La mostra di cui parleremo (che andrà avanti fino al 25 marzo, ed è visitabile con orario 10-17, tutti i giorni escluso martedì e festivi) è ospitata in una delle poche - troppo poche! - oasi di contemporaneità in una città come Firenze, il più delle volte soffocata da una tronfia e ingombrante dittatura artistica rinascimentale, che nella sua presunzione lascia ben poco spazio ad ogni incursione in territorio creativo che si azzardi timidamente ad affacciarsi oltre il Cinquecento.
LA CHIESA-MUSEO
L'oasi in questione è il Museo Marino Marini, e vale la pena spenderci qualche parola. Vi si accede dalla piazzetta di San Pancrazio, una delle tante piccole piazze sparpagliate per Firenze, e come la maggior parte di esse, anche lei maltrattata dai tempi, divenuta ormai niente più che un parcheggio a cui si accede con la pancia tirata in dentro, cercando di infilarsi come goffe ballerine sulle punte tra le varie portiere e parafanghi. Il museo ha sede nell'omonima chiesa - o meglio ex chiesa -, dall'esistenza assai travagliata: sorta come parte di un più ampio complesso religioso intorno al IX secolo, ha subìto fino ad oggi una serie di rimaneggiamenti che ne hanno mutato via via le fattezze in maniera a dir poco radicale. Durante il Rinascimento ci mise le mani anche Leon Battista Alberti, ma essendo la Fama figlia del Tempo, dopo poco nessuno si fece problemi a smantellare gran parte del lavoro del famoso umanista ed architetto fiorentino, che ormai rimane niente più che una labile suggestione. Nel '700 la struttura fu investita dagli ultimi refoli barocchi rimasti nell'aria, subendo il suo penultimo restyling prima della sconsacrazione, avvenuta con editto napoleonico nel 1808. Fu poi adibita a Lotteria Imperiale di Francia, Pretura, Reale Manifattura Tabacchi - nel 1883 - e infine a deposito militare: fino a che, nel 1982, iniziò l'opera di restauro, in vista dell'allestimento del museo, che regalerà finalmente un po' di pace a queste mura in inevitabile crisi d'identità. Ma si sa che ogni "crisi" porta con sé mutamento, e quindi in fin dei conti nuova vita e nuova creatività. L'allestimento del museo infatti, pur nei limiti delle sue non certo esorbitanti pretese, vanta diversi aspetti davvero originali. L'aspetto più suggestivo ad un primo colpo d'occhio è proprio la compresenza di tutte queste sue identità passate, ma non dimenticate: si riconosce la chiesa, nei corridoi stretti e nelle cappelle anguste, una volta avvolte dall'ombra e oggi invece svelate dalla luce proveniente dalla grande parete a vetri al posto che fu dell'abside; si riconoscono i rimaneggiamenti industriali, nelle imponenti longarine in ferro bullonato che rappresentano una felicissima stonatura; e ovviamente si riconosce il museo, non solo per la collezione di opere in essa contenute, ma anche per la presenza di passerelle che uniscono i vari spazi espositivi e che possono ricordare uno dei tanti quadri di Escher, in cui innumerevoli scale e scalette si intrecciano in un'apoteosi di Relatività. Ed è proprio questa sistemazione che dà modo al visitatore di "spiare" le sculture di Marini da ogni angolo e prospettiva, avendo sempre lo spazio sufficiente per girargli intorno e la possibilità di osservarle anche dall'alto, in una sorta di approccio cubistico immaginario davvero stimolante.
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Il saloneprincipale del museo - ex navata centrale -illuminato dalla parete di luce al posto che fu dell'abside (foto dal sito del Museo).
Qui avrebbe dovuto esserci un'immagine. Ringraziamo la SIAE e il suo remare contro la libera diffusione della cultura sul web
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Uno dei "Cavalieri" della prima stagione, dal pathos ancora misurato (foto dal sito del Museo).
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La morbida e raccolta femminilità di una "Bagnante" (foto dal sito del Museo).
Un angolo della cripta, dove vengono allestite le mostre temporanee.
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Gino Severini, Sintesi visuale del concetto "guerra". Un tipico esempio di pittura futurista legata al tema della guerra, esemplificativo di alcune delleopereesposte nella prima sezione(immagini didifficile reperibilità, e che purtroppo non ho potuto fotografare in mostra).
