Un mondo immaginario, un personaggio privato della sua identità, reminiscenze esistenzialiste e una buona dose di ironica inventiva: è la ricetta della tragicomica "comédie humaine" di Gilbert Garcin. Una selezione delle sue immagini, dal titolo "Allegorie", è accolta presso la Galleria Carla Sozzani di Milano fino al 28 ottobre 2007.
La prima domanda che mi si è presentata alla mente una volta iniziato ad immaginare quest'articolo, è stata: sarà il caso di chiamare Gilbert Garcin "fotografo"? E' lecito presentare in questi termini un uomo che nella vita ha fatto tutt'altro, e che solo dopo il pensionamento ha iniziato a fotografare, raggiungendo contro ogni plausibile aspettativa la notorietà internazionale? Perché così è stato per Garcin, marsigliese classe 1929: una laurea in Economia, la direzione di una società di importazione di lampadari, moglie e figli come da copione; una vita riservata e tranquilla, quindi, illuminata d'un tratto dall'impellente bisogno di materializzare la propria visione ed esperienza di vita attraverso la creazione di "opere" condivisibili dal resto del consorzio umano, scegliendo, tra i tanti a disposizione, il mezzo fotografico.
Mediante l'allestimento di mini-scenografie, l'immagine
fotografica - debitamente ritagliata - del nostro Uomo
Qualunque viene di volta in volta ambientata contro sfondi
realizzati con l'ausilio di materiali "di fortuna" quali
sabbia, fili, sassi, banali oggetti quotidiani: modelli in
scala ridotta di un mondo senza tempo né spazio
riconoscibili, il più delle volte desolato e dall'atmosfera
"lunare", rarefatto e spoglio come un sogno di cui il
risveglio abbia fatto dimenticare i particolari inessenziali. Le foto,
tutte in bianco e nero e rigorosamente composte, sono
caratterizzate da un'efficacissima capacità di sintesi
prossima al minimalismo, e
frequenti sono gli effetti di estremo grafismo, specialmente
in quelle numerose immagini in cui ricorrono matasse di fili
ingarbugliati, ingenua ma efficace metafora dell'inestricabile mistero della
vita, di fronte al quale non siamo altro che minuscoli e
goffi esserini intenti a cercare di conquistare il
fantomatico bandolo (candidamente persuasi, nonostante
tutto, della sua esistenza); i titoli svolgono un ruolo fondamentale
nell'interpretazione, aiutandoci a venire a capo dei
raffinati enigmi e "rebus visivi" che Garcin confeziona col
suo visionario "taglia e cuci" fotografico.
Ecco allora che ne Lo specchio del cielo, per
esempio, l'anelito frustrato verso un'improbabile libertà si
concretizza in un'immagine che lo vede passeggiare con un lembo di cielo
sotto al braccio; ne La vita, visione d'insieme l'angoscia del tempo che sfugge è resa attraverso la
riduzione dell'intera esistenza di un uomo ad un metodico,
ragionieristico cancellare con un perentorio tratto nero gli anni passati su
di una asettica superficie bianca; frequente anche il tema
del "limite", della paura o dell'impossibilità di valicarlo,
come in Non andremo oltre, in cui una semplice
e, volendo, facilmente scavalcabile staccionata nera,
stagliata su un terreno immacolato,
simboleggia la frustrante limitatezza dell'essere umano a
fronte dell'infinito e dell'ignoto, qui rappresentato da un'insondabile
oscurità che occupa i due terzi del fotogramma; ne La
ruota lo vediamo arrancare entro gli ingranaggi di una
grossa ruota arrugginita, come un criceto in giacca e
cravatta destinato a non arrivare mai in nessun luogo; ne Il Mulino dell'Oblio, invece, eccolo trascinare in
cerchio una sorta di grossa cimosa che, implacabilmente,
cancella ogni traccia dei suo passi. E le "problematiche
esistenziali" affrontate sono innumerevoli altre, tutte
rese con fantasia ed arguzia: dall'incomunicabilità e
l'isolamento dell'individuo al mistero della morte, dalla
caparbia incoscienza di ogni speranza o ideale al difficile
rapporto con gli altri e finanche con la nostra stessa
identità, dall'insensatezza di ogni azione umana al
disorientamento e al senso di inadeguatezza che ci guidano
nel nostro più o meno impacciato brancolare quotidiano.
