MAN RAY:
ELOGIO DELLA SPERIMENTAZIONE

Rayografie, solarizzazioni, sovrimpressioni... la fotografia, con Man Ray, si trasforma in mezzo di interrogazione e indagine della sur-realtà, a stretto contatto con le coeve poetiche di dadaismo e surrealismo

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Man Ray era un pittore. Non un fotografo.
L'affermazione non dovrebbe indispettire né cogliere di sorpresa chiunque si sia trovato a leggere almeno una volta - e a condividere - quella sua stra-famosa frase che recita: "Di sicuro, ci sarà sempre chi guarderà solo la tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perché' ".
Il 'perché' di Man Ray, infatti, ha davvero poco a che fare con il concetto di fotografia comunemente inteso, a partire proprio dall'assoluta marginalità di quel 'come'. Lungi dall'essere un venerato mezzo tecnologico al servizio di una riproduzione esatta della realtà, la macchina fotografica per Man Ray non era altro che un pennello ausiliario, da sostituire a quello propriamente detto nel momento in cui ciò che c'era da rappresentare esulasse dall'ambito tutto 'materico' della pittura e della tela.
Senza caricarlo di particolari velleità artistiche, il mezzo fotografico fu per Man Ray un accessorio, tanto indispensabile quanto non particolarmente stimato. Un certo disprezzo per i mezzi necessari a dar forma ad un'Idea, a suo dire, era necessario a sublimarla, a renderla più pura. Tanto che più volte lo si sentirà sentenziare: "La fotografia non è arte".
L'opera di Man Ray risponde ad un paradosso inevitabile: egli fu più profondamente fotografo di tanti altri pittorialisti del tempo, proprio in forza di questo suo non esserlo.










Qui avrebbe dovuto esserci un'immagine. Ringraziamo la SIAE e il suo remare contro la libera diffusione della cultura sul web









Donna dai lunghi capelli, 1929









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Una delle rayografie facenti parte della serie "I Campi Deliziosi": un titolo non-sense, di chiara derivazione dadaista

Perché fu proprio questo suo sottostimare il mezzo, questo sua indifferenza un po' snob nei confronti del concetto stesso di tecnica fotografica che lo condusse più in profondità di tanti altri e, ironia della sorte, ad essere poi osannato quale inventore di alcune tecniche rivoluzionarie (suo malgrado, verrebbe quasi da dire).
Man Ray (già Emmanuel Radnitzky, poi mutato nel più eloquente 'Uomo Raggio' - anche se sul vero nome non ci sono certezze) nasce artisticamente pittore, e pittore rimarrà per tutta la vita: "uno dei principali capi d'imputazione che più tardi dovevano scagliare contro di me i difensori della fotografia pura, era proprio che confondevo la fotografia con la pittura. Più che giusto, rispondevo, visto che sono un pittore". Solo nei limiti che lo vedano dipingere stringendo tra le dita un metaforico pennello intriso di luce, Man Ray può effettivamente considerarsi un grande fotografo. Tutto il resto - tutto quel contorno di teorie estetiche e idee stilistiche maturato nel corso di meno di due secoli - non è affar suo.
"Fotografo ciò che non posso dipingere": la spinta, come si nota, non è 'positiva', ma prende le mosse da una negazione, da un'insufficienza da colmare. La macchina fotografica diviene protagonista solo quando il pennello si dimostri insufficiente. Perché i sogni, le fantastiche e libere immagini dell'inconscio, non hanno corpo. La pastosità del colore, la levigatezza di un marmo sarebbero risultati inadeguati. Bisognava imbarcarsi in nuove sfide, saggiare nuove strade.
Nel 1915 Man Ray ha già al suo attivo una mostra personale e qualche partecipazione, e amicizie del calibro di Marcel Duchamp e Alfred Stieglitz contribuiscono in modo determinante ad incrementare e consolidare la sua produzione artistica, per il momento circoscritta a collage, assemblage di tono dadaista, ma soprattutto dipinti (spesso creati con l'utilizzo dell'aerografo, con il quale maturerà un'abilità quasi proverbiale). Ed è proprio la necessità di riprodurre queste sue prime opere - ad uso di galleristi e collezionisti - che lo spinge, a partire da questa data, ad impugnare la macchina fotografica, considerate le sue magre finanze e l'insoddisfazione per l'operato degli altri fotografi: meglio provare a far da sé. Matura così, a partire da un'impellenza quasi 'burocratica', la sua ossessione per luci ed ombre: le opere - che col passare degli anni si orientano sempre più verso la tridimensionalità -, investite solitamente da forti luci laterali, si vestono di buio, uscendone solo a tratti, come avvolte in densi panneggi d'ombra che aggiungono mistero a quelle già misteriose composizioni.



