Di primo acchito, il nome Sellerio richiamerà alla mente dei più il blu scuro delle copertine e la bella carta vergata dei libri editi dall'omonima casa editrice (i lettori di Camilleri sapranno bene di cosa parlo): non siamo in errore, considerato che l'Enzo Sellerio di cui ci occupiamo è effettivamente "quel" Sellerio, fondatore, insieme alla moglie Elvira, di quell'elegante «impresa culturale prima che economica» la cui nascita fu a suo tempo alimentata dall'appassionato dialogo con due grandi intellettuali palermitani come lo scrittore Leonardo Sciascia e l'antropologo Antonino Buttitta.
Scenario di questo ambizioso progetto trasformato in realtà è la Palermo degli anni Sessanta, animata da una tipologia di "grande intellettuale" che è originalmente descritta nella piacevole storia della casa editrice (che potete leggere integralmente qui): «[L'intellettuale palermitano] è un intellettuale segnato da un particolare movimento dialettico: dal suo cantuccio guarda il centro del mondo. Osserva quanto fragili e piene di eccezioni sono sempre diventate in Sicilia le mode e le verità altrove proclamate di volta in volta infallibili e assolute. Considera tutto questo dapprima con risentimento per esserne escluso, con sufficienza, con desiderio; poi scopre che il suo cantuccio è il mondo». E a questo tipo di intellettuali la casa editrice Sellerio dà spazio, dal 1969, perseguendo una cultura che Sciascia ebbe a definire "amena": elegante e di estrema qualità, "impegnata" e coraggiosa, ma con leggerezza, sempre alla ricerca di una garbata complicità con il lettore.
Ai bene informati, però, sarà venuto in mente anche qualcosa d'altro: l'Enzo Sellerio non solo editore, ma anche - e soprattutto, aggiungerà qualcuno - fotografo. Grande fotografo, per la precisione. E le oltre cento immagini esposte nella mostra fiorentina - selezionate dall'autore stesso, oggi ottantatreenne - ne sono una conferma lampante, che stupisce per l'estrema capacità di coinvolgere, colpire, far indignare o addolcire l'osservatore, che, in ogni caso, difficilmente potrà restare impassibile. Al Sellerio fotografo si deve il merito di aver coniato quel motto, quell'illuminata ammissione di intenti - "il centro guardato dalla periferia, per scoprire che la periferia è il centro" - che sarà poi fatta propria anche dal Sellerio editore, e che fin dagli inizi della sua carriera lo condusse ad eleggere a fulcro ideale del suo universo fotografico la Sicilia, riscattata dalla sua ardua condizione "periferica" grazie ad un'affezione che la scruta e la interroga anche, e soprattutto, quando farlo diviene amaro e, talvolta, frustrante. Il suo primo fotoreportage risale al 1955: tempo di Neorealismo, dunque; di quell'«insieme di voci, in gran parte periferiche, e di una molteplice scoperta delle diverse Italie, specialmente di quelle fino ad allora più sconosciute», secondo la definizione che di Neorealismo dette Italo Calvino; tempo di impegno sincero e concreto, da parte degli intellettuali, nell'ambito della realtà sociale del paese negli anni del secondo dopoguerra.
Un primo lavoro, il reportage "Borgo di Dio" del '55, che è oggigiorno considerato un capolavoro nell'ambito della fotografia neorealista, e che resterà tra gli esiti più alti ed intensi dell'intera sua produzione: attraverso questa serie fotografica, Sellerio documenta l'esistenza della comunità fondata dal sociologo e "animatore sociale" Danilo Dolci in una delle zone allora più depresse della Sicilia - coincidente con i paesi di Trappeto (nel 1952) e Partinico (due anni dopo), ambedue in provincia di Palermo - allo scopo di combattere, attraverso la via della nonviolenza e del coinvolgimento attivo dei soggetti, piaghe quali la mafia e la connivenza della classe politica, l'analfabetizzazione, la disoccupazione, il sottosviluppo, la precarietà dei diritti del lavoro, e non ultimo il fenomeno del banditismo, sorto in conseguenza dei suddetti aspetti come apparentemente unica soluzione a fronte della miseria del secondo dopoguerra.