Pessimismo? Assolutamente no. Pungente ironia, vista acuta e
disincantato realismo, piuttosto.
I riferimenti "colti" e le analogie culturali, che
suggeriscono ulteriori e stimolanti livelli di lettura della
sua opera, sono spesso lampanti e perlopiù ascrivibili al contesto francese.
Immediato è l'accostamento con le oniriche visioni del
Surrealismo: non quello allucinato e contorto di un Dalì,
quanto quello, lucidissimo - e per questo ancor più
spiazzante -, di un Magritte. E non è raro che Garcin crei
dei veri e propri d'après (reinterpretazioni, più o
meno fedeli all'originale, di celebri opere d'arte),
attingendo alla storia dell'arte nella sua totalità,
chiaramente intesa in quanto inesauribile fonte di utopiche,
dolcissime consolazioni: dal romanticismo sublime di
Caspar-David Friedrich, alla levità di Paul Klee, fino
all'espressionismo astratto di Franz Kline; frequente,
inoltre, il ricorso all'artificio compositivo del "quadro
nel quadro" (o della "foto nella foto"), attraverso cui
Garcin enfatizza l'immaginosa illusorietà delle sue
messinscena.
In ambito cinematografico, è stata individuata un'affinità col regista Jacques Tati, per la
leggerezza svagata e lo humor venato di malinconica poesia
con cui i due riescono ad affrontare le tematiche più
"scomode" per mezzo di goffi e grotteschi anti-eroi (nel
caso di Tati il compito è affidato allo spaesato Monsieur
Hulot).
I riferimenti letterari, poi, si
sprecano, e ancora una volta sono i titoli che ci agevolano
nell'orientamento.
Garcin, per dirne una, adotta toni da satira - ma della più
delicata e sottile - grazie al rimando palese al Candide del filosofo illuminista Voltaire nella foto Coltivare il
proprio giardino, in cui il grande fiore sbocciato su
quell'arido e desolato terreno ricorda tanto il Baobab del Piccolo Principe.
Altrove, invece, pesca a piene mani
nell'Esistenzialismo di un Camus o di un Sartre: la foto
intitolata L'Inferno sono gli altri, per dirne una, prende in
prestito una famosa frase contenuta nel dramma teatrale A
porte chiuse di Jean-Paul Sartre per parlare delle
difficoltà relazionali che ci affliggono e del timore
paralizzante del giudizio altrui. O, ancora: "Bisogna
immaginare Sisifo felice" è, oltre che il titolo di una
foto di Garcin, soprattutto l'inattesa esortazione che
conclude il saggio Il mito di Sisifo di Albert Camus
(a mio avviso un capolavoro; quantomeno un buon pendant alla scoperta delle immagini di Garcin).
Il
personaggio mitologico di Sisifo si presta assai bene ad
essere adottato come simbolo dell'insensato paradosso
dell'esistenza umana a causa del suo celebre supplizio, che
consisteva nel dover spingere in eterno su un monte un
pesante macigno, che, una volta raggiunta la vetta, rotolava
di nuovo a valle, rendendo vana ogni sua fatica.
Nell'impossibilità di trovare un senso ad una così impietosa
e inconcludente condanna, non rimane che una cosa da fare:
immaginarlo nonostante tutto felice, pur nella sua eterna
pena. Al posto di Sisifo, nell'immagine di Garcin troviamo il nostro Signor Nessuno avvolto nel suo pesante
cappotto nero, probabilmente un po' ansimante e bofonchiante
per il fastidio della salita, e che, chissà perché, ci
ispira un'istintiva simpatia: inutile dire che l'intento è
quello di rappresentarci, uno per uno, con o senza il nostro
"consenso informato".
E' così che Gilbert Garcin, dall'alto dei suoi quasi
ottant'anni, sorride di sé e degli uomini nel momento stesso in cui, con
impietose arguzia ed ironia, ne mette in scena le più misere
debolezze; che, anche se potenzialmente drammatiche,
costituiscono pur sempre l'essenza - croce e delizia - del
nostro essere umani.
Serena Effe © 09/2007
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