Picchi innevati, profondi crepacci, ma soprattutto la strenua ricerca del "Sublime": in mostra a Milano (Nepente Art Gallery, fino al 10 novembre 2007) una selezione di circa quaranta immagini di un pioniere della fotografia di montagna.
Fu nel 1554, in pieno Rinascimento, che il Trattato del sublime - risalente al I secolo d.C. - fu pubblicato per la prima volta: attribuito inizialmente al filosofo Longino, successivamente questa ipotetica paternità cadde definitivamente, e da allora si parlò di un non meglio specificato "Anonimo del sublime" o "pseudo-Longino", ratificando definitivamente un'incertezza insolubile. Fu questo breve trattato, incentrato sulla poesia, che ebbe il merito di riportare all'attenzione del mondo culturale una nozione che ebbe origine nell'antichità classica e che giocherà un ruolo fondamentale nell'estetica, nella filosofia e nella storia dell'arte del XIX secolo (basti pensare al Romanticismo ottocentesco, alle opere pittoriche di un Turner o di un Friedrich): il Sublime, appunto.
Ma cosa si intende, precisamente, con il termine "Sublime"? Lungi dall'alludere ad un generico "Bello" elevato all'ennesima potenza, il concetto di Sublime va ben oltre, e per certi aspetti si definisce proprio grazie a delle nette contrapposizioni con la comune nozione di "Bello": «Il Bello e il Sublime sono idee di diversa natura, essendo uno fondato sul piacere e l'altro sul dolore», ci viene in aiuto il filosofo irlandese Edmund Burke, che per primo, nel 1756, formalizzò la distinzione tra questi due concetti estetici nel suo celebre saggio Inquiry into the origin of our ideas of the Sublime and Beautiful ('Indagine sull'origine dell'idea di Sublime e di Bello'). Burke, tirando in ballo il termine "dolore", ci fornisce un suggerimento non da poco: laddove il Bello presuppone un piacere disinteressato e una contemplazione distaccata, priva di turbamento, l'esperienza del Sublime si caratterizza invece per l'emergere nell'animo umano di emozioni profonde e travolgenti, al limite del "doloroso"; se il Bello è, secondo il comune pensiero filosofico, legato alla dimensione del "finito", il Sublime, di contro, sorge dall'incontro dell'essere umano con la dimensione dell' "infinito", dello smisurato, dell'indicibile: incontro che genera paura, orrore, senso di pericolo incombente, e, inspiegabilmente, piacere. Ebbene sì: il Sublime coincide con un godimento che nasce da una minaccia alla nostra incolumità di esseri umani, ed appare quindi connesso al nostro atavico, viscerale istinto di autoconservazione.
E' dunque il sentimento del Sublime - quella «specie di dilettoso orrore», come lo chiama Burke - che motiva la nostra irresistibile quanto irrazionale attrazione nei confronti di fenomeni generati, per esempio, dalle forze scatenate della Natura (tempeste marine, burrasche, eruzioni vulcaniche e ogni altra "catastrofe" naturale la cui potenza sia tale da atterrirci), o legati al concetto di immensità, di abisso, di grandezza sproporzionata alle facoltà umane (l'incommensurabilità del cielo inteso come universo, la profondità di un crepaccio o del mare, oscurità e silenzi impenetrabili, dimensione sterminate etc.). L'incontro con il Sublime ha pertanto il potere di "elevare" l'animo dell'uomo, in forza di una duplice presa di coscienza da parte di quest'ultimo: da una parte, infatti, l'uomo sperimenta la sensazione della propria limitatezza materiale di fronte ai fenomeni cosiddetti "sublimi" (rispetto ai quali siamo fisicamente deboli, in totale balìa di forze a noi estranee); dall'altra, però, l'essere in grado di rendersi conto, attraverso la ragione, di questo meccanismo di piacere che nasce dal pericolo e dal dolore, rende l'uomo moralmente indipendente e superiore a quella stessa Natura che lo minaccia (come a dire che la "dignità" di un'idea, di un ragionamento generato dall'intelletto umano, è più "forte" di ogni tempesta).
