CON IL KAYAK IN GROENLANDIA
La seconda parte dell'entusiasmante racconto di Romano Sansone.

Qui la prima parte

Rivolgendomi ad un pubblico transalpino potrei saltare a piè pari l'argomento alimentazione, o al più discuterlo dal punto di vista della razionalità delle scelte in funzione del peso e dell'ingombro, dell'apporto calorico, della facilità e rapidità di preparazione, e dell'opportunità di fornire menu più o meno variati.
La maggioranza degli italiani, una volta all'estero, paga invece con acute crisi da astinenza il privilegio di vivere in un paese caratterizzato da prodotti alimentari e da una cucina invidiabili. Io sono a cavallo tra le due categorie: adoro i sapori del mio paese, ma so adattarmi a quello che passa il convento. Di qui il bisogno di chiarire che, nel descrivere i pasti consumati durante 16 giorni, non cerco di sottintendere alcun eroismo da parte mia: così erano, punto e basta, poi ognuno si metterà nei miei panni secondo quello che le sue esigenze gli dettano. La mattina era invariabilmente porridge, condito con una specie di brodaglia dal colore e sapore sintetici di frutta, con qualche fettina di frutta secca aggiunta per dare una parvenza di genuinità.

PAUSA POMERIDIANA

Il contenuto in carboidrati superava già quello che le mie pillole antidiabete mi consentirebbero di ingerire, costringendomi a rinunciare allo zucchero, con il risultato che si può immaginare sul sapore dell'insieme. Comunque, come tutti i cereali integrali, l'avena è un carburante ideale per gli sforzi prolungati ed un perfetto regolatore delle funzioni digestive, elemento di confort non indifferente quando ci si appresta a stare incastrati per 4-6 ore in un kayak senza un'ombra di possibilità di scendere a terra. Per me il pasto migliore era quello di mezzogiorno, a base di pane integrale biscottato sul quale spremere da tubetti tipo dentifricio diversi tipi di formaggio cremoso, insaporito con aggiunte di bacon, salame, o spezie piccanti, il complesso con un sapore non molto diverso dai toast nostrani al formaggio e prosciutto. Quello che non andava proprio giù era il formaggio al cosiddetto caviale, che di caviale aveva soltanto il nome, poiché si trattava di uova di chissà quale abominevole creatura degli oceani: ed infatti, grazie all'abbondanza delle provviste, il buon Peter si è riportato a casa tutti i tubetti meno il primo servito da assaggio. A detta sua ai partecipanti a precedenti spedizioni era piaciuto, e potrà provare a disfarsene l'anno prossimo, se non saranno scaduti di data. Delle grosse fette di formaggio, frutta secca e cioccolato completavano questo pasto, innaffiato da tè o caffè preparati con l'acqua dei thermos riempiti la mattina. La sera tutto dipendeva da come Peter giudicava lo sforzo compiuto durante la giornata, perché poteva offrirci a sua discrezione un piatto unico, preceduto o no da quella che lui chiamava una zuppa. Essendo l'uno e l'altra basati su prodotti disidratati, la loro consistenza dipendeva esclusivamente da come il cuoco si regolava con l'acqua, ed è successo che la zuppa avesse la consistenza di un risotto mentre la pasta con il pollo alla maniera cinese era a tutti gli effetti pasta in brodo. In ogni caso il granturco ed i piselli la facevano da padroni. Bevande alcoliche niente. Solo una sera, mentre bivaccavamo in un posto con una veduta da sogno, il mago Peter ha tirato fuori dal cappello a cilindro una fiaschetta di Glennfiddich: on the rocks con ghiaccio millenario mai bevanda fu più deliziosa.

DIRETTAMENTE DAL FREEZER

FORME

DALL'IMBOCCATURA DEL FIORDO

Ma se tutto questo descrive gli aspetti geografici e logistici del viaggio, che dire di quello che esso offre al visitatore? Dal punto di vista del paesaggio questo dovrebbe essere tra i più spettacolari dell'Artico. I paragoni sono sempre relativi e soggettivi, ma non c'è dubbio che lo scenario è semplicemente grandioso.

