CENTO FOTOGRAFI DEL XX SECOLO
dalla Collezione Charles-Henri Favrod
Nora Dal Monte, dicembre 2007

Cento autori presentati per altrettante significative immagini: un percorso attraverso
la storia della fotografia del Novecento, guidato dalle scelte e dal giudizio critico del
collezionista Charles-Henri Favrod. Al MNAF (Museo Nazionale Alinari della Fotografia)
di Firenze, fino al 6 gennaio 2008.

Una mostra senz'altro eterogenea, quella allestita al MNAF di Firenze in occasione del primo anno di vita del museo. E se mettere insieme un percorso che riassuma le sorti di un secolo di fotografia può non essere impresa facile, appoggiarsi alle scelte compiute da un grande nome del collezionismo fotografico come quello di Charles-Henri Favrod può certamente esser d'aiuto.

L'esposizione, infatti, nonostante una certa inevitabile dispersività, risulta particolarmente godibile proprio grazie all'illuminato giudizio critico che presiede alla scelta delle foto esposte: cento in tutto, per altrettanti autori.
Una carrellata dal ritmo serrato che permette al visitatore di verificare direttamente l'avvicendarsi di mutamenti estetici e formali nella pratica fotografica, confrontandosi con immagini note e meno note, molte delle quali assurte nel corso del secolo a vere e proprie icone dei nostri tempi.

Ecco che, fianco a fianco, troveremo immagini esteticamente quanto più distanti tra loro: accostamenti inconsueti, validi inviti a riflettere, mettendosi in cerca di analogie e differenze, delle molteplici chiavi di lettura tramite cui scandagliare le inattese profondità di questa collezione.
E' il caso per esempio di un delicatissimo Bouquet di fiori umili, ritratti nel 1980 da Edouard Boubat con la grazia e la morbidezza quasi pittorialiste di uno schizzo a carboncino, posto "provocatoriamente" accanto allo scarno rigore con cui Hans Finsler eternò, nel 1928, la geometria dei filamenti di una Lampadina elettrica, che, isolati dal loro contesto abituale, paiono quasi somigliare ad una minuscola giostra racchiusa in una asettica bolla d'aria.
Raffinati "esercizi di stile" come questi appena accennati dialogano con immagini che rinunciano all'astrazione per buttarsi a capofitto nella storia; e se è vero che, afferma Favrod, «la storia della fotografia è la fotografia della storia», questa mostra dà anche la preziosa possibilità di ripercorrere visivamente i momenti cruciali del secolo appena trascorso, grazie alla presenza in forze dei più celebri nomi del fotogiornalismo internazionale: da Robert Capa a Werner Bischof, da Cartier Bresson a Eugene Smith, da Joseph Koudelka a Elliott Erwitt.

L'invasato Hitler (1927) di Heinrich Hoffmann si spartisce controvoglia la parete con il cadavere di Mussolini a Piazzale Loreto, fotografato da René Caloz nel 1945; poco più in là, Che Guevara posa semidisteso per l'obiettivo di Andrew St.-George. Il '68 parigino rivive nella dinamica immagine di Claude Raymond Dityvon (sopra), traghettandoci verso quel 1972 della famosissima immagine di Nick Ut - Bombardamenti al napalm, Vietnam - in cui un gruppo di bambini seminudi, con la bimba completamente nuda al centro, ci viene incontro urlando.
Una mostra anche per ricordare, dunque, per passare in rassegna volti ed accadimenti filtrati da sensibilità che hanno anch'esse costruito, a loro modo, la storia (non foss'altro quella della "visione moderna"). Una selezione che non dimentica l'Arte, i grandi nomi delle avanguardie del primo novecento, racchiusi in immagini magistrali. Ecco Henri Matisse, malato, nel suo studio abitato da colombe: ne stringe in mano una, delicatamente, intento a ritrarla con pochi tratti sicuri su un grande blocco da schizzi; dall'altra parte dell'obiettivo, com'è noto, c'è Henri Cartier-Bresson. Marcel Duchamp è invece il soggetto di un ritratto austero, essenziale: un profilo in primissimo piano, il cui contorno è tracciato da una spessa linea nera; autore di questa delicata, efficacissima solarizzazione, altri non è che Man Ray. Ed è l'occhio di Arnold Newman che si cela dietro il meraviglioso ritratto di Igor Stravinsky: una composizione minimale, geometricamente rigorosa, occupata per tre quarti dalla sagoma nera del coperchio sollevato di un pianoforte a coda. Stili e linguaggi diversi, uniti in una sinfonia di sguardi che guidano la nostra attenzione ora su uno, ora su un altro elemento del fare fotografia: necessità di sperimentazione, o di perfezione formale, o, ancora, di verosimiglianza e naturalezza.