Un concetto complesso ma indubbiamente affascinante, insomma; che, oltre ad essere una delle categorie estetiche più frequentate nella storia della filosofia moderna (l'idea di Sublime impegnerà menti del calibro di Kant, Schiller, Hegel, Schopenhauer...), è anche la chiave di lettura proposta dalla mostra milanese "Vedute del Sublime" circa la produzione fotografica del piemontese Vittorio Sella (Biella, 1859-1943). La passione per la fotografia, la montagna e l'alpinismo fu una caratteristica comune alla famiglia Sella, così radicata da non perdere intensità pur con l'avvicendarsi delle generazioni: basti qui ricordare il padre di Vittorio, Giuseppe, a suo tempo autore di un opuscolo di tecnica fotografica che ebbe un discreto successo anche oltre i confini italiani (Il plico del fotografo, 1856: uno dei primi manuali di fotografia scritti da un italiano) e collaboratore della prima rivista specialistica italiana, Camera Obscura; o quel Quintino Sella, zio di Vittorio, celebre per l'incarico di ministro nel primo Regno d'Italia ma anche fotografo, e tra i fondatori, nel 1863, del Club Alpino Italiano (C.A.I.). Tra tutti, solo Vittorio avrà un posto d'onore nella storia della fotografia, essendo in breve tempo riconosciuto come l'autore italiano più importante nell'ambito del genere della fotografia d'alta montagna.
Siamo intorno al 1880 quando Vittorio Sella, apparecchio Grande Formato 30x40 alla mano, inizia ad accompagnare la pratica dell'alpinismo alla documentazione fotografica di entrambi i versanti delle Alpi; è l'inizio di una carriera che lo porterà sempre più "lontano", in ogni senso: lontano dalle "sue" Alpi, per intraprendere ascensioni pionieristiche e sempre più avventurose in luoghi via via più remoti e incontaminati (dal Caucaso centrale all'Alaska - nel 1897, invitato dal Duca degli Abruzzi in veste di accompagnatore e fotografo ufficiale della spedizione -; dall'Himalaya al Ruwenzori, fino ai 7500 metri del Chogolisa, grande record per quei tempi); e lontano anche dall'intento documentario, che, pur restando un aspetto fondamentale della sua produzione, si apre in breve ad orizzonti di ben più ampio respiro.
Se le funzioni topografica, antropologica e genericamente "scientifica" avranno sempre un'importanza di prim'ordine nella sua produzione fotografica (le documentazioni riportate gli varranno prestigiosi riconoscimenti, come quello conferitogli dallo zar Nicola II o dalla Royal Geographic Society di Londra), col passare del tempo la sua visione dei luoghi si carica di elementi sempre più profondi ed emotivamente connotati: oltre che a rifarsi alla tradizione artistica di fine Ottocento (non solo fotografica, ma anche pittorica: lo si evince dall'attenzione riservata da Sella agli effetti di luce, alle condizioni atmosferiche, al senso della prospettiva e delle linee dominanti, alla sensazione di "grandiosità" della composizione finale), Vittorio Sella diviene sempre più abile nello sposare la sua impeccabile perizia tecnica con un'idea di fotografia che ha molto a che fare con il concetto di Sublime. Non è un caso che un fotografo come Ansel Adams, maestro nell'esaltare la maestosità della Natura, alla morte di Sella abbia sentito la necessità di ribadire la «purezza delle sue interpretazioni», capaci quasi di commuovere «fino alla soggezione religiosa».
Ecco che, osservando alcune delle sue più celebri vedute, comprendiamo come la fotografia di montagna, in questo caso, presupponga un'ascensione non solo fisica, ma anche morale; quell' "elevazione dell'animo" di cui parlavamo, che nasce dall'incontro dell'uomo con la vastità e la potenza della Natura, capace di lasciarci senza fiato, di meravigliarci ed intimidirci allo stesso tempo: la tensione verso l'alto, l'attrazione verso luoghi desolati, impervi ed ostili, coincide con l'anelito ad una condizione di solitudine, di raccoglimento e di comunione con la Natura che agevoli il dialogo interiore, l'intima riflessione, il distacco momentaneo da quel "laggiù" che chi sfida le vette si lascia volontariamente alle spalle, pur essendo consapevole dei pericoli a cui questa scelta lo esporrà. Eppure sale, contro ogni razionale motivazione; eppure non rinuncia ad inseguire la vertigine dell'infinito e del Sublime.
Nora Dal Monte © 09/2007