Del perché bisogna visitare il Nuraghe Arrubiu e di quella volta in cui il grande fotografo, Federico Patellani, si fermò a scattare.
A Cinisello Balsamo, provincia di Milano, si trovano, all’interno del Museo di Fotografia Contemporanea, alcune foto scattate intorno ai Cinquanta nelle campagne di un paese che si chiama Orroli, provincia di Cagliari, e di preciso in un luogo che rappresenta una delle più importanti aree archeologiche della Sardegna, vale a dire il Nuraghe Arrubiu, e scattate però non da un fotografo qualsiasi ma da uno di nome Federico Patellani.
Io l’ho scoperto per caso e l’ho scoperto grazie a una delle guide del Nuraghe; a proposito - se potete - andate a visitarlo, non solo per il Nuraghe, che va detto è l’unico pentalobato in Sardegna, ma anche per le guide. Io, per dire, lo visito almeno una volta l’anno e tutte le volte càpito con una diversa e ogni volta ho come l’impressione di essere trascinata nella stessa storia, passando dalla fine, dal mezzo, o dall’inizio e tutte le volte quella stessa storia sembra, però, sempre più bella.
Credo che sia per il mistero, il mistero che ancora conservano i Nuraghi. Insomma, tremilaquattrocento anni, infinite teorie e una marea di punti interrogativi che ogni volta sistemano là, grandi come quei massi di basalto, messi uno sull’altro, fino a toccare il cielo. Così è normale, mi dico, che la cosa li appassioni, li appassioni talmente tanto che loro, sì, sono guide, ma in fondo qualcosa di più vicino ai cantori. Dopotutto un Nuraghe che si chiama pure Gigante Rosso non può non lasciare a bocca aperta. E noi, di fatto, è così che si rimane in attesa che la scienza, l’ultima e più progredita tecnologia, ci spieghi com’è che è avvenuto che quei signori là sono riusciti a fare quello che hanno fatto. E quando sembra di essere sul punto di aver capito, ecco, è proprio allora che si ricomincia con quei punti interrogativi. Insomma, se volete fare un tuffo nella Storia, tra fascino conoscenza e mistero, andateci, andate a visitare il Nuraghe Arrubiu.
Andate a visitare quel luogo di cui si sa che nel Cinquanta, per esempio, ma per tanti altri decenni ancora, quello come tutti gli altri sparsi nell’Isola, era per la gente un bene gratuito, un bene come un albero, una roccia, un fiume. Era parte del paesaggio e che fosse bello era chiaro, è sempre stato chiaro, di fatto si sa che era anche funzionale. Per dirne una, aiutava a ripararsi.
Insomma un luogo che per essere quel che è oggi c’è voluto del tempo e dei soldi, tanti, quelli che poi con sommo ritardo hanno iniziato ad arrivare e che non sono mai stati abbastanza per capire, e scavare ancora, e scavare meglio. C’è voluto del tempo per arrivare noi tutti a dire: il Nuraghe è un pezzo di Storia, il Nuraghe va preservato.
Di certo Federico Patellani aveva trovato una ragione per fermarsi e riconoscere sulle sue pietre un’epoca e un mondo che sembrava un’altra epoca, un altro mondo.
Salvatore Mereu ha fatto un bellissimo film, si chiama Sonetàula. Un film che letto su un verso solo, così come si possono guardare da un solo piano quelle foto, sembra una grande bellissima poesia. Un mito, un racconto, una storia d’identità. Una ragione d’orgoglio. Di fatto nel susseguirsi di quei fotogrammi in pellicola, così come nel risultato di quel po’ di bromuro d’argento, si dispiega la storia di una vita che doveva essere durissima, anzi lo era, e lo so per certo.
Non fosse altro perché qualcosa di quella storia io l’ho sentita dal vivo. Con poche parole. Pochissime, ma che sono bastate. Sono quelle venute fuori dalla bocca di uno zio, uno che la guida mi ha detto: guarda che forse questo in foto potrebbe essere lui, così han detto i vecchi del paese. Sarebbe stato bello potergli chiedere conferma, a lui, quello che in foto sembrerebbe un ragazzetto poco più di un bambino, ma non si può. Allora provo a immaginare, a immaginare lui, che era uno a cui il palcoscenico non era mai piaciuto. “Arratza ‘e spantu!”, avrebbe detto, con un’esclamazione che a volerla tradurre suonerebbe come “non c’è molto da dire, eravamo tutti così”. Si era così. In tanti si era così.
Tanti avevano scrutato d’estate come d’inverno le notti nere nere ai piedi del Gigante. Tanti avevano avuto mani delicate eppure già possenti per stringere un agnello come forse, oggi, uno dei nostri bambini saprebbe fare solo con un peluche. Tanti erano stati corpi appena aperti alla vita, dritti e addestrati a non avere paura. Mai. Tanti erano diventati uomini nell’imparare a riconoscere da un soffio la direzione da cui spirava il vento. E allora lì, uomini e ancora bambini, avrebbero avuto il permesso di mettere sulle spalle asce e scuri. Ad avere come più fedeli compagni il silenzio, la polvere, le querce, il canto degli uccelli, l’odore delle stagioni che passano, il tintinnio dei campanacci, uno diverso dall’altro. Tanti avrebbero imparato non a fare i pastori, ma a essere pastori.
Quel che ha saputo vedere Federico Patellani rimane a noi come un monito: sapere da dove veniamo, saper convivere coi tanti misteri che la Sardegna, come in generale la vita, si porta appresso. Lui, del resto, era venuto a fotografarla per dare voce a una terra che diceva dimenticata e, nel vedere le sue foto, l’interesse antropologico è chiaro, evidente. Così come è chiaro, in quello sociale, che il suo è un lavoro compiuto con gran delicatezza, senza forzature, senza folklore, con un occhio che sfiora un grado di oggettività pura e che però porta in sé il gusto e la bellezza che è solo ai grandi fotografi di reportage.
C’è per esempio una sua foto, così intensa, che a guardarla a lungo non si resiste: due minatori, lo sguardo fiero come due re. La testa nera di carbone. La povertà nelle ossa. La speranza che ristagna nelle nuvole e che però è pur sempre speranza. La madre delle cose che riescono e di quelle che a volte possono invece affossare.
Ha saputo vedere tante cose Federico Patellani. Quelle che stanno in silenzio sotto i nostri occhi e non distinguiamo mai abbastanza.
Maria Letizia Mereu © 11/2016
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Per le immagini che accompagnano questo articolo si ringraziano le curatrici del fondo Patellani
Federico Patellani © Studio Federico Patellani - Regione Lombardia / Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo-Milano
Ora in mostra al Museo di Fotografia Contemporanea a Cinisello Balsamo (MI):
LA GUERRA È FINITA. NASCE LA REPUBBLICA
MILANO 1945-1946. FOTOGRAFIE DI FEDERICO PATELLANI
a cura di Kitti Bolognesi e Giovanna Calvenzi
18.09.2016 > 15.01.2017
Per maggiori info: www.mufoco.org