BARRY LYNDON: E LUCE (NATURALE) FU
L'obiettivo speciale della Zeiss utilizzato da Kubrick per il film
Agostino Maiello, dicembre 2006

C'era una volta un signore che si chiamava Stanley Kubrick che soleva fare non più di un film a lustro (ma valeva la pena aspettare, altroché). Tra le varie leggende che si raccontano c'è quella secondo cui il film Barry Lyndon, del 1975, sarebbe stato interamente girato in luce naturale. Non è del tutto vero, ma non per questo la storia è meno interessante.

La locandina del film.

"Perché ha preferito l'illuminazione naturale?", chiede un giornalista a Kubrick in un'intervista di molti anni fa. Il regista risponde: "Perché è così che vediamo le cose. Ho sempre cercato d'illuminare i miei film in modo da simulare la luce naturale, usando di giorno le finestre per illuminare realmente il set, e nelle scene notturne usando quelle fonti luminose che si vedono nella scena stessa. Questo approccio comporta problemi già quando si possono usare luci elettriche brillanti, però quando le luci più brillanti in una scena sono i candelabri e le lampade ad olio le difficoltà sono di gran lunga maggiori". Ma non si è Stanley Kubrick per niente, ed ecco che, nel voler girare un film ambientato nel Settecento, a Kubrick viene in mente una soluzione per usare quanta più luce naturale possibile.

Non molti anni prima, a Photokina 1966, la Carl Zeiss aveva mostrato al pubblico un obiettivo Planar 50mm F/0,7, prodotto in dieci esemplari su richiesta della NASA, che voleva utilizzarlo per le missioni Apollo destinate all'esplorazione della Luna. Dotato di un vistoso otturatore centrale, questo mostro da quasi due chilogrammi ha una diagonale di 27mm e copre il formato 18x24mm.

Con otto lenti disposte in sei gruppi, alcune delle quali al Lantanio, ha l'ultima lente a soli 4 mm dalla pellicola, il che lo rende inadatto all'uso su apparecchi reflex (così come non c'è neanche lo spazio per un classico otturatore sul piano focale).

Quanto e come sia poi stato realmente utilizzato dalla NASA non è dato saperlo; la tesi più accreditata è che sia stato impiegato sull'Apollo 8 alla fine del 1968.

Durante i lavori preparatori di Barry Lyndon, Kubrick scoprì che la NASA non aveva mai ritirato tre dei dieci obiettivi prodotti; li acquistò e si rivolse a Ed Di Giulio, un maestro delle tecniche cinematografiche (che insieme all'operatore Garrett Brown aveva inventato la SteadyCam, che poi proprio Kubrick aveva sfruttato al massimo con le mitiche riprese in Shining - effettuate proprio da Brown), chiedendogli di adattarlo per uso cinematografico.

E Kubrick non era uno di quelli che chiedeva e basta: nel farlo ti metteva in mano anche una decina di fogli di calcoli da lui fatti la sera prima in cui ti dimostrava che quello che voleva era realizzabile. Di Giulio si dovette inventare qualcosa, e pensò di adattare lo Zeiss ad una cinepresa Mitchell BNC, non reflex, che Kubrick aveva comprato pochi anni prima per usarla in Arancia Meccanica visto che la Mitchell consentiva di utilizzare magazzini per oltre 300 metri di pellicola, contro i 100 delle più diffuse Arriflex. Dopo tre mesi di lavoro (e dopo aver rimosso l'otturatore), lo Zeiss era montato sulla Mitchell, alla quale era stato aggiunto un meccanismo per la messa a fuoco.

Tre scene tratte dal film.