Danilo Dolci, impegnato in quest'opera di "redenzione" dei più bisognosi, metterà tutto sé stesso nell'impresa, lavorando fianco a fianco con coloro che intendeva aiutare, attuando iniziative concrete e protestando con ricorrenti digiuni (bellissima, in mostra, l'immagine che lo ritrae semidisteso ed avvolto da una coperta, indebolito dalla mancanza di cibo, attorniato da amici-sostenitori - intellettuali del calibro del pittore e scrittore Carlo Levi, autore del meritatamente celebre Cristo si è fermato a Eboli, racconto della sua esperienza di confinato politico in Lucania - intenti a tenerlo aggiornato sulle sue stesse sorti decretate dalle pagine di giornale); inutile dire come, oltre alla stima di numerose personalità italiane ed estere, Dolci riuscì in breve tempo a guadagnarsi l'aperta ostilità delle autorità italiane, Chiesa inclusa, venendo arrestato e processato più volte. Tra i suoi numerosi, appassionati libri dedicati al suo lavoro e all'aperta denuncia delle condizioni sociali del territorio (titoli purtroppo per la maggior parte non più disponibili in libreria, ma reperibili in biblioteca o sul mercato dell'usato), segnalo: "Presto (e bene) perché si muore" (1953), "Banditi a Partinico" (1955), "Inchiesta a Palermo" (1956). Per chi fosse interessato ad approfondire la conoscenza dell'opera e del pensiero di Danilo Dolci - nonché di un significativo tassello di storia italiana - consiglio invece: "Perché l'Italia diventi un paese civile. Palermo 1956: il processo a Danilo Dolci" (L'Ancora del Mediterraneo, 2006) e il recente "Una rivoluzione nonviolenta" (Terre di Mezzo, 2007).
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Spiccano per asprezza, tra le immagini in mostra, proprio quelle scaturite da questo reportage: foto come Alienato custodito in casa o Malata (quest'ultima dotata di un fascino quasi inopportuno, in cui i pochi elementi essenziali della scena si compongono in una dolorosa armonia: la massa bianco-sporco del lenzuolo che custodisce il corpo della donna, contrapposta all'incombente macchia scura della testiera del letto, che pare quasi mimare le fattezze di una figura ingobbita e minacciosa in attesa di un tragico epilogo), con la loro autenticità spudorata e spiazzante, ci raccontano una Sicilia arcaica e dolente, che sconta la persistenza di una purezza "antica" con il dover far fronte a difficoltà che mettono a dura prova il coraggio e la tenacia dei suoi abitanti.
La pubblicazione del reportage "Borgo di Dio" coincide con l'affermazione del Sellerio fotografo, dapprima in Italia - con le prime mostre personali e le collaborazioni a testate giornalistiche nazionali, tra le quali spicca Il Mondo di Pannunzio -, poi a livello internazionale: sarà la rivista svizzera du, nel 1961, ad aprirgli le porte della fotografia d'oltralpe commissionandogli un servizio su Palermo per un numero monografico dedicato alla città. L'anno dopo è la volta di Vogue a Parigi, a cui collabora come free-lance, e poi del salto oltreoceano, a New York nel '65 e '66, dove riceverà anche un incarico da Fortune e realizzerà una serie di coinvolgenti ritratti ad esponenti della vita culturale dell'epoca del calibro di Arthur Miller o dell'artista "impacchettatore" Christo; questi ultimi due sono presenti in mostra, fianco a fianco con altri che ritraggono alcuni "grandi" di casa nostra: Sciascia, lo scultore Manzù, lo scrittore Elio Vittorini, Alberto Sordi, Vittorio Gasmann...
Eccoci però giunti all'altezza di quegli anni ('67-'69) che vedono il Sellerio fotografo-militante cedere repentinamente il passo all'editore, per andare incontro ad un trentennio di "silenzio" fotografico (ma solo per quanto concerne la creazione; Sellerio, infatti, continuerà comunque ad essere una presenza determinante nell'ambiente siciliano, promuovendo giovani talenti attraverso la sua casa editrice).
