Torno da due giorni nella “città dalle cento chiese”. Due giorni colmi, belli.
A chiamarmi è stato un festival che da anni mi allettava: il Lucca Photo Fest, che intrufola immagini in ogni chiesa e palazzo e che in quest’edizione ha per tema l’Oriente. Per due giorni mi son riempita di incanto, sdegno, curiosità, e miriadi dei miei soliti astratti furori. Ho distolto lo sguardo, sibilato pensieri feroci, ho sorriso e riso, anche, talvolta, e ad alta voce; mi sono emozionata a dismisura, in mille direzioni diverse, di foto in foto: dal reportage più brusco ed eclatante alla provocazione più strampalata, passando per immagini semplicemente belle da starci davanti a immaginare, con la faccia da tonta, in mezzo a piccole e decorative nostalgie che quasi quasi non sanguino più, o non ancora.
Come bicchiere scosso, traboccavo.
E mi è mancato il tempo per avere paura.
Spargo qui sotto qualche minuzzolo del mio zonzeggiare, tra quelli che più mi son rimasti appiccicati.
Nella sacrestia del Duomo di San Martino, se ci andate, ci trovate l’Ilaria Del Carretto addormentata. Non morta, eh, come tutti credono: perché respira, nonostante sia di marmo. C’ho le prove! (Eh.)
Spiego: guardandola fissamente in volto, dal lato opposto rispetto a dove guarda il canino che le sta ai piedi, con la coda dell’occhio la si vede chiaramente sospirare: quel va e vieni del petto proprio del respiro calmo e lungo, regolare, nel sonno profondo. Sonno di sogni buoni, per giunta, a giudicar dall’espressione. Son stata lì tipo un quarto d’ora a fissarla, e giuro, non ha smesso un attimo: son bellissime, le statue, da vive. Ci si emoziona fortissimissimo.
Nel Duomo c’è anche un’Ultima Cena del Tintoretto, pittore che ho ignorato serenamente per circa trent’anni, fino a che, due anni esatti fa, dentro la Scuola Grande di San Rocco di Venezia, bam!: colpo di fulmine – anzi: di pennello. In quest’Ultima Cena, dicevo, tutta sbilenca in diagonale come al suo solito (accortezza gentile per tirar dentro chi guarda: basta un passo e fai parte della scena) ci son calici e brocche di cristallo, posate sulla tavola, che ne senti con gli occhi la finezza, la fragilità, il peso da niente, il tintinnìo traslucido; mi è rimasta la voglia di avvicinarmi da prenderle in mano, per sbirciarci attraverso le facce distorte e circonfuse degli apostoli, per vedere di nascosto l’effetto che fa. La prossima volta, magari.
Kenro Izu, Cambodia 26, 1993
Kenro Izu fotografa soprattutto vestigia di civiltà estinte, rovine di templi, persistenze di spiritualità antica in ogni angolo di mondo. Tra le sue meravigliose stampe al platino brillava ai miei occhi una serie che ritraeva il tempio di Angkor, in Cambogia, sgretolato e ghermito da immense radici come dita adunche, rapaci. Lui scrive «ho voluto denunciare la precarietà delle rovine che lentamente stanno per essere inghiottite dalla terra», come fosse cosa brutta; io invece son convinta sia la fine più dignitosa e giusta, per quei luoghi mistici, finire nell’abbraccio impenetrabile della giungla, a morire di mistero e fruscii anziché di transenne e squallidissimi tour organizzati.
Come quella testa di Buddha lambita, stritolata con lentissima, premurosa dolcezza: la guardo e provo sollievo, semplicemente, come quando le cose vanno dove devono, fosse anche verso la fine: ma quiete, sorridendo.
A sinistra: Kenro Izu, Thailand 36, 1998
La potenza di quelle immagini, mi spiace, ma più di così io non riesco a dirla. Per vostra fortuna, però, questa e tutte le altre mostre del festival resteranno visitabili fino al 29 gennaio. Approfittatene, se potete: serve anche a dimostrare quanto c’importa, a noi cittadini, che certe manifestazioni continuino ad esistere; che ci serve anche sognare, non solo sopravvivere.
