Ravenna è una città fatta di piccole tessere quadrate di vetro colorato, sonnolenta e spaesata, raggomitolata su se stessa dentro al suo involucro di piccoli mattoni rossi macchiati di umidità; un po' come quei sassi tondi e grigi, in apparenza poveri e insignificanti, che talvolta si trovano in montagna: ma se fai tanto di concedergli attenzione, ti ricompensano regalandoti cristalli viola di preziosa ametista. Basta un piccolo colpo, un'incrinatura nella banalità della grigia apparenza, e quello scintillìo vecchio di secoli ti trova, finalmente, come se fosse in cerca di te da centinaia di anni: era lì, in attesa solo dei tuoi occhi. L'importante è aprirsi, accogliere la Possibilità. Sempre. Come un comandamento.
Ravenna è un labirinto. Piccolo, e senza pretese. Ma ti fa girare in tondo regalandoti piccoli scorci di edera verde e foglie ingiallite, tra l'ampolla d'olio che illumina il ricordo del ghibellin fuggiasco e chiostri silenziosi inondati di luce verde e profumo di uva fragola; alla fine però, quando ti scopre stanco, come una mamma premurosa, ti riporta sempre in quell'angolo di mondo che casualmente per qualche giorno hai deciso di chiamare "casa", tra soffitti alti e mobili scuri e severi, con la tenerezza malinconica che sempre hanno le cose a cui decidi di abbandonarti ben sapendo che passeranno in fretta, con l'illusione di essere preda di un incantesimo buffo fatto da un mago ancora alle prime armi, che da qualche parte ti guarda, e sorride (e nasconde le brioches dei bar solo per il gusto di vederti girare per quelle stradine strette con la spensieratezza di un bambino e una fame da lupo).
Ravenna sa di silenzio irreale, di crescione ripieno al tartufo, di cani che scappano veloci all'amore di un padrone a notte fonda, di formaggio con pere e marmellata e piadina calda appena fatta, mangiati in un'enoteca con pareti fatte di vino, un vino trasparente e fresco come l'aria di una giornata di sole d'ottobre dopo la pioggia, e leggero come l'atmosfera che si respira in Romagna: Sol da dé e gnit da dmandé. A costo di ripetermi, questa è una terra che, senza retorica, ti sommerge senza chiedere niente in cambio.
Ravenna è una ringhiera di pietra che ti emoziona con le sue curve sinuose, ma ti sfugge e non si fa afferrare non appena tenti di capire perché: come la felicità. Ci sono cose che vanno vissute, e basta, rinunciando serenamente a chiedersi altro. È lo stupore di un riflesso che ti era sfuggito, e che vedi solo in forza di quell'alchimia magica che fa sì che la ricchezza scivoli da un'anima ad un'altra, dolcemente e senza scosse, come l'acqua di fiume quando assaggia il sale, e subito si fa mare, naturalmente.
Ravenna è un omone barbuto che quando parla sembra Guccini; è una ragazza, bellissima nella sua semplicità e solitudine, seduta su una panchina alla stazione: espressioni di visi sconosciuti, spiate e subito rubate, avidamente rese uniche, incorniciate e appese in quella personale galleria di attimi irripetibili e fuggevoli che ognuno ha dentro di sé.
Ravenna è un inizio, confuso tra sculture d'avorio e bagliori dorati, tra ombre di croci e il rosso acceso dei rubini di melagrane sorridenti in un giardino di fate spiritose; uno di quegli inizi che non importa dove finiranno per condurti, né come: valgono in quanto tali, in quanto novità inaspettata e dolcissima, in quanto potenziale tutto e niente.
Ora, per dovere di cronaca vi dico che non lo so, se Ravenna è davvero una bella città; io non lo so, se è da consigliare o meno. So solo che senza dubbio, per quanto sia scontato, non c'è niente di più vero di quella frase che dice che la Bellezza non sta nelle cose che ci girano intorno, ma solo ed esclusivamente negli occhi di chi guarda.
Serena Effe © 10/2005
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