SALVIAMO LA LUNA!
Un progetto fotografico di public-art
Nora Dal Monte, luglio 2007

«Finché ci importerà della Luna, ci importerà di noi stessi», afferma Jochen Gerz, sintetizzando il significato di questa sua originale opera di public-art. Commissionatagli nel 2005 dal Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, è da poco entrata nella sua penultima fase: l'esposizione dei risultati nell'ambito di una mostra visitabile fino al 23 settembre 2007. Ripercorriamo la genesi di questa creazione fotografica collettiva.

Sono ovunque. Tappezzano le pareti delle sale nobili della secentesca Villa Ghirlanda, stazionano sullo scalone d'onore o sotto l'ombrosa frescura dei loggiati, fino ad invadere persino biblioteca e sala conferenze. Sono gli oltre 2'700 volti del progetto "Salviamo la Luna", promosso nel 2005 dal Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, ideato e realizzato dall'artista tedesco Jochen Gerz ed appena entrato nella sua terza - nonché penultima - fase: l'esposizione pubblica dei risultati.
Ma sarà forse il caso di partire dal principio di quest'avventura collettiva, public-art allo stato puro, che ha visto sfilare quasi tremila persone davanti all'obiettivo di giovani fotografi (capitanati da Gerz), recatesi lì per farsi scattare un ritratto, e tutto in nome della Luna; o meglio, di ciò che essa rappresenta nel nostro immaginario: di volta in volta lontananza e mistero, poesia e immaginazione, irrazionalità e mutevolezza. Un ulteriore suggerimento ci viene dall'epigrafe scelta per introdurre la mostra a Villa Ghirlanda, una frase di Mark Twain che recita: «Ogni uomo è una luna, con un lato oscuro che non mostra mai a nessuno»: Luna dunque anche come simbolo dell'inconscio e, perché no, di quel pizzico più o meno influente di follia che vi dimora.

"Salviamo la Luna" è ciò che comunemente si definisce un'opera aperta o in progress, che risponde in pieno ad una delle caratteristiche fondamentali dell'arte contemporanea: il predominio dell'Idea rispetto alla sua attuazione pratica; alla sua nascita, infatti, l'opera paradossalmente ancora non esisteva, se non nella mente dell'artista. Ci sono voluti mesi e mesi perché quest'intuizione creativa prendesse forma, tramutandosi in espressione artistica tangibile e contemplabile; cosa, questa, che è potuta avvenire solo grazie all'interazione col pubblico, chiamato a prendere attivamente parte a questa fatica (follia?) collettiva, e che, in forza di questa partecipazione, è divenuto esso stesso protagonista e autore dell'opera, e non più solo potenziale fruitore della stessa. Senza di esso, l'opera non sarebbe esistita.


La prima impressione, guardando l'immagine qui sopra, potrebbe richiamare alla mente di alcuni il nome di Franco Vaccari e, con esso, la sua più celebre "installazione in tempo reale": Photomatic d'Italia (se ne parla approfonditamente in questo articolo), di cui questa potrebbe sembrare una sorta di variante ingigantita; ma si tratta in realtà di un'analogia eminentemente di superficie, considerato che nell'opera di Vaccari i ritratti erano "presi" da una cabina automatica per fototessere, e l'autore, una volta innescato il processo creativo, non era più fisicamente presente ma lasciava il campo libero al pubblico e a quello che Vaccari stesso ha definito "inconscio tecnologico". Qui, invece, le cose stanno diversamente.