Dentro quel nido che è Piazza dell’Anfiteatro, con una pace sospesa di sole titubante, scoprirsi dentro, per più di un attimo, qualcosa di molto simile alla felicità: di tanto bene e tanto male insieme, da non capire se festeggiare o mettersi mani nei capelli.
Pian piano imparo a sedermi all’aperto e mangiare da sola, senza quella buffa vergogna, quell’impaccio che prende spesso chi per natura si divincola e fugge (suo malgrado?) il compromesso dell’essere due: non so quanto sia buono, e quanto invece no. Ma sto imparando, piano. E se a scriverlo mi commuovo, qualcosa forse vorrà dire (ma che non mi si dica cosa, per carità).
… e per finire, fettona di “torta co’ becchi” alla lucchese (ché ce n’è anche una alla pisana): pasta frolla ripiena di un impasto a base di pane raffermo ammollato nel latte, zucchero, uova, uvetta, pinoli, cannella, noce moscata e… bietole! (talvolta anche riso cotto in acqua salata e parmigiano grattato) Una delizia che viene servita rigorosamente come dolce, accompagnata da un bicchierino di Vin Santo, buono per scaldare gambe pancia e cuore, prima di rimettersi in cerca.
Alla Fondazione Ragghianti era in corso – e lo è ancora, fino all’8 gennaio – una mostra dedicata a Luigi Veronesi, eclettico astrattista che fu impegnato in un po’ tutto, dalla pittura (astratta) ai film (astratti) alla fotografia (astratta pure lei). Tra le altre cose, a Veronesi un giorno ci venne l’idea di convertire scientificamente la musica in colore, essendo ambedue “fenomeni fisici ondulatori”; ne sono nate le “variazioni cromatiche musicali”, partiture in cui ogni nota è tradotta in colore in base alla sua altezza, durata e intensità. Son ben matti, questi esseri umani!
Bene: ambedue i giorni di trasferta sarebbero valsi la pena anche solo per il mio stare lì, tutta insensata e intenta, nella penombra di una sala, ad ascoltare una Fuga di Bach vedendomela scorrere colorata sotto gli occhi.
L’Astrattismo mi lascia spesso indifferente, quando non direttamente seccata, ché il più delle volte io proprio non c’arrivo; stavolta invece l’effetto è stato straniante: dopo un po’ avevo pensieri a forma di punto, linea, quadratino; e ci ho messo minuti, una volta fuori, a persuadermi nuovamente delle forme conosciute: per qualche attimo ho visto scalini, porte, alberi… come fosse la prima volta, da non saper che farci («uh, guarda: uno scalino!, e una mano, un piede, una maniglia; sassolini per terra, un cappotto, e persone a forma di persone: il mondo è complicatissimo.»)
Di quei momenti che so mi resteranno in mente, a tentar di convincermi che allora forse in fondo in fondo è valsa la gran pena – la vita in generale, dico – per questi attimi da niente, per tutto questo stupefarsi inutile.
L'incisione fa parte della “Suite Vollard”. Collezione privata © Succession Picasso
Di ritorno verso casa, infine, ho deviato verso Pisa per una visita alla mostra picassiana in corso a Palazzo Blu: il Pablo, a dirla tutta e sincera, a me m’ispira un’antipatia che ve la raccomando, e in generale lo sopporto poco come uomo e come artista. Ma stavolta proprio non riuscivo a staccarmi da alcune serie di incisioni esposte, che mostravano passo passo il percorso di “picassizzazione”, rispettivamente, di due donne nude e di un toro: quel distillare volumi, quel togliere, riassumere, semplificare, fino a lasciar lì solo l’essenza, l’idea nuda di donna e di toro, in poche linee; e dalla Suite Vollard, anche, non mi sarei staccata: con tutti i suoi Satiri e Minotauri e quell’andirivieni frastornante tra fuga onirica e spinte erotiche potentissime… E insomma, niente, sono uscita che eravamo quasi amici.
Serena Effe © 12/2011
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