Diciotto immagini risalenti al periodo 2004-2007 presentano per la prima volta in Italia le elaborazioni digitali del giovane polacco Dragan, in una mostra dal significativo titolo "Allegories & Macabresques": allo Spazio Salvioli di Milano fino al 21 dicembre 2007
Macabra. Gotica. "Noir". Sono questi gli aggettivi più frequentemente utilizzati per descrivere l'atmosfera che impregna di sé le immagini create dal giovane polacco Andrzej Dragan, stimato fisico quantistico prima che fotografo o "artista" che chiamar lo si voglia.
Personaggio strano, questo Dragan: bizzarro connubio di rigorosa razionalità scientifica e smaliziata sperimentazione creativa; trentenne che si dà l'aria di snobbare arte e letteratura (nell'intervista a cura di Paola Bonini, contenuta nel catalogo della mostra, Dragan rimemora la noia che lo accompagnò durante una visita alla Tate Gallery di Londra - interrotta solo dall'illuminazione davanti ad unico, significativo quadro: La metamorfosi di Narciso di Salvador Dalì - e liquida in maniera, lasciatemi dire, alquanto discutibile, il genere "romanzo" come una forma di intrattenimento inconsistente, «un genere di distrazione che trovo in qualche modo vuoto»…), ma che, a fronte di questa almeno apparente aridità d'emozioni, è capace di impiegare anche un intero mese intorno ad un'unica immagine, ritoccandola fino a raggiungere il risultato immaginato.
La fotografia, dunque, per Dragan non è che il punto di partenza di un processo che la oltrepassa, per arrivare ad esiti dal forte impatto spaesante - vedremo poi meglio perché - raggiunti essenzialmente grazie all'abile utilizzo di un pennello, sì, ma digitale.
A dirla tutta, Dragan non si esprime in termini particolarmente entusiastici neanche riguardo la fotografia: a sentirlo, pare quasi che scattare una foto sia per lui nient'altro che una tediante quanto inevitabile necessità tecnica ai fini del suo processo creativo, di cui se potesse farebbe volentieri a meno; niente macchina fotografica sempre pronta alla mano, dunque: pochi scatti, e solo nel momento in cui riconosca istintivamente di trovarsi di fronte ad un soggetto "giusto".
Un hobby appena un po' più "frivolo", però, questo scienziato ce l'ha. Ed è quello che più di ogni altro aspetto ci autorizza a formulare qualche ipotesi sulle radici della sua particolare ispirazione. Una passione che sfiora a suo dire l'ossessione, quella per i film del regista David Lynch (che vediamo ritratto, in basso, assieme ad una gallina), in special modo per Lost Highway - 'Strade perdute' -, visto e rivisto innumerevoli volte. Non è difficile accorgersi di come, in Dragan, certe inquadrature e strategie visive particolarmente stranianti rispecchino lo stile tormentato e visionario del regista americano, mirando anch'esse ad avvolgere l'osservatore in disagevoli spire di vertigini interpretative.
I film di David Lynch, regista americano classe 1946, sono caratterizzati da un'atmosfera immediatamente riconoscibile, che ha fatto scuola: trame contorte e paradossali, personaggi grotteschi, scene angoscianti e farraginose in cui l'elemento surreale ed onirico gioca un ruolo cardine nel disorientare lo spettatore, estrema attenzione agli effetti di luce e, non ultimo, alla capacità di coinvolgimento e suggestione di quelli sonori (fondamentale la sua collaborazione col compositore Angelo Badalamenti). Vi è in Lynch una propensione all'anomalia, sia riguardo le condizioni fisiche e psichiche dei suoi personaggi, che per quanto concerne la costruzione generale dell'opera (non è certo un caso che tra i suoi pittori preferiti, da cui trarre ispirazione, figurino Francis Bacon e Oskar Kokoschka, ambedue maestri nel tradurre in immagini il decadimento fisico e morale).
Noto al cosiddetto "grande pubblico" per la serie televisiva cult Twin Peaks (1990), David Lynch ha al suo attivo numerosi film osannati da critica e pubblico: da The Elephant Man (1980) al più recente INLAND EMPIRE (2006), passando per i misteriosi intrecci di Blue Velvet (1986, in cui ritorna la tematica dei risvolti inquietanti celati nelle pieghe della vita dei piccoli centri urbani americani, tanto cara al regista) e di Mulholland Drive (2001, Palma d'Oro come miglior regia al Festival di Cannes), senza ovviamente dimenticare il preferito di Dragan, il thriller psicologico Lost Highway (1996). Può essere interessante affiancare alla visione dei film la lettura di alcuni saggi, a mo' di "guide" per meglio comprendere i complessi risvolti dell'opera di Lynch: segnaliamo qui il volumetto dell'ottima collana Il Castoro Cinema e il fondamentale testo di Michel Chion edito da Lindau, in cui l'"alfabeto lynchiano" viene accuratamente analizzato nella sua interezza, dalla genesi dei suoi più importanti film al rapporto con l'evoluzione del cinema.
Ed è sempre da Lost Highway che Dragan trae una frase che fa propria, e che può tornarci utile nell'individuare una caratteristica fondamentale della sua idea di "ritratto": «I like to remember things my own way. How I remembered them, not necessarily the way they happened» ('Mi piace ricordare le cose a modo mio. E come le ricordo non coincide necessariamente con il modo in cui realmente erano quando accaddero')... Trasfigurazione, ecco la parola d'ordine. Giochi di prestigio di una memoria programmaticamente alterata, che, mescolando le carte in tavola, fa di tutto per illuderci che siano invece rimaste tutte al loro posto.
