Sono ovunque. Tappezzano le pareti
delle sale nobili della secentesca Villa Ghirlanda,
stazionano sullo scalone d'onore o sotto l'ombrosa
frescura dei loggiati, fino ad invadere persino
biblioteca e sala conferenze. Sono gli oltre 2'700 volti
del progetto "Salviamo la Luna", promosso nel 2005 dal
Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo,
ideato e realizzato dall'artista tedesco Jochen Gerz ed
appena entrato nella sua terza - nonché penultima -
fase: l'esposizione pubblica dei risultati.
Ma sarà forse il caso di partire dal principio di
quest'avventura collettiva, public-art allo stato
puro, che ha visto sfilare quasi tremila persone davanti
all'obiettivo di giovani fotografi
(capitanati da Gerz), recatesi lì per farsi
scattare un ritratto, e tutto in nome della Luna; o
meglio, di ciò che essa rappresenta nel nostro
immaginario: di volta in volta lontananza e mistero,
poesia e immaginazione, irrazionalità e mutevolezza. Un ulteriore suggerimento ci
viene dall'epigrafe scelta per introdurre la mostra a
Villa Ghirlanda, una frase di Mark Twain che recita: «Ogni
uomo è una luna, con un lato oscuro che non mostra mai a
nessuno»: Luna dunque anche come simbolo
dell'inconscio e, perché no, di quel pizzico più o meno
influente di follia che vi dimora.
"Salviamo la Luna" è ciò che comunemente si
definisce un'opera aperta o in progress,
che risponde in pieno ad una delle caratteristiche
fondamentali dell'arte contemporanea: il predominio
dell'Idea rispetto alla sua attuazione pratica; alla sua
nascita, infatti, l'opera paradossalmente ancora non
esisteva, se non nella mente dell'artista. Ci sono
voluti mesi e mesi perché quest'intuizione creativa
prendesse forma, tramutandosi in espressione artistica
tangibile e contemplabile; cosa, questa, che è potuta
avvenire solo grazie all'interazione col pubblico,
chiamato a prendere attivamente parte a questa fatica
(follia?) collettiva, e che, in forza di questa
partecipazione, è divenuto esso stesso protagonista e
autore
dell'opera, e non più solo potenziale fruitore della
stessa. Senza di esso, l'opera non sarebbe esistita.
La prima impressione, guardando l'immagine qui sopra,
potrebbe richiamare alla mente di alcuni il nome di
Franco Vaccari e, con esso, la sua più celebre
"installazione in tempo reale": Photomatic d'Italia (se ne parla approfonditamente in questo articolo),
di cui questa potrebbe sembrare una sorta di variante
ingigantita; ma si tratta in realtà di un'analogia
eminentemente di superficie, considerato che nell'opera
di Vaccari i ritratti erano "presi" da una cabina
automatica per fototessere, e l'autore, una volta
innescato il processo creativo, non era più fisicamente
presente ma lasciava il campo libero al pubblico e a
quello che Vaccari stesso ha definito "inconscio
tecnologico". Qui, invece, le cose stanno
diversamente.
La prima fase, durata diversi mesi, ha visto l'allestimento di set fotografici
aperti a chiunque volesse partecipare al progetto facendosi scattare un ritratto
fotografico; lo stile delle immagini è neutro, seriale, prossimo al "grado zero"
della rappresentazione: bianco e nero, frontalità assoluta, illuminazione
uniforme. Quasi una "schedatura" di fisionomie, libere di esprimersi
con allegria o serietà, di comunicare qualsiasi sentimento o stato d'animo.
