FOTOGRAFIA: TRA ARCHITETTURE E
LUOGHI DEL LAVORO
Riflessioni post-festivaliere intorno al
Premio Europeo per la Fotografia d'Architettura dedicato a "I luoghi del lavoro", protagonista di una mostra nell'ambito del Festival dell'Architettura 2006

©Angela Kovacs


©Markus Feder

Due immagini essenziali che raccontano il lavoro dell'uomo attraverso la sua assenza

I Festival - c'è poco da fare - vanno di moda.
Ce n'è per tutti i gusti: letteratura fotografia poesia cinema e tutti i possibili incroci di cui sia capace la fantasia degli organizzatori.
Partecipare ad uno di questi festival non è certo il modo migliore per far la conoscenza della città che lo ospita: solitamente la folla festivaliera, avida di sapere, si infila in ogni angolo, in ogni bar, in ogni chiesa, museo o vicoletto sperduto, costringendo qualsivoglia atmosfera o suggestione ad un temporaneo, autoconservativo suicidio.
Vietata ogni lamentela, perché stavolta ce la siamo proprio cercata. Se si è scelto di partecipare ad un festival, bisogna partire allenati, e consapevoli di ciò che ci aspetta; perché nella maggior parte dei casi ci si troverà semidistesi in piazze che nelle giornate di Sole si trasformano in eleganti graticole, o appesi a qualche stipite di porta nel tentativo di riconoscere, in quel cerchietto rosa là in fondo (molto in fondo!) il volto di questo o quell'altro personaggio celebre, per poi poter dire: "l'ho visto da vicino!!" credendo di far invidia a chicchessia... Per non parlare dell'allenamento necessario per tentare improbabili esperimenti di ubiquità, quando, per colpa del sadismo di qualche curatore, ci siano due incontri interessantissimi lo stesso giorno, alla stessa ora, ma in luoghi diversi. La sovrapposizione degli appuntamenti è l'intimo terrore di ogni partecipante: i più valorosi riusciranno nell'impresa di scegliere, o l'uno o l'altro; le anime più sensibili e tormentate, invece, languiranno in albergo con la testa tra le mani, aspettando che passi, rinunciando a tutti e due pur di non dover sceglierne uno soltanto; poi ci sono quelli scafati, avvezzi alle inclemenze della vita, che sguinzagliano i rispettivi partners come reporters d'assalto: "ci ritroviamo qui tra due ore; e mi raccomando non ti distrarre, che poi mi devi raccontare tutto!".
Insomma, bonaria ironia a parte, il popolo frequentatore dei festival fa quasi tenerezza, nel suo sottoporsi a questi e altri tour de force per il gusto di acclamare scrittori, filosofi e professionisti, neanche fossero navigate rock stars (eppure in Italia si continua a legger poco, e male: come mai? Che sia per caso che se non c'è lo spettacolo, l'Italiano Medio si annoia, e non si muove? Ma lasciamo perdere queste spinose generalizzazioni...).

Per il Festival dell'Architettura (la cui terza edizione si è da poco conclusa) le cose sono un po' diverse.
Sarà perché l'architettura non è un'arte 'di moda', risente di una sua certa freddezza intrinseca, che difficilmente emoziona. Rimane nel suo recinto occupato solo dagli 'addetti ai lavori', con poche concessioni.

A ben vedere, è un peccato (per quanto rimanga un peccato comprensibile): l'architettura è il primo biglietto da visita che le città ci porgono. Al primo colpo d'occhio questa veste di pietra e cemento ci comunica il polso della situazione: squallore, opulenza, povertà, efficienza, fantasia, rigore, magnificenza o inospitalità.
Ogni città ci parla, prima di ogni altra cosa, attraverso la sua architettura.
Per questi motivi, il Festival in questione è senza dubbio un'iniziativa coraggiosa. Coraggiosa, e quindi molto meno gettonata (che di questi tempi, si sa, ci vuol coraggio ad aver coraggio!).

©Andrea Botto. Terzo classificato al Premio Europeo per la Fotografia d'Architettura 2005 con una serie di immagini realizzate nell'ambito dei lavori necessari alla realizzazione della nuova linea ferroviaria TAV

©Ulrich Schmitt immortala l'era dei 'colletti bianchi'

Un'immagine tratta dal reportage Men at work (1932) di Lewis Hine, che documenta il duro lavoro degli operai per la costruzione dell'Empire State Building di New York

©Myrzik / Jarisch. Costruzione di una diga in Cina

Difficile, però, attrarre semplici curiosi con la sola forza di disegni e progetti: a meno che non si sia fatto dell'architettura la propria professione, nella maggior parte dei casi lasciano indifferenti o, peggio, annoiano mortalmente. Sarà pure un'affermazione vergognosamente di parte, la mia, ma tant'è: tra le più belle e interessanti mostre allestite, senz'altro spiccavano quelle fotografiche.