Oltre a quanto detto, oltre quindi alla straordinaria notorietà e bellezza di certi scatti, la mostra dà modo di soffermarsi a riflettere sul concetto stesso di collezionismo: una passione élitaria, certo, ma non per questo meno avventurosa, a suo modo. Charles-Henri Favrod, nato in Svizzera nel 1927, ha consacrato la sua intera esistenza alla fotografia: fotoreporter, critico, gallerista e collezionista, è attualmente vicepresidente del Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, nel quale la sua collezione è custodita. Concludiamo questa breve panoramica riportando alcuni passi dell'interessante testo, incluso nel catalogo, con cui Favrod racconta la nascita del proprio spirito collezionistico, che, al di là di ogni cervellotica interpretazione psicanalitica, nasce essenzialmente dall'elementare e limpido "desiderio di riconoscere, e dal piacere di guardare":

«Su cento fotografi presentati, quasi tutti sono amici oppure, quelli scomparsi, lo sono stati. Nel corso del tempo, ho fatto la loro conoscenza, avendo talvolta perfino il privilegio di entrare nel loro atelier, dal minuscolo spazio dove Mario Giacomelli operava a Senigallia al vastissimo studio newyorchese di Ernst Haas dove, anni dopo la sua morte, permaneva ancora l'odore forte dei prodotti. Ancor più, ho potuto divertirmi in compagnia di molti di loro nelle loro scorribande attraverso le città e le campagne. Penso a Robert Doisneau, a Willy Ronis, a Marc Riboud, a René Burri, ad Henri Cartier-Bresson, a Robert Frank, tutti quei favolosi camminatori con lo sguardo perennemente all'erta.
(...) Forse è necessario che io racconti com'è cominciata quella che oggi sono obbligato a chiamare una collezione. Veramente non ci pensavo all'inizio, quando, a quindici anni, al sanatorio, combattevo la noia della cura con lunghe ore in biblioteca dove figurava "L'Illustration" dal suo primo numero. Da segnalare è che allora la fotografia poteva essere riprodotta solo tramite incisione su legno, fino alla scoperta del retino alla fine del XIX secolo. Ma nella testata del venerabile settimanale compariva, dal 1843, una veduta del Pont-Neuf di Parigi di Charles Marville. E le incisioni dovevano recare la dicitura "tratto da una fotografia", facendo spesso menzione dell'autore. Una buona iniziazione dunque che mi è servita ad identificare delle vedute fotografiche anonime, trovate in seguito nei negozi di anticaglie e nelle fiere di vecchie stampe, etichette, libri, etc
...»

A proposito del collezionista...

«Per lo psicanalista, l'azione di collezionare è pulsionale, mette dunque in gioco una spinta fisico-biologica, cerca cioè di realizzare inconsciamente la sopravvivenza, addirittura l'eternità dell'individuo. Traduce le spinte della pulsione di vita di fronte all'angoscia del vuoto che suscita la pulsione della morte. Non aggiungo altro per non divagare troppo sull'argomento e perché bisognerebbe anche approfondire le fasi dello sviluppo psicosessuale. In effetti non si ha nessun riguardo per il collezionista. Cito il Dr. Silvio Giulio Fanti: "La micropsicoanalisi di un collezionista d'immagini esteriorizza progressivamente l'amore-odio fallico della sua castrazione d'Edipo, il suo sadomasochismo anale, la perversione polimorfa della sua possessività orale e della sua sinapsi fetale materna." E' proprio cosi che si ha il piacere di definirvi! Io non mi sono mai considerato un collezionista, poiché non mi sono mai immolato allo spirito del sistema, né ho constatato dei sintomi monomaniacali. La fotografia cattura il mio interesse perché mi fornisce delle informazioni. Desiderio di riconoscere, piacere di guardare. E senza dubbio anche perché essa permette d'ingannare un po' la morte. Ritorna la pulsione psicoanalitica... E' decisamente il momento di finirla e di tacere!»

Charles-Henri Favrod

Nora Dal Monte © 12/2007
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