Kazuyoshi Nomachi è un Signor Fotografo.
Se qualcuno ci avesse chiesto, subito dopo aver visitato questa mostra, un giudizio in due parole, questa è l’espressione che con tutta probabilità avremmo usato. Perché l’attrezzatura si compra, i viaggi in luoghi esotici si organizzano, la stampa la cura Canon (che in materia di stampa fotografica sa il fatto suo); ma tutto il resto ce lo deve mettere il fotografo, possibilmente senza eccedere in spettacolarizzazione, pietismo, e cercando di offrire allo spettatore un punto di vista originale.
Nomachi, giapponese classe 1946, lo fa. La mostra Le Vie del Sacro, presso il Centro La Pelanda di Roma (a Testaccio), dura fino al 4 Maggio prossimo ed è la prima antologica di Nomachi in Occidente. E’ suddivisa in sette sezioni e contiene oltre duecento scatti, quasi tutti di altissimo livello e capaci di raccontare con garbo e sensibilità come, in diverse zone del mondo, l’esistenza quotidiana, pur svolgendosi in condizioni durissime, non perda la capacità di mantenere accesa la fiammella della spiritualità, della fede, della speranza in un futuro migliore - in questo o quell’altro mondo, in questa o in un’altra vita.
Il filo conduttore delle sette sezioni è difatti, come il titolo fa capire, la sacralità. Nomachi, andando oltre la realizzazione degli scatti “esotici e spettacolari” che uno si attenderebbe da quelle latitudini - belli e affascinanti, ma prevedibili: di monaci tibetani, musulmani in preghiera rivolti alla Mecca o feste cattoliche in Sudamerica se ne sono già visti in abbondanza -, indaga il modo in cui popolazioni tanto diverse tra loro vivono, com’è naturale ciascuna a suo modo, il sacro, e come la vita quotidiana degli individui si rapporti alla dimensione della fede adattandosi ai luoghi ed alle singole culture, creando quella magia e quella complessità che, quarant’anni fa, tanto affascinò il fotoreporter Nomachi spingendolo a seguire questo filone per gran parte del suo percorso fotografico successivo.
Le foto di Nomachi hanno una qualità particolare (aldilà, com’è ovvio, dell’eccellente realizzazione tecnica, che a questi livelli diamo per scontata; non si vanno a sentire i Berliner Philharmoniker per poi accorgersi che “sanno suonare”): riescono a colpire l’osservatore pur mantenendo, anche nelle scene più coinvolgenti, una certa distanza, oseremmo dire asciuttezza, nella rappresentazione. L’occhio del fotografo è presente, ci racconta le situazioni, ma rimane discreto, e compone immagini che si prestano ad una lettura non superficiale, perché quasi ogni scatto, se accuratamente osservato, rivela una qualche specificità - un dettaglio, un’espressione, una lama di luce, una macchia di colore. Il gusto tipicamente giapponese per l’estetica, permeato di eleganza ed essenzialità, ben si sposa con scene così intense in termini di luce, colori, o anche solo di potenza dell’immagine inquadrata; il risultato è un racconto per immagini sempre in equilibrio tra forza e delicatezza, lirismo e semplicità.
Le tante belle foto della mostra sono raccolte in un catalogo (dieci Euro, edito da National Geographic), che è sicuramente un ottimo ricordo dell’esposizione, ma che non riesce a rendere - per dimensioni e ricchezza tonale - la bellezza e l’impatto di molte immagini; tanto per limitarci a due soli esempi, le bellissime foto di pagina 34 e 54 sono, dal vivo, semplicemente mozzafiato, qualità che purtroppo sul volume non traspare. E dunque, non ci dilunghiamo oltre a ribadire la bravura di Nomachi (insomma, vale quanto detto poco sopra sui Berliner), e chiudiamo questa breve nota semplicemente invitando chi può ad andare a visitare la mostra, dedicandole il tempo che merita.
Info: http://www.mostranomachi.it/index.html
Agostino Maiello © 03/2014
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