Qui avrebbero dovuto esserci due immagini.
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Allevamento di Polvere, 1920 ca.

Rayografia del 1922

Per comprendere meglio l'originalità e la solerzia di tale ricerca, basta guardare una foto come Elevage de poussière ('Allevamento di polvere'): Man Ray si prefisse di far accumulare per alcuni mesi la polvere in un angolo del suo studio solo per poi poterne studiare, fotograficamente, i giochi di luce.
Nel 1917, dopo appena due anni, è già intento nella sperimentazione di tecniche che gli permettano di disegnare con la luce senza che questa debba necessariamente passare attraverso un obiettivo. Espone alla luce una lastra fotografica vergine e vi esegue il disegno 'graffiandolo' direttamente sul negativo ottenuto, stampando poi il tutto a contatto: è la tecnica del cliché-verre (già adoperata, con qualche variazione, da pittori quali Delacroix, Corot, Millet).

Intanto le finanze scarseggiano, ed è la necessità, ancora una volta, a schiudere un destino dei più luminosi: "Contare sulla pittura per guadagnarmi da vivere era fuori discussione (...) Avrei potuto anche diventare uno specialista nel campo del ritratto femminile; c'era maggior richiesta, e la fotografia m'interessava soprattutto per guadagnarmi da vivere". Man Ray fiuta la tendenza più remunerativa, e si lancia nell'impresa. Quando si dice: 'fare di necessità virtù'! Davanti al suo obiettivo sfilarono infatti non solo tutti i maggiori protagonisti dell'avanguardia surrealista (celebre la Scacchiera surrealista, 1934, fotomontaggio che li ritrae assieme), ma nel corso degli anni successivi si avvicendarono le maggiori personalità artistiche dell'epoca, da Joyce a Hemingway, da Picasso a Matisse.
Dei ritratti di Man Ray si parla sempre in termini di esemplare scavo psicologico (e si dice che l'abitudine di usare lunghe focali fosse di grande aiuto per cogliere la maggiore naturalezza del soggetto, meno 'minacciato' da obiettivo e fotografo che restano a rispettosa distanza), e senza dubbio non a torto. Ma bisogna anche dire che le persone ritratte erano provviste di personalità talmente eccezionali e straripanti, che ci sarebbe voluta una gran dose di impegno per tirar fuori delle immagini 'piatte'. La verità è che il ritratto - come ogni altra rappresentazione - era per Man Ray soprattutto un pretesto, un'occasione in più per dar sfogo a quella sua genetica impellenza sperimentatrice, adottando tecniche sempre nuove e costruendo composizioni surreali ed anticonvenzionali, modellando il soggetto a seconda della sua personale interpretazione.



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La preghiera, 1930

Ritratto di Jaques Rigaut

"Detesto coloro che ammirano l'abilità tecnica della mia opera", scrisse. A costo di guadagnarci l'antipatia postuma di un Mostro Sacro, sarà comunque il caso di spendere ora qualche parola riguardo l'espressione artistica (e tecnica) più caratteristica di Man Ray: la rayografia.
A testimonianza di quanto detto sopra, è chiaro come Man Ray si liberasse volentieri dell'ingombrante tramite della macchina fotografica non appena l'intuizione (unita ad una leggendaria quanto poco quantificabile dose di casualità) glielo permettesse.
Correva l'anno 1922, e Man Ray si guadagnava da vivere fotografando modelle nell'atelier parigino del famoso sarto Poiret. La notte si consumava come di consueto tra bacinelle, bicchieri graduati, penombra rossa. Basta una piccola disattenzione, e un nuovo capitolo di storia della fotografia si apre, magicamente, con la stessa naturalezza con cui le forme si disegnano sulla carta: "Un foglio di carta sensibile intatto, finito inavvertitamente tra quelli già esposti, era stato sottoposto al bagno di sviluppo. Mentre aspettavo invano che comparisse un'immagine, con un gesto meccanico poggiai un piccolo imbuto di vetro, il bicchiere graduato e il termometro nella bacinella sopra la carta bagnata. Accesi la luce; sotto i miei occhi cominciò a formarsi un'immagine: non una semplice silhouette degli oggetti, ma un'immagine deformata e rifratta dal vetro, a seconda che gli oggetti fossero più o meno a contatto con la carta, mentre la parte direttamente esposta alla luce spiccava come in rilievo sul fondo nero".