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Fortunato Depero, Paesaggio di rumori in guerra. Una delle "tavole parolibere" in mostra, schizzata dall'artista in trincea.
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MARINO MARINI
Per chi frequenti un po' l'arte novecentesca, il nome dello scultore pistoiese Marino Marini fa subito venire alla mente due distinti gruppi tematici: le "Pomone" e i Cavalieri. Le prime, sculture di figure femminili per lo più stilizzate, ricordano certe statuette preistoriche simbolo di fertilità, con fondoschiena e seni accentuati che, così come accade con Marini, hanno il compito di raffigurare l'elemento solare e "accogliente" della femminilità nella sua accezione più naturale e semplice. La serie dei "Cavalieri" richiede invece una lettura più profonda, richiesta dalla loro natura senza dubbio più "sofferta" e simbolica. Potrei soffermarmi a parlare della lettura che di queste figure è stata fatta dalla critica, o dall'autore stesso, certo. Ma l'arte ha questo di bello, in ogni sua declinazione: che un'opera, poesia dipinto o scultura che sia, una volta uscita dalla mente dell'artista diventa patrimonio paradossalmente esclusivo di chiunque la viva: non più una sola ma dieci cento mille opere diverse, tutte racchiuse nella medesima. Un'opera acquista significato, sostanza e "vita", nel momento in cui viene riempita del vissuto di chi la contempla, in quell'attimo privilegiato in cui vi si scorge un'eco delle proprie emozioni, del proprio essere nascosto - nascosto spesso anche a noi stessi -, quando contemplarla diventa pian piano uno specchiarsi stupito e un po' incredulo, ed è allora che l'arte comincia a "parlare". Fino ad allora è un involucro vuoto, floscio e reticente, nei casi migliori un raffinato esercizio estetico e niente più. Che il bello sia un concetto relativo è ormai un'idea acquisita, maturata in secoli di dibattiti d'estetica. Per conto mio, un'opera è bella solo quando ci si riconosca: quando ci rivela qualcosa di noi che ancora non sapevamo, o che magari intuivamo confusamente. Un'opera è bella quando ti dice "Ecco, è questo che intendevi". E in quel momento, quell'opera d'arte diventa nostra, né più né meno di quanto fu di chi l'ha creata. E le parole di generazioni di critici e storici dell'arte, così come quelle dell'artista stesso, a quel punto si trasformano in un brusìo fastidioso e superfluo, in confronto a quel colloquio silenzioso che gode del dono dell'unicità. Nella mia personalissima chiacchierata con i Cavalieri, li ho riconosciuti come scarni simboli della salutare difficoltà del vivere, né più né meno. Alcune di queste figure sono calme, equilibrate, segno che l'interazione cavallo-uomo (o vita-uomo) è buona, che la direzione perseguita è chiara e raggiungibile; altre invece sono concitate, drammatiche nell'inquietudine sempre maggiore del cavallo che tenta di disarcionare il cavaliere o che stramazza al suolo, rendendo impossibile continuare il cammino, obbligando l'uomo a sofferte acrobazie pur di restare in sella, pur di andare avanti. Alcune di quest'ultime si intitolano, significativamente, Miracolo: il "miracolo" sta nella forza di restare in sella alla vita, anche quando questa fa di tutto per buttarci giù, anche quando si impunta a fare un po' come le pare, e non resta altro che inventarsi contorsioni sempre nuove pur di riprenderne il controllo. Una volta, tanto tempo fa, durante la mia prima visita a questo museo, i Cavalieri mi ricordarono questo, e nel loro piccolo mi aiutarono a capire che quella stessa forza l'avrei prima o poi trovata anche dentro di me. Quando si dice la potenza dell'arte!
LA MOSTRA
Lascio a voi il divertimento di scoprire il resto della collezione permanente, e mi avvio verso le scale che conducono alla cripta, dove si tengono le esposizioni temporanee - per lo più di artisti contemporanei, e spesso anche di fotografia - e quindi anche la nostra mostra "La Grande Guerra degli artisti". L'ambiente è raccolto e pieno d'atmosfera, con le sue volte basse di mattoni a vista, e la mostra è un'occasione per riflettere sui diversi approcci all'idea di "guerra", che gli artisti in mostra hanno tradotto nelle loro opere. La prima sezione è relativa alla propaganda interventista, iniziata quando la guerra era già scoppiata, nel 1914, ma ancora non era arrivata in Italia. I più attivi in questo senso furono ovviamente i futuristi, con la loro poetica di azione, progresso, aggressività vitalistica, con le loro tele tutte dinamismo e colore, intrecciate di astratte "linee di forza", inneggianti alla guerra come "unica igiene del mondo", che spazzasse via il vecchio per lasciar posto al Nuovo: una "guerra-festa", insomma, come testimoniano le tele di Balla e di Severini.