Il fiordo, che percorriamo lungo la costa opposta all'isola di Milne Land, è largo circa 8Km. Nell'aria limpida la veduta lungo il fiordo si estende per decine di chilometri, mentre alla nostra destra ed alla nostra sinistra si ergono come cattedrali gotiche montagne scoscese alte in media 1500m, separate da profonde vallate nelle quali i ghiacciai scendono spesso fino al mare.

Sull'altopiano si vede chiaramente la cappa di ghiaccio che ricopre l'80-90% della Groenlandia.

LA CAPPA DI GHIACCIO

Dall'imboccatura del fiordo arrivano, trasportati dall'alternarsi dei venti e delle correnti di marea, gli iceberg giganteschi nati dal ghiacciaio del fiordo detto di nord-est, così prolifico che neanche i locali vi si avventurano per il pericolo di rimanervi bloccati.

ED ECCONE UNO..........................ED UN ALTRO!

Il silenzio è rotto dagli scoppi che provengono dal fronte dei ghiacciai e dagli iceberg che si spaccano, e che la distanza muta in un brontolio cupo del tutto simile a quello del tuono, giorno e notte.
Gli iceberg, aggirati con prudenza a rispettosa distanza per non incappare nell'onda quando si frantumano e si capovolgono, seminano la superficie del mare con un tappeto di frammenti di ghiaccio che attraversiamo lentamente in uno scintillio di riflessi. Nei giorni di calma, e sono stati tanti, l'acqua è uno specchio sul quale i kayak scivolano silenziosamente. Di tanto in tanto Peter, sul kayak di testa, depone la pagaia e ci fermiamo tutti, imbevendoci senza parlare della bellezza che ci circonda. Rainer fotografa tutto, io invece il più delle volte mi limito a guardare: un diverso concetto della fotografia, ma anche la riluttanza a turbare un momento che preferisco portare intatto nel ricordo.
A terra la tundra, scarno, essenziale ambiente di vita, scialba con il sole alle spalle, splendente di rossi e di verdi in controluce. Anch'io, che di solito non fotografo fiori, non ho saputo resistere.

LO SPETTACOLO QUOTIDIANO

IN PERFETTO ORARIO

PRONTI A CARICARE

ULTIMO RICORDO

Se non avessi già fatto conoscenza con la fauna delle regioni artiche e subartiche questo viaggio mi avrebbe deluso: i caribu sono spariti 100 anni fa, nessuno sa perché, lasciando sul terreno corna ormai divenute fragili sotto l'azione degli elementi, poche foche curiose come sempre, narvali neanche a pagarli, qualche rondine di mare e l'immancabile gabbiano, una pernice delle nevi stranamente poco intimidita dalla nostra vicinanza, le impronte di una volpe polare. Più emozionante un incontro a distanza con i buoi muschiati, che buoi non sono perché per castrarli bisogna prima prenderli, e l'unico modo per prenderli è sparargli; poi mi dicono che in realtà, nonostante l'aspetto, non sono neanche bovini ma una specie di capra, comunque capre di ripettabili dimensioni e di carattere ombroso, che se ti caricano ti fanno secco. Li avevamo individuati già dal mattino, osservandoli con il binocolo ed avvicinandoci strisciando di sasso in sasso per non farci vedere, ma evidentemente le nostre capacità di cacciatori improvvisati non erano all'altezza della situazione, perché le brave bestie mantenevano sempre una buona distanza di sicurezza. La sera abbiamo ripetuto l'esperimento, avanzando con circospezione ancora prima di averli avvistati, quando Peter, che ci precedeva con il 200mm montato, girando intorno ad un roccione se ne è trovato uno faccia a faccia, ad una distanza più adatta per un 28mm. Prima di ritirarsi prudentemente ha avuto il coraggio di scattare quello che dovrebbe essere il più ravvicinato dei close up di buoi muschiati nella storia della fotografia naturalistica. Per sua fortuna l'animale ha avuto più paura di lui, e si è allontanato in direzione opposta trascinandosi dietro i compagni che pascolavano nelle vicinanze. Rainer, al quale era sfuggita l'occasione per fotografarli da vicino, ha tentato di ripetere l'esperimento del mattino. Peter ne aveva avuto abbastanza, io con il mio 85mm non ci pensavo neanche a fotografarli, e cosi' lo abbiamo seguito col binocolo. Quando si è reso conto che gli stavano facendo fare gratis il giro dell'isola a piedi ha fatto dietro front, ma era già a buoni 2km di distanza da noi. Un leggero brivido nella schiena ci è passato quando, per il nostro ultimo bivacco, ci siamo accampati sulle rive di un fiume, scoprendo poi nella sabbia le impronte di un grosso orso bianco che Aage ha stimato essere passato di lì il giorno prima.
Anche se il fucile era sempre a portata di mano, se avevamo a disposizione dei petardi per spaventare eventuali visitatori mentre erano ancora a rispettosa distanza, ed ognuno di noi si era stampata in testa la regola che un orso bianco a 30m è abbastanza pericoloso da giustificare di sparargli, nessuno salvo Aage, che di caccia vive, aveva alcuna voglia di farne la conoscenza. Per fortuna l'orso doveva essere già lontano e non abbiamo avuto problemi. Su un piano molto più innocuo, almeno per noi, più a monte il fiume formava un laghetto nel quale dei pesci, molto simili alle nostre trote salmonate, abboccavano senza pensarci sopra all'amo di Len, che ci ha allietato l'ultima cena con una piacevole variante al menu quotidiano.