Le due caratteristiche solitamente scontate del genere "ritratto" - la riconoscibilità del soggetto e l'eventuale rivelazione di elementi dell'indole interiore - non sono certo in cima alla lista delle priorità espressive di Dragan: ogni naturalismo è abbandonato (o meglio: esasperato, a favore di un iper-realismo sconcertante) al fine di tradurre in immagine le fantasie germinate intorno al "lato oscuro" di un determinato volto o personalità; in tal senso, non è azzardato affermare come i ritratti di Dragan siano più prossimi alla tradizione pittorica del passato - e alla relativa tendenza a concentrarsi sull'identità simbolica dei personaggi - piuttosto che allo statuto del mezzo fotografico, con le sue pretese di certificazione obiettiva del reale. Ritratti paradossalmente ego-centrici, dunque: dove l'ego in questione non è però quello dell'effigiato - com'è consuetudine che sia -, bensì quello dell'effigiante. In sostanza, Dragan prende in prestito fattezze altrui per ricamarci sopra, con indubbia maestria, le tortuose impronte dei suoi incubi privati; anche in questo risiede l'originalità del suo lavoro.
Ma che cos'è, in fin dei conti, che rende così morbosamente ammalianti i suoi ritratti, quasi ipnotici per la loro intensità al limite dello "spaventoso"?
I soggetti, certo, nella maggioranza dei casi giocano un ruolo fondamentale. Si veda per esempio Marta (sopra), una modella affetta da anoressia il cui ritratto è tra i meno artefatti tra tutti quelli "confezionati" da Dragan (la realtà, ben si sa, è in grado di raggiungere livelli di perversità sconosciuti anche alla più sfrenata fantasia); e non si può certo dire che il volto del suo modello preferito (l'uomo che copre gli occhi alla bambina nella prima foto, altrove ritratto a mo' di flemmatico Cristo sanguinante dallo sguardo magneticamente azzurro) non sia di per sé già sufficientemente inquietante.
Le ambientazioni, poi, non sono da meno: sfondi desolanti composti di nude pareti dall'aria manicomiale, talvolta graffiate, scalfite, lacerate; o, al contrario, occultate da pesanti panneggi di broccati, damaschi, intarsiate di ghirigori in velluto come spesse cortine di un'alcova demoniaca.
Ma vi sono anche numerose immagini che, nonostante la relativa "normalità" del soggetto, ci attraggono oltremodo, disorientandoci inaspettatamente; è il caso, tra i tanti, del primissimo piano di Sailor (sopra; la compressione per il web, purtroppo, attenua molto l'effetto): un sorriso accennato, uno sguardo aperto, in grado però di suscitare in chi guarda un sottile turbamento.
Ed è qui che entra in ballo il vero "marchio di fabbrica" di Dragan, quell'elaborato processo di post-produzione digitale che a molti sarà noto, per l'appunto, come "draganizzazione"; un effetto che si basa essenzialmente sull'intensificazione massima dei dettagli: rughe, pori, peli, capelli, scabrosità, deformità ed imperfezioni, tutto è enfatizzato fino al parossismo, ben oltre la nostra consueta capacità percettiva. Ecco che l'integrità non solo dei volti, ma del reale tout court, viene irrimediabilmente compromessa: tutto appare come infetto da un morbo strisciante che, scavando e scarnificando, ci costringe a considerare l'irriverente corruttibilità di carne e spirito.
Insomma: ci troviamo immersi in un'atmosfera di disfacimento raffinato e al tempo stesso compiaciuto di sé, con una propensione all'anomalo talmente insistita, specie in alcuni scatti, da poter di primo acchito richiamare alla mente le schiere di freaks, di "diversi", tanto cari alla fotografa americana Diane Arbus; o, almeno, questo è ciò che ci viene suggerito in uno dei testi critici presenti in catalogo: ma quanta distanza tra il dramma della Arbus e il divertissement digitale di Dragan! Un abisso. Guai a confondere una post-produzione d'effetto, convincente ma intellettualmente e "freddamente" ricercata fin nella più sottile sfumatura, con un'idea di fotografia che affonda i propri uncini nella carne viva, dando voce ad un malessere esistenziale fin troppo reale (la Arbus, com'è noto, finì col togliersi la vita).
Basta affacciarsi al sito web di Dragan (in cui tra l'altro trovate una ricca galleria d'immagini) per rendersi conto dell'inopportunità di tale confronto: un sito lugubre, certamente accattivante e ben congegnato finanche nell'accompagnamento sonoro che accoglie il visitatore (il tetro Stabat Mater Dolorosa del compositore settecentesco Giovanni Battista Pergolesi), che ci svela però con fin troppa ingenuità quanto il giovane fotografo ami "calcare la mano", costruendo, brivido su brivido, una sofisticata aura d'incubo intorno alla sua opera e alla sua stessa persona. No, proprio niente a che vedere con la Arbus. E non lo dico per suggerire un qualsivoglia giudizio di valore, quanto esclusivamente per ristabilire le giuste proporzioni nell'ambito di un fare critica che troppo spesso si adagia in accostamenti che peccano di superficialità.
Pedanti puntualizzazioni a parte, l'invito è ad approfittare dell'esposizione milanese per sperimentare vis-à-vis l'insinuante malìa di questi ritratti, che sono altresì in grado di dimostrarci quanto l'elaborazione digitale possa, se usata con cognizione di causa, moltiplicare a dismisura il significato stesso del reale: non sostituendosi all'immagine in maniera invasiva, bensì suggerendone inattese e illuminanti interpretazioni aggiuntive. In casi del genere, quindi, ben venga Photoshop!
Serena Effe © 10/2007
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