C'era una volta un signore che si chiamava Stanley Kubrick che soleva fare non più di un film a lustro (ma valeva la pena aspettare, altroché). Tra le varie leggende che si raccontano c'è quella secondo cui il film Barry Lyndon, del 1975, sarebbe stato interamente girato in luce naturale. Non è del tutto vero, ma non per questo la storia è meno interessante.
La locandina del film.
Con otto lenti
disposte in sei gruppi, alcune delle quali al Lantanio, ha
l'ultima lente a soli 4 mm dalla pellicola, il che lo rende
inadatto all'uso su apparecchi reflex (così come non c'è
neanche lo spazio per un classico otturatore sul piano
focale).
Quanto e come sia poi stato realmente
utilizzato dalla NASA non è dato saperlo; la tesi più
accreditata è che sia stato impiegato sull'Apollo 8 alla
fine del 1968.
Durante i lavori preparatori di Barry
Lyndon, Kubrick scoprì che la NASA non aveva mai
ritirato tre dei dieci obiettivi prodotti; li acquistò e
si rivolse a Ed Di Giulio, un maestro delle tecniche
cinematografiche (che insieme all'operatore Garrett
Brown aveva inventato la SteadyCam, che poi proprio
Kubrick aveva sfruttato al massimo con le mitiche
riprese in Shining - effettuate proprio da
Brown), chiedendogli di adattarlo per uso
cinematografico.
E Kubrick non era uno di quelli che chiedeva e basta:
nel farlo ti metteva in mano anche una decina di fogli
di calcoli da lui fatti la sera prima in cui ti
dimostrava che quello che voleva era realizzabile. Di
Giulio si dovette inventare qualcosa, e pensò di
adattare lo Zeiss ad una cinepresa Mitchell BNC, non
reflex, che Kubrick aveva comprato pochi anni prima per
usarla in Arancia Meccanica visto che la Mitchell consentiva di utilizzare magazzini per oltre 300 metri di pellicola, contro i 100 delle più diffuse Arriflex. Dopo tre mesi di lavoro (e dopo aver rimosso l'otturatore), lo Zeiss era montato sulla Mitchell, alla quale era stato aggiunto un meccanismo per la messa a fuoco.
Tre scene tratte dal film.
Tutto risolto quindi? No, perchè lo Zeiss, che in realtà
aveva una profondità di campo ridottissima, attraverso
il mirino (peraltro non reflex, come detto) ingannava
l'operatore dando una straordinaria impressione di
"tutto a fuoco". Per venirne a capo furono realizzati
dei test riprendendo degli oggetti ad una distanza nota
e poi, sviluppando di volta in volta lo spezzone di
pellicola impressionato, si analizzava l'effettiva messa
a fuoco riscontrata, riportandola poi sull'apposita
ghiera innestata sulla Mitchell.
Alla fine si riuscì a
definire un intervallo di messa a fuoco controllabile,
tra i 60 ed i 150cm, e le prime prove pratiche diedero
risultati entusiasmanti. La luce naturale era resa in
maniera formidabile, e nonostante le difficoltà (non
ultima quella degli attori, che dovevano recitare quasi
immobili per non andare fuori fuoco), le premesse erano
ottime.
Però, come detto, l'obiettivo copriva il formato
18x24mm, che è sì quello cinematografico, ma 50mm su
tale formato sono un mediotele (l'angolo di campo è più
o meno quello di un 80mm sul formato 24x36), troppo
stretto per le riprese che Kubrick aveva in mente. Il
regista chiese dunque a Di Giulio di realizzare un
aggiuntivo ottico che rendesse lo Zeiss più
grandangolare. E, naturalmente, mantenendo inalterata la
luminosità... Di Giulio, facendosi aiutare da Richard
Vetter, un esperto di ottica, si procurò due aggiuntivi
ottici con i quali modificò gli altri due Planar di
Kubrick. Il secondo divenne un 36,5mm, ed il terzo un
24mm. Quest'ultimo però alla prova pratica mostrò una
evidente distorsione a barilotto, per cui si decise di
non utilizzarlo. Alla fine Kubrick utilizzò le cineprese
Arriflex per le riprese in esterni, e la Mitchell con i
due Zeiss per le scene in interni.
Non è vero che il
film fu girato interamente in luce naturale, ma non è
neanche del tutto falso: il direttore della fotografia
John Alcott dichiarò in un'intervista che "...abbiamo
girato essenzialmente d'inverno e potevamo girare solo
tra le nove del mattino e le tre del pomeriggio. Quando
avevamo il sole, lo utilizzavo come luce naturale. Ho
messo della carta nera sulle finestre ed ho installato
delle lampade affinché al calar del sole si potesse
passare alla luce artificiale e continuare a girare. Ma
questa illuminazione (sei lampade flood o mini-brut) era
basata sulla luce naturale". E Kubrick, sempre in
un'intervista, disse: "Per le scene in interni di
giorno usammo la luce reale che proveniva dalle
finestre, oppure una luce simulata disponendo delle luci
fuori dalle finestre e schermandole con della carta
apposita disposta sul vetro".
Stanley Kubrick sul set.