La fotografia, giocoforza, si ritaglia un discreto posto nell'ambito dell'architettura: una volta esaurito il compito preliminare dei progetti, è a lei che viene affidato l'incarico di immortalare l'opera compiuta. Parlo di 'incarico', non a caso: perché è proprio in rapporto all'architettura che la fotografia fatìca a scrollarsi di dosso quel ruolo secondario di 'ancella' delle altre arti che le chiede essenzialmente di documentare, senza prendersi troppe libertà.
La fotografia di architettura, la cui stessa esistenza è costantemente messa in discussione, è stato l'argomento di un interessante dibattito svoltosi nell'ambito della mostra dedicata al "PREMIO EUROPEO PER LA FOTOGRAFIA D'ARCHITETTURA 2005". Il premio propone, con scadenza biennale, temi ogni volta diversi con cui cimentarsi; stavolta i protagonisti erano 'I luoghi del lavoro': 112 immagini di 28 fotografi selezionati rendevano conto di una fertile varietà interpretativa del tema proposto, svolto sempre e comunque in una prospettiva di 'racconto', nell'ambito del quale la validità comunicativa della serie proposta contava più del peso estetico di ogni singolo scatto (le serie di immagini complete, dei vincitori e dei segnalati dell'edizione 2005, sono visibili QUI, sul sito dell'associazione no-profit Architekturbild e.v., che dirige il concorso; alla voce 'award' è possibile consultare le immagini delle passate edizioni, a partire dal 1995).

Soprassedendo sul discutibile primo premio assegnato a Daniela Finke (che delega ogni sforzo creativo ad un uso spropositato del filto 'Polvere e grana' di Photoshop), le altre immagini erano assai interessanti, a cominciare da quelle dell'italiano Andrea Botto, terzo classificato (ex-aequo con le linee pure ed asettiche delle banche di Koen Van Damme), che propone un lavoro incentrato sui cantieri dell'Autostrada Milano-Bologna per la costruzione della nuova linea ferroviaria TAV: atmosfere e luci scenografiche, dovute anche alla necessità di portare a termine le demolizioni entro le ore notturne, in cui le inquietanti sagome delle ruspe emergono da un bagliore teatrale, quasi si trattasse di una 'ribalta' in cui la presenza fondamentale dell'uomo si intuisce soltanto, immersa nel buio che avvolge le quinte di questo originale palcoscenico.
Tanti modi diversi per illustrare una stessa realtà: dall'essenziale scrivania colta nella sua mutevolezza giornaliera da Angela Kovacs, alle inquietanti schiere implotonate di impiegati ritratte da Ulrich Schmitt; dall'incombenza soffocante delle alte mura di cemento di Ulrike Myrzik (che ricordano tanto le avveniristiche architetture del film 'Metropolis'), agli impercettibili segni che una scrivania lascia sulla moquette di un ufficio nelle foto di Markus Feder; dalle geometriche composizioni di container di Claudio Zanon, alla pittoresca e sovraccarica atmosfera di Anja Schlamann.
Molteplici sguardi, con un'unica costante: la presenza/assenza dei lavoratori. Presenza fisica, a cui subito fa eco un'assenza 'morale'; in quasi ognuno di questi scatti, infatti, il lavoratore viene presentato in modo "seriale ed anonimo; è leggibile, ma non identificabile" (come scrive Alessandra Ronzoni - curatrice della mostra insieme a Elisabetta Modena - nell'articolo dedicato all'interno del ben fatto catalogo del Festival): sagome irrisolte e alienate, dall'identità vanificata, metafore della moderna condizione di lavoratori.
Riflessioni, queste, riprese nel dibattito e inserite in un più ampio discorso, che parte da lontano, e in cui i confini tra fotografia di architettura e documentazione del lavoro si assottigliano progressivamente, fino a fondersi nel 'calderone' del fotoreportage sociale.
Bisogna infatti tornare agli anni Trenta per scoprirvi gli 'antenati' di questo tipo di fotografia: anni in cui l'uomo era protagonista indiscusso, inserito in una prospettiva di fotoreportage che mirava a denunciare le disumane condizioni di vita dei lavoratori e a restituir loro dignità; basti ricordare lavori fondamentali come Men at work di Lewis Hine (1932) o l'immane opera documentativa della Farm Security Administration (organizzazione governativa creata nel 1936 - all'indomani della Depressione del 1929 - che aveva il compito di documentare fotograficamente le tragiche ripercussioni della crisi sulla popolazione americana; ne facevano parte, tra gli altri, Walker Evans e Dorothea Lange).
La figura del lavoratore (e, più in generale, dell'uomo tout court) rimarrà centrale fin verso la metà degli anni Settanta del Novecento, data in cui si verifica un crollo di interesse sia popolare che mediatico, che relega perlopiù i residui lavori documentari ad un livello scadente e intriso di retorica.
Bisognerà attendere gli anni Ottanta per un rinnovamento radicale, conosciuto con il nome di 'stagione del paesaggio': rinnovamento che avrà come fulcro la scomparsa della figura umana.

