vengono idealmente "corrose", al limite del dissolvimento, da una messa a fuoco approssimativa, che, estranea ad ogni intento documentativo, proietta gli edifici in una dimensione atemporale e priva di contesto, che - almeno nelle intenzioni dell'autore -, agevolerebbe l'emergere della sua essenza più pura. Quindi, siamo avvertiti: vietato uscirsene con frasi del tipo "peccato! Sarebbe stata una bella foto... se solo si fosse impegnato un po' di più con la messa a fuoco!".
Ironia a parte, si tratta in fin dei conti dell'ennesima provocazione inflitta alla fotografia da parte di Sugimoto; ogni volta è come se, impugnata la fotocamera, esordisse in tono di sfida: "eccoci al dunque: vediamo che sai fare. Vediamo se è vero che, come si dice in giro da un secolo e mezzo, sei buona solo a farci vedere ciò che già vediamo".

Non finiscono qui, ad ogni modo, i rebus concettuali attorno ai quali Sugimoto ha meticolosamente avvolto i suoi scatti, di serie in serie, nel tentativo di sviscerare l'idea di partenza, fino a conferirle una qualsiasi forma condivisibile al di fuori della propria mente. Non mi resta dunque che invitarvi - oltre che ovviamente a fare un salto a Villa Manin - ad esplorare la sezione 'Portfolio' sul sito www.sugimotohiroshi.com, dove potrete trovare numerose immagini e interessanti commenti alle singole serie a firma dello stesso fotografo.
Hiroshi Sugimoto, in conclusione, è forse uno dei pochi artisti contemporanei che, pur consacrando la sua opera ad un ambito eminentemente concettuale, non ha per questo rinnegato il lato estetico del fare arte, conservandolo anzi più vivo e convincente che mai. Creatore di immagini istintivamente belle da contemplare, dunque, quanto al contempo stimolanti da "pensare".

Nora Dal Monte © 09/2007

Ulteriori risorse in lingua inglese:
Artsy's official Hiroshi page, which provides a ton of easily accessible images on a beautiful platform, and helps people make the leap to other artists and further exploration.

C'è ancora tempo fino al 30 settembre 2007 per visitare l'esposizione fotografica dell'artista giapponese Hiroshi Sugimoto - presente per la prima volta in Italia -, percorrendo i suggestivi saloni seicenteschi di Villa Manin di Passariano (Codroipo, Udine), immersi in un'atmosfera rarefatta e minimale. Cinquanta opere di grande formato illustrano le principali tematiche del suo lavoro, la cui intensità concettuale è enfatizzata da un affascinante allestimento "d'autore".