La prima fase, durata diversi mesi, ha visto l'allestimento di set fotografici aperti a chiunque volesse partecipare al progetto facendosi scattare un ritratto fotografico; lo stile delle immagini è neutro, seriale, prossimo al "grado zero" della rappresentazione: bianco e nero, frontalità assoluta, illuminazione uniforme. Quasi una "schedatura" di fisionomie, libere di esprimersi con allegria o serietà, di comunicare qualsiasi sentimento o stato d'animo.
Niente ci vieta di tirare in ballo, per analogia, il nome di Gillian Wearing, artista inglese che nel 1992-93 realizzò la serie fotografica "Signs that...", fermando per la strada dei passanti sconosciuti e chiedendo loro di scrivere su un foglio di carta qualsiasi cosa venisse loro in mente, per poi fotografarli nell'atto di mostrare quell'improvvisato vessillo; attraverso questo approccio casuale, la Wearing invitava persone mai viste prima ad aprirsi, accantonando per un attimo pudore e riservatezza, mostrando al mondo ciò che solitamente si tiene per sé: sogni, aspirazioni, frustrazioni, incertezze. La raffigurazione di un volto, nell'opera di Gerz, fa le veci del testo scritto: al posto della frase confidata ad un foglio di carta, in Salviamo la Luna si hanno facce, sguardi ed espressioni, anch'esse destinate ad essere sventolate come bandiere, come simboli di innumerevoli microcosmi privati di cui riaffermare il valore. E' la seconda fase del progetto: la manifestazione.


Invece di essere appesi a qualche parete di museo, pronti per essere passivamente contemplati, i quasi tremila ritratti sono stati montati su cartelli ed aste di legno, cosicché, nel corso del mese di maggio 2007, ciascun partecipante potesse scendere in strada per un'ora, dopo il tramonto, da solo o in gruppo, con il proprio volto levato verso la Luna. Un modo per dire "Eccomi. Ci sono"; e, al contrario di quanto accade di solito, manifestare solo per se stessi, a favore della propria diversità, del proprio ineludibile e solitario mistero, e nient'altro. Un gesto letteralmente fine a se stesso, non funzionale a niente, e proprio per questo liberatorio, quasi catartico nella sua sostanziale inutilità.
Scorrendo le sensazioni riportate da alcuni manifestanti, si percepisce un po' di comprensibile imbarazzo; ma ciò che alla fine emerge con più forza è la sensazione di essere riusciti a ritagliarsi uno spazio intimo entro cui fermarsi a riflettere, a fare "il punto della situazione", magari risistemando la graduatoria delle priorità, scrutando in fondo ai propri stessi occhi, interrogandosi sul modo in cui percepiamo la nostra essenza di uomini nel mondo, mettendo a fuoco timori e desideri. Per molti l'esperienza è stata anche fonte di una maggiore consapevolezza sociale, nel momento in cui, incrociando per strada altri manifestanti, si avvertiva la sensazione di "riconoscersi" anche senza mai essersi incontrati prima; è la forza che scaturisce dal condividere un'esperienza comune, capace di assottigliare le barriere che inevitabilmente ci dividono gli uni dagli altri. Salvare la Luna, dunque, per tentare di salvare anche un po' noi stessi.

Adesso che il tempo delle manifestazioni è terminato, i 2'734 ritratti tappezzano le pareti del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, accompagnati da ulteriori immagini e video che ripercorrono le varie fasi del progetto. Conclusa la mostra, a settembre, ad ogni partecipante sarà affidata una fotografia da esporre in casa propria: ognuno avrà il ritratto di qualcun altro, così da mantenere viva la sensazione di dialogo ed incontro. Tutte le immagini rimarranno di proprietà del Museo, costituendo una collezione d'arte totalmente pubblica, fino in fondo.
Ci sarà sicuramente qualcuno che avrà modo di esprimere qualche scettica perplessità riguardo quanto detto; non si scappa dal fatidico interrogativo: si può davvero parlare di "arte", in casi come questo? Poco importa, in fondo; e poi, purché ci sia dibattito, ogni giudizio è lecito.
Due aspetti, però, sono innegabili: l'energia dirompente emanata da quest'opera corale, ora che tutti i suoi tasselli sono riuniti in un unico luogo; e la constatazione delle proliferanti capacità del mezzo fotografico, i cui effetti sono in grado di insinuarsi senza alcuno sforzo nelle pieghe più nascoste ed impervie della contemporaneità, nel vivo delle stesse esistenze umane, fino a suscitare emozioni palpabili, attivando meccanismi profondi dell'interiorità, quasi lambendo i territori di una realtà "terapeutica".

Nora Dal Monte © 07/2007
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