Niente ci vieta di tirare in ballo, per analogia, il nome di Gillian Wearing,
artista inglese che nel 1992-93 realizzò la serie fotografica "Signs that...",
fermando per la strada dei passanti sconosciuti e chiedendo loro di scrivere su
un foglio di carta qualsiasi cosa venisse loro in mente, per poi fotografarli
nell'atto di mostrare quell'improvvisato vessillo; attraverso questo approccio
casuale, la Wearing invitava persone mai viste prima ad aprirsi, accantonando
per un attimo pudore e riservatezza, mostrando al mondo ciò che solitamente si
tiene per sé: sogni, aspirazioni, frustrazioni, incertezze. La raffigurazione di
un volto, nell'opera di Gerz, fa le veci del testo scritto: al posto della frase
confidata ad un foglio di carta, in Salviamo la Luna si hanno facce,
sguardi ed espressioni, anch'esse destinate ad essere sventolate come bandiere,
come simboli di innumerevoli microcosmi privati di cui riaffermare il valore. E'
la seconda fase del progetto: la manifestazione.
Invece di essere appesi a qualche parete di museo, pronti per
essere passivamente contemplati, i quasi tremila ritratti sono stati montati su
cartelli ed aste di legno, cosicché, nel corso del mese di maggio 2007, ciascun
partecipante potesse scendere in strada per un'ora, dopo il tramonto, da solo o
in gruppo, con il proprio volto levato verso la Luna. Un modo per dire "Eccomi.
Ci sono"; e, al contrario di quanto accade di solito, manifestare solo per se
stessi, a favore della propria diversità, del proprio ineludibile e solitario
mistero, e nient'altro. Un gesto letteralmente fine a se stesso, non funzionale
a niente, e proprio per questo liberatorio, quasi catartico nella sua
sostanziale inutilità.
Scorrendo le
sensazioni riportate da alcuni manifestanti, si percepisce un po' di
comprensibile imbarazzo; ma ciò che alla fine emerge con più forza è la
sensazione di essere riusciti a ritagliarsi uno spazio intimo entro cui fermarsi
a riflettere, a fare "il punto della situazione", magari risistemando la
graduatoria delle priorità, scrutando in fondo ai propri stessi occhi,
interrogandosi sul modo in cui percepiamo la nostra essenza di uomini nel mondo,
mettendo a fuoco timori e desideri. Per molti l'esperienza è stata anche fonte
di una maggiore consapevolezza sociale, nel momento in cui, incrociando per
strada altri manifestanti, si avvertiva la sensazione di "riconoscersi" anche
senza mai essersi incontrati prima; è la forza che scaturisce dal condividere
un'esperienza comune, capace di assottigliare le barriere che inevitabilmente ci
dividono gli uni dagli altri. Salvare la Luna, dunque, per tentare di salvare
anche un po' noi stessi.
Adesso che il tempo delle manifestazioni è terminato, i 2'734 ritratti
tappezzano le pareti del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo,
accompagnati da ulteriori immagini e video che ripercorrono le varie fasi del
progetto. Conclusa la mostra, a settembre, ad ogni partecipante sarà affidata
una fotografia da esporre in casa propria: ognuno avrà il ritratto di qualcun
altro, così da mantenere viva la sensazione di dialogo ed incontro. Tutte le
immagini rimarranno di proprietà del Museo, costituendo una collezione d'arte
totalmente pubblica, fino in fondo.
Ci sarà sicuramente qualcuno che avrà modo di esprimere qualche scettica
perplessità riguardo quanto detto; non si scappa dal fatidico interrogativo: si
può davvero parlare di "arte", in casi come questo? Poco importa, in fondo; e
poi, purché ci sia dibattito, ogni giudizio è lecito.
Due aspetti, però, sono innegabili: l'energia dirompente emanata da quest'opera
corale, ora che tutti i suoi tasselli sono riuniti in un unico luogo; e la
constatazione delle proliferanti capacità del mezzo fotografico, i cui effetti
sono in grado di insinuarsi senza alcuno sforzo nelle pieghe più nascoste ed
impervie della contemporaneità, nel vivo delle stesse esistenze umane, fino a
suscitare emozioni palpabili, attivando meccanismi profondi dell'interiorità,
quasi lambendo i territori di una realtà "terapeutica".
Nora Dal Monte © 07/2007
Riproduzione Riservata