Ma che tipo di fotografia ci ha lasciato Sellerio, prima di questa data? Senza dubbio una fotografia "della gente", o, ancor più, dei siciliani: di coppole scure, di piedi scalzi, di mura scrostate e vergate da scritte come "Viva Dio"; di sguardi fieri e torvi, di fedeli presi in una preghiera che non conosce il tarlo del dubbio, di processioni, di carbonai che si confondo col nero profondo del fumo; di bambini - tanti -, buffi o stanchi, allegri o dall'espressione prematuramente adulta; di chiassosi mercati - Vucciria e Ballarò -, di tacchini e di muli, di volti scavati e attenti; di un candore involontario, di un'illibatezza sfrontata che brandisce come un'arma, ad ogni passo, il suo cupo risvolto della medaglia.
Una fotografia neorealista fin nel profondo, appassionata ed empaticamente vicina alle sorti dei luoghi e dei volti immortalati, senza forzature o ipocrisie, che non indulge mai nel folkloristico, nel "pittoresco". Una partecipazione, questa, che emerge sottoforma di sentimenti contrastanti che convivono spesso nello stesso scatto, conferendogli un "valore aggiunto" che "si sente", e che ci invita a sostare di fronte ad ogni immagine più del solito, quasi sentissimo la necessità di predisporci all'ascolto di una delle innumerevoli storie racchiuse nei suoi scatti: amarezza, ironia, tenerezza, sconforto, humor, denuncia, poesia (come non tirare in ballo la scuola "umanista" francese di Cartier-Bresson e Doisneau, di fronte a scene come le due proposte qui sopra?)... ci vengono incontro colmandoci gli occhi di un amalgama di emozioni difficilmente scindibili le une dalle altre; basta guardare un'immagine emblematica - dal lungo titolo che è già di per sé un piccolo brano di letteratura - come L'oste conduce il suo asinello a vedere la portaerei americana Independence, in rada durante le elezioni del 1960, scattata a Palermo: si sorride, ci si immalinconisce, ci si intenerisce, osservandola. Fotografie come questa sono degne di divenire icone, per la loro capacità innata di contenere ed accogliere un intero mondo.
Percorrendo questa notevole esposizione, ci sarà un tempo per fermarsi a riflettere, con la fronte aggrottata e con un po' di perplessità inquieta, di fronte ad immagini come quella (sopra) che ritrae un gruppo di bambini che gioca mimando un'esecuzione capitale; ma ci sarà anche un tempo per concedere allo sguardo uno svago tutto estetico, al cospetto di foto come Linguaglossa (la prima dell'articolo), in cui Sellerio si diverte a riscoprire la sinuosità delle volute della ringhiera nel corpo della donna affacciata, che, meravigliosamente sorridente, si presta a questo gioco di rimandi visuali; o nel caso di altre numerose immagini che ci svelano un Sellerio in grado di cogliere al volo non solo il cosiddetto "istante decisivo", ma anche un'armonia compositiva non comune, che spesso arriva sino ad indulgere in fantasie grafiche, alla ricerca di superfici che si ripetano, creando una sorta di "pattern": siano esse tegole (si veda Vizzini, in alto), inferriate, casse di legno al mercato ortofrutticolo, tende di catenella sulla soglia di una focacceria affacciata sulla basilica di San Francesco, muretti a secco che solcano a perdita d'occhio l'altopiano di Ragusa.
La mostra si chiude con uno scatto che, d'un balzo, ci riporta al 2006. Tornato dopo trent'anni ad un incarico ufficiale, Sellerio ha fotografato, per conto della Fondazione Banco di Sicilia, l'interno dell'antica sede del Monte di Pietà a Palazzo Branciforte di Palermo: un dedalo di scalette, mensole e ballatoi, dal fascino irresistibile; un contenitore di memoria di inestimabile valore, tanto quanto l'opera fotografica di questo grande intellettuale siciliano.
Serena Effe © 10/2007
Riproduzione Riservata
L'esposizione è accompagnata dalla pubblicazione del libro fotografico "Fermo Immagine. Fotografie di Enzo Sellerio", edito da Alinari.
Contiene 150 foto in bianco e nero, accompagnate da testi critici di
G. Pugliesi, C. Bertelli, M. Maffioli, A. Sofri.
192 pagine, formato 24x31cm, copertina rigida, prezzo 50 euro.