QUASI L'INFANZIA
I bambini e lo sguardo dell'artista
Serena Effe, luglio 2006

Una piccola esposizione nella Sala d'Arme di Palazzo Vecchio a Firenze. Una riflessione sull'infanzia attraverso i progetti di alcuni fotografi.

L'ingresso alla mostra. Sul manifesto, una foto di Paola De Pietri dalla serie Here, again

L'interno della sala. Sulla destra uno dei tre video di Maria Marshall

Una delle foto di Monica Carocci

Una delle stampe alla gelatina d'argento di Ingar Krauss

L'Arte come unico rifugio, unico anfratto rimasto in cui l'infanzia possa accoccolarsi, lontana dalle grinfie della Realtà, al sicuro. Una salvezza che si paga con l'alienazione dal mondo. Il paradosso di un'esistenza che si fonda su una dissolvenza sottile, un farsi da parte.
Questa l'idea che, almeno nelle intenzioni, tiene insieme i lavori proposti in questa piccola e raccolta esposizione, allestita sotto le volte medievali della Sala d'Arme di Palazzo Vecchio.

Il visitatore è accolto da un mosaico di scatti della fotografa americana Nan Goldin, la cui opera - come spesso accade in ambito contemporaneistico - vive perlopiù grazie al progetto, all'idea che sta alla base del suo fare.
Foto "banali", istantanee talvolta volutamente "sciatte" dal punto di vista tecnico e compositivo, trascendono il loro valore singolo in forza del loro costituirsi come un affresco in progress di tutta una vita.
Rincorrendo una sorta di allegoria, la Goldin fotografa sistematicamente, ormai da decenni, i momenti più disparati della propria esistenza, includendo in questa "schedatura" universale anche amici, conoscenti o estranei che per pura casualità si siano trovati ad incrociare la sua strada.
"L'istantanea è la forma fotografica più vicina all'amore", afferma. Un'apertura totale e indiscriminata alla disperata meraviglia di una vita qualsiasi, accolta con una tenerezza fagocitante.
La camera da letto è il luogo più ricorrente, simbolo della claustrofobia intrinseca ad ogni rapporto umano, in cui si consumano affetti, dolori, violenze o gioie, eccessi, nonché piccoli miracoli quali la maternità.
L'insieme in questione vive infatti del rapporto madre-figlio: immagini semplicissime, che nella loro naturalezza trovano la forza di trasfigurarsi quasi in allegorie della maternità, che traggono una sorta di iconica sacralità proprio dalla loro purezza tutta terrena.

Con uno stile ed un linguaggio assolutamente diversi, le foto di Paola De Pietri si avvicinano però ai risultati concettuali della Goldin. Una serie di grandi stampe della serie Here, again ritraggono in successione delle madri con i loro bambini in braccio.
L'impressione è quella di una fierezza altera e desolata, di un abbandono sopportato strenuamente. Complici le periferie anonime e grigie che le accolgono, come Madonne suburbane: madri di nuovo, e per sempre, prese simbolicamente nel ciclo infinito della vita.

Nelle opere di Wang Ningde e Maria Marshall, invece, l'infanzia sembra tutt'altro che "salvata".
Il primo, giovane fotografo cinese, presenta scatti in bianco e nero in cui le figure di bambini compaiono esclusivamente ad occhi chiusi: la bocca semi aperta, la testa abbandonata da un lato, lungi dall'evocare l'innocenza questi ritratti sembrano piuttosto documentare un annebbiamento dei sensi, un'inadeguatezza, un distacco dalla realtà che rende improbabile ogni possibilità di equilibrio e maturazione: la persistenza di una dimensione onirica che somiglia troppo ad una sorta di ebetitudine. Il messaggio che arriva, a mio avviso, è ben lontano da quello pensato dall'artista.

L'allestimento. Sulla destra un lavoro del fotografo cinese Ningde.

Il video della Marshall è quasi fastidioso nel suo apparire come una corruzione gratuita e opportunistica dell'ingenuità infantile (i bambini "sfruttati", nella fattispecie, sono i suoi figli). C'è di che indignarsi nel vedere un lungo e intenso primissimo piano del volto del suo bambino, che accenna un sorriso, per poi scoprire, via via che si allarga l'inquadratura, i lacci della camicia di forza che indossa, il bianco delle pareti e del materasso su cui è inginocchiato. Fortunatamente si tratta solo di abili elaborazioni digitali, create appositamente per sconcertare l'osservatore mediante questa invasione forzata dell'universo infantile da parte di atteggiamenti e pose che testimoniano tutto il fardello tragico che l'età adulta porta con sé.

Dalla video-arte si torna poi all'eloquenza ineguagliabile della pellicola, specialmente quando vi si continui a "scrivere sopra" in fase di sviluppo e stampa, come nelle belle foto di Monica Carocci: immagini sfocate, sfuggenti, fortemente contrastate, graffiate, maltrattate. Un'ottima metafora, elaborata con stile, della precarietà dell'infanzia, del suo esistere in una perenne dissolvenza e mortificazione, della sua persistenza solo entro i contorni sfilacciati del ricordo.

Dall'espressionismo delicatamente distruttivo di queste immagini si passa quindi alla rarefatta classicità delle stampe alla gelatina d'argento di Ingar Krauss: una galleria di mezzobusti che alludono alle lunghe e faticose pose inteccherite degli esordi della Fotografia e che congelano in sguardi troppo adulti i volti di adolescenti a cui il privilegio dell'infanzia è stato negato dalle circostanze.
Dietro a quelle immagini quasi "borghesi" dimorano realtà quali prigioni per minori, orfanotrofi, povertà: la necessità di crescere prima del tempo.

Tra le opere che concludono questo breve percorso ce n'è una, bizzarra, di Luca Stoppini: un libro d'arte su un piedistallo, custodito in una teca. L'immagine è una Madonna con Bambino, in cui il volto di Maria è nascosto da un grosso chewingum rosa appiccicato. Un inno iconoclasta alla ribellione, degna di essere ascoltata, compresa e riconosciuta come tale anche quando provenga dalle piccole mani di un bambino.
Perché la dignità dell'infanzia non sia più messa in discussione.

Certo non si tratta di una mostra che possa giustificare una trasferta fiorentina...ma se vi trovate in città per qualsiasi altro motivo, approfittatene. E una volta usciti, girate l'angolo e non mancate di visitare quella meraviglia che è il Salone dei Cinquecento, all'interno di Palazzo Vecchio. Fiorentini inclusi: rivederlo non fa mai male!

Serena Effe © 07/2006
Riproduzione Riservata