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Rayografia

Ad onore del vero - nonostante ciò assesti un colpo quasi mortale alla poesia dell' Invenzione Geniale -, è bene ricordare che il procedimento che sta alla base delle rayografie fu più volte sperimentato nel corso delle decadi precedenti, a partire addirittura dal 1839, con i Photogenic Drawings di Fox Talbot (intuizione fondamentale, che porterà all'invenzione del calotipo e che è alla base del procedimento fotografico moderno, fondato sulla stampa di molteplici positivi a partire da un unico negativo), per essere poi variamente ripreso, passando da Christian Schad nel 1918 (le 'schadografie'), fino a Moholy-Nagy, che inventò (di nuovo!) quella stessa tecnica contemporaneamente a Man Ray, realizzando i suoi 'fotogrammi'.
Insomma, verrebbe da dire che non può mai esserci niente di davvero nuovo sotto il Sole: procedimenti identici 'riscoperti' ciclicamente, e nominati più o meno egocentricamente.
Ovviamente, quindi, l'unica cosa che può accreditare in parte il termine 'invenzione' è esclusivamente l'approccio intellettuale, l'idea da cui si parta per sfruttare quell'unica, vecchia tecnica. E se con Fox Talbot si trattava di un procedimento ancora meramente meccanico (che si esauriva nel constatare con stupore la dettagliatezza con cui una pianticella si riproduceva sulla carta impregnata di nitrato d'argento), con Man Ray siamo in tutt'altro universo.

L'universo dell'inconscio, del sogno, dell'automatismo psichico, dell'arbitrarietà come unica regola, della casualità come unica certezza, e via di illogicità dicendo: insomma, l'universo delle avanguardie artistiche; dadaismo e surrealismo, nella fattispecie. Terreno quantomai fertile per chi affermi "Non sono un fotografo della natura, ma della mia fantasia". Quale materia più appropriata, dunque, per tentare di dar corpo a ciò che non lo ha, se non la luce? La casualità con cui i piccoli oggetti trovavano posto sulla carta sensibile faceva il resto, appagando gli animi sperimentatori degli anni Venti, in cerca di una Verità celata in un Altrove in aperto contrasto con la (borghesissima) realtà visibile, da ricercarsi perentoriamente con procedimenti anti-accademici (come si sa, ogni rivoluzione finisce per sviluppare una sua retorica).
L'amico Tristan Tzara (capogruppo dei dadaisti zurighesi) fu entusiasta di quelle nuove e misteriose immagini, degne compagne dei vari objéts trouvé e ready made: oggetti di uso comune arbitrariamente assunti ad opera d'arte, che nella casualità degli accostamenti e nella totale decontestualizzazione dall'ambito del quotidiano, riaccendevano la curiosità e catalizzavano l'attenzione letargica e prossima all'atrofia dell'Uomo Moderno. Quei collage di ombre e luci, ai limiti dell'astrazione, erano perfetti.

Inevitabilmente, Man Ray ci prese gusto: "Prendevo tutti gli oggetti che mi capitavano sotto mano: la chiave della camera d'albergo, un fazzoletto, delle matite, un pennello, una candela, un pezzo di spago. Non era necessario immergerli nel liquido, bastava posarli sulla carta e poi esporli per pochi minuti alla luce, come con i negativi". La tecnica venne via via limata e accresciuta, giocando sugli infiniti accostamenti di oggetti opachi, traslucidi o trasparenti, sulla distanza degli oggetti dalla carta e sulla direzione della sorgente di luce, spostata attorno all'oggetto, che gli permise di raggiungere infiniti effetti e gradazioni di toni: tutto questo, più che mai, era dipingere con la luce.


