Partiti dalla valle del Rolwaling a 920 metri di altitudine, Davide Peluzzi, capo spedizione, Paolo Trentini e Roberto Ferrante (medici del soccorso alpino), Federico Spada e Biagio Mengoli del soccorso alpino e Paolo De Laurentis (guida alpina), hanno attraversato oltre 151 chilometri fino ad arrivare alla valle del Kumbu.
Una traversata in condizioni invernali, quella tra Nepal e Tibet, che aveva già spaventato due spedizioni (una canadese, l’altra spagnola) tanto da farle tornare indietro. Ma loro ce l’hanno fatta: son saliti fino quasi a toccare il cielo con le dita.
A raccontarlo è il capo spedizione e ideatore, insieme a Gianluca Frinchillucci della Earth Mater, Davide Peluzzi.
«Lontani dalle vie turistiche abbiamo camminato per giorni e giorni in una valle remota, che conta poco più di 300 abitanti, dove Milarepa si ritirava in meditazione nei sacri monasteri alle pendici del Gauri Shankar. Qui la gente ci guardava con interesse. A volte ci toccavano addirittura, tanto era la curiosità di vedere uno straniero. Ma nello stupore generale abbiamo trovato un’ospitalità unica nelle loro case fatte pietre e di sterco di yak».
Davide e gli altri hanno percorso 80 chilometri di valle selvaggia tra il Nepal e il Tibet prima di iniziare la scalata vera e propria con ramponi, piccozze e corde fisse. Mai le temperature son salite sopra lo zero.
«Di giorno eravamo sui meno due gradi, mentre di notte ben al di sotto dei venti. Ogni giorno camminavamo con 40 cm di neve fresca che copriva i crepacci dei ghiacciai rendendo tutto più difficoltoso. E poi la scarsa visibilità. Camminavamo in mezzo alle nuvole».
Tra canali e camini completamente ghiacciati, il team della "Perigeo Explora", è andato avanti con determinazione anche quando ha rischiato di essere travolto da valanghe.
«Abbiamo posizionato tre campi alti, con un dislivello complessivo di 9.969 metri, prima di toccare la sommità del Tashi-Lapca, luogo sacro per antonomasia, dove gli dei dell’Himalya si incontrano e dove chiunque passa deve lasciare una pietra in segno di devozione».
Ed è qui che i sei alpinisti teramani hanno lasciato la loro pietra, prelevata dal Vittoriale degli italiani, e ne hanno prese in cambio altre da portare giù nei laboratori di fisica del Gran Sasso per gli studi sulla radioattività naturale.
Un momento di commozione: Davide ha voluto “portare” con sé anche l’amico Franco Varrassi, vestendo quella maglia e quel foulard che l’alpinista di Colledara indossava il giorno in cui, mentre si allenavano per questa spedizione, cadde giù dal Gran Sasso. E poi la lettera della moglie di Franco, Vittoria.
«Cosa ho provato in vetta? Felicità ed emozioni che solo un ritorno incerto riescono a dare. Da lassù bisognava ridiscendere».
Ma per Davide, che ha indossato per l’intera scalata i guanti usati dall’amico poco più che novantenne Lino D’Angelo, nei suoi sessant’anni di alpinismo, nessun timore.
E il pensiero vola già in Artico per una nuova spedizione.
Redazione di Nadir e Davide Peluzzi © 12/2013
Riproduzione Riservata