Tutto risolto quindi? No, perchè lo Zeiss, che in realtà aveva una profondità di campo ridottissima, attraverso il mirino (peraltro non reflex, come detto) ingannava l'operatore dando una straordinaria impressione di "tutto a fuoco". Per venirne a capo furono realizzati dei test riprendendo degli oggetti ad una distanza nota e poi, sviluppando di volta in volta lo spezzone di pellicola impressionato, si analizzava l'effettiva messa a fuoco riscontrata, riportandola poi sull'apposita ghiera innestata sulla Mitchell. Alla fine si riuscì a definire un intervallo di messa a fuoco controllabile, tra i 60 ed i 150cm, e le prime prove pratiche diedero risultati entusiasmanti. La luce naturale era resa in maniera formidabile, e nonostante le difficoltà (non ultima quella degli attori, che dovevano recitare quasi immobili per non andare fuori fuoco), le premesse erano ottime.

Però, come detto, l'obiettivo copriva il formato 18x24mm, che è sì quello cinematografico, ma 50mm su tale formato sono un mediotele (l'angolo di campo è più o meno quello di un 80mm sul formato 24x36), troppo stretto per le riprese che Kubrick aveva in mente. Il regista chiese dunque a Di Giulio di realizzare un aggiuntivo ottico che rendesse lo Zeiss più grandangolare. E, naturalmente, mantenendo inalterata la luminosità... Di Giulio, facendosi aiutare da Richard Vetter, un esperto di ottica, si procurò due aggiuntivi ottici con i quali modificò gli altri due Planar di Kubrick. Il secondo divenne un 36,5mm, ed il terzo un 24mm. Quest'ultimo però alla prova pratica mostrò una evidente distorsione a barilotto, per cui si decise di non utilizzarlo. Alla fine Kubrick utilizzò le cineprese Arriflex per le riprese in esterni, e la Mitchell con i due Zeiss per le scene in interni.

Non è vero che il film fu girato interamente in luce naturale, ma non è neanche del tutto falso: il direttore della fotografia John Alcott dichiarò in un'intervista che "...abbiamo girato essenzialmente d'inverno e potevamo girare solo tra le nove del mattino e le tre del pomeriggio. Quando avevamo il sole, lo utilizzavo come luce naturale. Ho messo della carta nera sulle finestre ed ho installato delle lampade affinché al calar del sole si potesse passare alla luce artificiale e continuare a girare. Ma questa illuminazione (sei lampade flood o mini-brut) era basata sulla luce naturale". E Kubrick, sempre in un'intervista, disse: "Per le scene in interni di giorno usammo la luce reale che proveniva dalle finestre, oppure una luce simulata disponendo delle luci fuori dalle finestre e schermandole con della carta apposita disposta sul vetro".

Stanley Kubrick sul set.

Resta il fatto che molte delle riprese furono effettuate a luce ambiente e, soprattutto, le famose sequenze a lume di candela sono un'esperienza visiva difficile da raccontare a parole: meritano una visione attenta su uno schermo all'altezza ed in un contesto adeguato, fatto di silenzio e di rispetto per una delle più raffinate creazioni cinematografiche di tutti i tempi.

Ma non vorremmo che, alla fine della lettura di questa pagina, venisse la curiosità di guardare Barry Lyndon solo per l'obiettivo Zeiss e le riprese a lume di candela: al di là della tecnica, è un sublime film che può ingannare proprio per questa sua debordante bellezza figurativa, rischiando di farsi catalogare come un semplice capolavoro formale.

Ci permettiamo dunque, in chiusura, di citare un classico dizionario del cinema, il Morandini, che così si esprime sull'opera: "Il fascino freddo del film nasce dalla distanza e dalla sordina con cui Kubrick espone le vicissitudini del suo antieroico personaggio, smentite soltanto nei suoi rapporti col figlioletto. Elogiato per il suo versante plastico-figurativo come uno splendido album di immagini, non è un'opera formalista, un esercizio di stile, ma un discorso complesso sulla fine della Storia: la sua fissità, la ripetitività dei comportamenti dell'uomo nel suo agire privato, sociale e politico. Un affresco con figure di un paesaggio remoto come un altro pianeta del sistema solare."

Agostino Maiello © 12/2006
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