Qui avrebbe dovuto esserci un'immagine. Ringraziamo la SIAE e il suo remare contro la libera diffusione della cultura sul web
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Giacomo Balla, Forme grido viva l'Italia.
Opera esemplificativa della "guerra-festa" dei futuristi,
tutta colori ed energia.
Bellissime le due "tavole parolibere" autografe di Depero e Marinetti - leader del movimento, autore della poesia Battaglia a 9 piani qui esposta - , schizzate in trincea: poesie "disegnate" e rumoreggianti, che abbinano alla parola anche il supporto figurativo e che rispondono alle regole delle "parole in libertà", in cui la sensazione deve fluire libera da regole poetiche o grammaticali di sorta.
La seconda sezione - la più ricca e bella - passa in rassegna una più generale iconografia bellica, ed è interessante notare come l'euforia guerrafondaia dei futuristi si stemperi nei colori e nei toni, per farsi più intima e "sottovoce", nel tentativo drammatico di tener viva la creatività anche immersi in una realtà ben diversa da quella fino a quel momento solo immaginata, in un momento in cui anche i più tenaci ideali traballano sotto le esplosioni. Gli artisti non arruolati continuano a dar vita a quadri "da cavalletto", formali e rigorosi nel loro continuare a glorificare l'eroismo della guerra (è il caso, tra gli altri, di Italico Brass). Ma chi si trovava al fronte, faccia a faccia con l'orrore e l'insensatezza sostanziale della guerra, dà vita a tragici documenti di quel terrore e di quella solitudine: immagini spesso appena schizzate nelle brevi soste in trincea, acquerelli, matita e carboncino, immagini rubate nel pericolo, pur di continuare ad esercitare la propria umanità anche in un contesto che fa di tutto per annientarla. Disillusione ed amarezza, come nelle parole di Lorenzo Viani: "I miei pensieri sono qua disordinati come temporali di ottobre, come fogli di una vita vissuta in fretta, strappati e gettati via inconsideratamente
". Stupende le tante xilografie (dello stesso Viani, di Barbieri e Balduini), una tecnica già di per sé fortemente espressionistica nelle sue forme essenziali, nei suoi angoli taglienti, nelle sue macchie nere dai contorni graffiati. Vale una considerazione a sé - fosse anche solo per il contrasto con le opere che ha intorno - una tela di Ottone Rosai, Guerra+Rancio, che in linea con il suo stile semplice e fiabesco dà vita ad un quadro che sembra la raffigurazione della guerra vista da un bambino, come fosse soltanto la paura di una notte più buia delle altre, dove sulle figurine stilizzate di soldati e cannoni domina il verde acceso del prato e il blu del cielo.
Tra i carboncini di Morando - tra le opere più suggestive - mi è parso di individuare quella che potrebbe essere l'opera che meglio delle altre riassume il messaggio di questa mostra: si intitola San Michele, giornata di bombardamenti. Il paesaggio intorno è appena accennato, e l'attenzione è tutta per quell'unica figura di soldato, centrale, seduto su una pietra, con i gomiti appoggiati sui ginocchi e la testa stretta tra le mani, gli occhi verso il basso, per non vedere, per non sentire. Perché è questo, che in fondo rimane: al di là dell'entusiasmo futurista, al di là dell'osannato eroismo e della glorificazione del conflitto: la paura direi quasi "animalesca" dell'uomo, solo, indifeso, che ridiventa bambino di fronte al frastuono della morte. Il resto della mostra - che a dire la verità si guarda quasi di sfuggita, dopo la forza delle immagini precedenti - propone manifesti, illustrazioni, vignette satiriche per i giornali, immagini destinate alla popolazione civile, per sostenerne gli animi, per rinsaldarne la fiducia. Salvo poi piangere i morti - ed è il tema dell'ultima, breve sezione - che, anche se glorificati dai vari monumenti, rimangono, desolatamente, solo dei morti.
Serena Effe © 01/2006
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