Il ritorno ha ricalcato le tracce dell'andata, con in più la nostalgia di quanto stavamo lasciando dietro di noi. Il Twin Otter è venuto a prenderci, regalandoci ancora una vista fantastica da portare con noi a conclusione della nostra avventura.

Qualche appunto di fotografia:
Comincio con qualche considerazione di ordine personale. La rinuncia alla flessibilità degli zoom in favore della qualità delle ottiche fisse comporta una scelta: una grande varietà di focali per poter riprendere tutto, dal dettaglio di un fiore ad un animale in lontananza, o poche ottiche per coprire la maggior parte delle situazioni. Per una varietà di ragioni, tra cui non ultime il costo e l'ingombro, ho optato per la seconda soluzione, e non mi pongo neanche il dubbio che così potrei perdere l'occasione di una vita. Il mio rapporto emotivo con il soggetto e l'immagine passa attraverso il mezzo che ho scelto, non attraverso quello che avrei potuto scegliere se...
In questo caso avevo con me un Distagon 28/2.8 ed un Planar 85/1.4 e, contrariamente a quanto prescrive la saggezza popolare, avevo con me solo quattro pellicole. Non è un numero scelto a caso, sapevo che avremmo visitato un'area disabitata dove la sola varietà è quella del paesaggio e della luce, e che con un 85mm non c'era neanche da pensare alla foto di animali, posto che ne avessimo trovati; in un'area ricca di popolazione e di architettura avrei fatto dei calcoli diversi, ma il principio è lo stesso: pensa prima di scattare. Non è solo una questione di risparmiare pellicola, quanto di esercitarsi a selezionare le immagini sul posto, e non stando seduti dietro un proiettore. Dal punto di vista della tecnica la mia scarsa familiarità con l'85/1.4 di recente acquisto ed il desiderio di metterne alla prova le qualità antiriflessi in condizioni estreme, combinati con il sole basso sull'orizzonte e l'aria trasparente come il cristallo, mi hanno finalmente insegnato quello che avrei dovuto sapere da sempre, e cioè che senza paraluce non si esce. Le foto incriminate brillano per una totale assenza di flare e di coma, ma direttamente sotto il sole appare una pennellata verticale luminosa. Ci starò più attento la prossima volta. La Kodachrome 64 si è mostrata come sempre all'altezza della situazione.

Romano Sansone © 9/2001

Fine

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