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Nero e Bianco, 1926 - stampa negativa

Supremazia della Materia sul Pensiero - solarizzazione

La Fotografia, liberata dal vincolo castrante della riproduzione esatta della realtà, si avviava a diventare - checché ne pensasse il diretto interessato - un procedimento artistico sempre più 'puro' (nel senso di 'fine a sé stesso' ed eminentemente estetico). Non più copiare la realtà, ma superarla, interrogando l'ignoto attraverso forme e procedimenti, intellettuali prima che tecnici. Il fotografo diviene così "un meraviglioso esploratore di aspetti che la nostra rètina non registrò mai". Non a caso Man Ray fu arruolato nelle schiere del Surrealismo, divenendone honoris causa il fotografo ufficiale.
Ma sarebbe un errore ingabbiare la sua opera nell'ambito di un unico movimento artistico: la sua unica fede era la sperimentazione, libera da ogni vincolo teorico predefinito. L'imperativo, infrangere le regole.
Il negativo divenne la base per incessanti 'maltrattamenti' creativi: deformazioni, inversioni, reticolazioni, sovrimpressioni... insomma, tutti quei procedimenti che - giusto per dar ascolto a tutte le campane - Susan Sontag ebbe a definire come "prodezze marginali", accomunandole al resto delle "amabili trouvailles degli anni Venti". E, ultima ma non ultima, la solarizzazione. Quest'ultima tecnica - la cui nascita è anch'essa avvolta da un alone di leggendaria casualità - si fonda su un procedimento di base che consiste nell'esposizione alla luce di un negativo per metà sviluppato: l'immagine finale apparirà così parzialmente invertita nei toni, avvolta da un bagliore che evoca suggestivamente l'idea metafisica di 'aura', e circoscritta da un nitido contorno, nero o argentato a seconda dei casi. Rieccolo dunque, il contorno. Rieccola, la linea. Riecco il disegno. Tutta l'opera fotografica di Man Ray può, in sostanza, essere vista come un tentativo continuo di piegare il mezzo fotografico al disegno, contro ogni aspettativa: addomesticare la luce perché si faccia linea. E la solarizzazione è forse il risultato più alto in questo senso. Usata spesso nei ritratti, dette senza dubbio il suo meglio quando le fu chiesto di avvolgere con un sottile contorno nero le curve sinuose di un corpo nudo, illuminandolo d'argento.

Uno dei suoi scatti più conosciuti ritrae una donna (l'amata Kiki, una delle sue modelle storiche) dalla schiena nuda, ad evocare il dipinto di Ingres Nudo di spalle, ritoccata con le due "effe" del violino. L'espressione usata come titolo, Le violon d'Ingres, rappresentava a quel tempo anche un modo di dire con cui ci si riferiva comunemente ad un hobby (dire per esempio che il giardinaggio era il mio "violon d'Ingres" significava che mi ci dilettavo nel tempo libero; ciò derivava dal fatto che suonare il violino, appunto, era il passatempo preferito dal pittore Ingres): quasi che Man Ray, attraverso questo sottile e ardito gioco di rimandi, volesse ribadire come la fotografia fosse per lui - lasciatosi alle spalle i periodi di ristrettezze economiche - un piacevole hobby e niente altro.
Certo, relegare la fotografia a ruolo di semplice passatempo nell'ambito della biografia manrayana sarebbe un'inesattezza indifendibile, un avallare questa sua costruita posa da artista che non si prende troppo sul serio. Ma a ben vedere, non è poi così errato perorare quest'ardita causa, nella misura in cui la carriera di Man Ray si consumò nel tentativo incessante di superare la fotografia. Non tanto la fotografia era importante, quindi, quanto ciò che vi si celava oltre. Scoprire questo qualcosa, e rappresentarlo, è stata la sua vera ed unica missione artistica.


Serena Effe © 12/2006










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Sovrimpressione su negativo

PER SAPERNE DI PIU'...


Tutte le citazioni di Man Ray provengono dal testo autobiografico - piacevole e coinvolgente quanto un romanzo - Autoritratto, edito da SE nella collana Saggi e documenti del Novecento: 319 pagine, 22 euro (ordinabile online qui)

Imprescindibile fonte di informazioni è stata la monografia dedicata a Man Ray di Arturo Schwarz, di cui è disponibile una rielaborazione a cura dell'autore stesso nell'agile ed economicissima - 3,90 euro - collana Art Dossier, Giunti editore (ordinabile qui)


Un'economica e compatta raccolta di immagini della collana FotoNote della casa editrice Contrasto: 133 pagine, 12,50 euro (ordinabile qui)

Segnalo anche un libro pubblicato nel settembre scorso, che non ho però ancora avuto modo di leggere né sfogliare. Si tratta di una raccolta di testi scritti dallo stesso Man Ray sul tema della fotografia, intitolato appunto Scritti sulla fotografia, pubblicato da Abscondita nella collana Scritti d'artista, al prezzo di 20 euro (ordinabile qui)
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