E' una stagione che ha per punte di diamante nomi quali Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, Guido Guidi: fotografi che disseminano le loro immagini di 'segni' che alludono alla presenza umana, che però, appunto, si limita ad essere 'suggerita' da elementi paesaggistici e architettonici, ma mai rappresentata palesemente; l'indagine si sviluppa secondo ricerche estetiche autonome che poco o niente hanno a che fare con l'istanza sociale.

In questa prospettiva, le foto del concorso di cui parlavamo si connotano come un elaborato compromesso tra due istanze tra loro antitetiche, segno inequivocabile dei tempi che cambiano: la figura umana viene ora 'riscoperta', ma è come se questi decenni di sparizione ne avessero irrimediabilmente corroso i contorni e, direi quasi, il senso.

Proprio i nomi di Basilico, Ghirri e Guidi mi permettono, infine, una considerazione a carattere più generale.
Esempi lampanti, questi ultimi, di un possibile rapporto paritario, assolutamente non strumentale, tra fotografia e architettura.

©Koen van Damme. Un primo premio mancato, per queste immagini che ricordano tanto le rigorose griglie pittoriche di Mondrian

Approcci autonomi, chiamati ad interpretare liberamente spazi ed architetture, spesso ben al di là delle intenzioni stesse dell'architetto (è il caso, eclatante, delle fotografie scattate da Ghirri al Cimitero di Modena, opera di Aldo Rossi: un enorme cubo, perlopiù detestato dagli abitanti, che grazie alla libertà creativa del fotografo viene totalmente trasfigurato e avvolto da un'aura magica e metafisica).
Episodi sempre meno isolati, segno di una fotografia che va conquistandosi, faticosamente, il diritto di opporsi ad ogni sfruttamento utilitaristico che la vorrebbe docile e remissiva esecutrice di una documentazione oggettiva. Richiesta quantomai contronatura, se è vero - come è vero - che laddove si ha una foto, si ha anche una 'messa in codice', un'interpretazione che non può fare a meno di travisare il reale, anche quando si presenti sotto le mentite spoglie di 'documento'.
Ciò che emerge, tirando le fila, è una fotografia che è riuscita a reinventarsi un proprio ruolo.
La domanda è: riuscirà a mantenerlo?

Luigi Ghirri fotografa Aldo Rossi: un esempio particolarmente felice di rapporto equilibrato tra fotografo ed architetto, senza strumentalizzazioni di sorta e all'insegna di una totale autonomia interpretativa
 

Oltre a questo, s'intende, il Festival proponeva numerosi altri appuntamenti, tra mostre, tavole rotonde e conferenze (compresa una interessante esposizione che metteva a confronto l'opera di Luigi Ghirri con quella dell'architetto Aldo Rossi, nell'ambito di un suggestivo percorso incentrato sul tema della 'memoria'), dislocati nelle città di Parma, Reggio Emilia e Modena, di cui però sarebbe ormai superfluo parlare. Non c'è altro da fare se non attendere le novità della prossima edizione, facendo riferimento al sito (QUI).

Questa mia riflessione, pur nella sua lacunosità, non è altro che un esempio di come possa valer la pena aprirsi a nuove sollecitazioni (il Festival dell'Architettura è una di queste), anche a quelle che non ci si sarebbe mai sognati di prendere in considerazione (io e l'architettura siamo due emerite sconosciute, credetemi).
Dalla curiosità non può nascere che nuovo sapere. Tanto vale provarci.

Serena Effe © 11/2006
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