Parafrasiamo una battuta del grande Woody Allen per parlare brevemente del documentario "La Sombra del Iceberg" (L'ombra dell'iceberg), proiettato nel corso della seconda edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione 'Extra'.
Avvincente, con ritmo e linguaggio visivo non lontano da alcuni canoni del thriller, dietro la tanta apparenza questo documentario di circa un'ora ed un quarto offre anche molta sostanza. La sostanza è quella di un'indagine, quanto più neutrale ed oggettiva possibile, sulla veridicità della famosa foto Morte di un miliziano spagnolo, realizzata da Robert Capa nel settembre del 1936 e sulla quale aleggia da sempre una polemica: è una foto veritiera o si tratta di una messa in scena?
Diciamo subito che il documentario, ad opera di Hugo Domenech e Raul Montesinos Riebenbauer, non lascerà lo spettatore con una risposta certa ed inequivocabile. Tra le ritrosie di chi difende la veriditicà della fotografia (primo tra tutti Richard Whelan, biografo di Capa e curatore del suo archivio) ed il desiderio di sapere di chi invece ha opinioni diverse, gli autori del documentario viaggiano tra Spagna, Francia e Stati Uniti intervistando giornalisti e studiosi alla ricerca della verità.
Il compito è difficile. Nella sua semplicità, e pur lontana da una perfezione formale che comunque nulla avrebbe tolto al suo valore (anzi, il suo essere leggermente sfocata ha poi ispirato il titolo all'autobiografia di Capa: "Slightly Out of Focus"), la foto in questione è un'icona di questo secolo; è probabilmente "la" foto della guerra civile spagnola. Quand'anche si scoprisse che è stata costruita ad hoc, la sua portata storica e civile non ne verrebbe ormai scalfita. Peraltro, questa è anche l'opinione degli autori del documentario, come risulta dalla loro risposta ad una nostra specifica domanda in merito.
Titolo originale: La sombra del iceberg |
Regia: Raùl M. Riebenbauer, Hugo Doménech Sceneggiatura: H. Doménech, R. Riebenbauer Fotografia: Robert Arnau Montaggio: Raúl M. Riebenbauer, Moisés Ruiz Scenografia: Joan Montagud Musica: David Alarcón, Joan Martinez |
Una volta chiarito questo, lasciamo pure lo spazio ai dubbi. Analizzando la foto, un medico legale ci dice che non riesce a trovare alcuna causa di morte: non si vedono ferite, schizzi di sangue, ed altro; inoltre, se il miliziano fosse morto, non si capisce perché una mano (quella che regge il fucile) ha la muscolatura rilassata mentre l'altra no. Analizzando le ombre, un fisico innamorato dei numeri ci dice che la foto è stata scattata alle 9 del mattino, e non alle 5 del pomeriggio come racconta la versione ufficiale. Analizzando dentatura, orecchie e mani, un altro tecnico ci dice che è assai improbabile che il miliziano della foto sia la persona che ufficialmente viene identificata come tale, ovvero il miliziano Federico Borrell, soprannominato Taino. Analizzando lo sfondo, appare improbabile che la foto sia stata scattata a Cerro Muriano, come vuole la versione ufficiale; c'è un posto molto più somigliante più a sud, nella direzione dove all'epoca c'era il fronte. E poi, l'esistenza di altre foto della medesima serie, tra cui una molto simile scattata a pochi secondi di distanza e che ritrae un altro miliziano che sembra morto, getta ulteriori dubbi sull'autenticità dell'immagine. Resta comunque il fatto che, come tutte le persone interpellate durante l'indagine hanno detto, la certezza scientifica sulla veridicità della foto, ad oggi, non è possibile averla.
Ed allora viene spontaneo chiedersi se in fondo tutta questa vivisezione sia necessaria, visto che lo scopo della fotografia ci pare pienamente raggiunto a livello estetico, di coscienza civile e, perché negarlo, di popolarità del reporter. Sarebbe bello se questa serenità fosse sposata anche da coloro che, da Whelan in giù, negano in maniera ossessiva ed aggressiva anche solo la possibilità della messa in discussione dell'immagine. Auspichiamo che il bel lavoro di Domenech e Riebenbauer sia un passo in questa direzione.
Agostino Maiello © 10/2007
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Endre Ernö Friedmann nasce a Budapest, in Ungheria, nel 1913. Morirà per lo scoppio di una mina - col nome ben più noto di Robert Capa - a Thai-Binh, in Vietnam (Indocina), nel 1954. Tra queste due date si dipana una delle più eclatanti carriere fotogiornalistiche della storia, che spicca il volo intorno al 1933, anno in cui il giovane Endre emigra a Parigi, secondo centro europeo del nuovo fotogiornalismo dopo la Germania: qui entrerà in contatto con personalità del calibro di Cartier-Bresson, David 'Chim' Seymour (con i quali fonderà l'agenzia Magnum nel 1947, di cui diverrà presidente nel '51), Kertész e Brassaï (questi ultimi, ungheresi anch'essi); di lì a poco adotterà lo pseudonimo con il quale, in un brevissimo giro d'anni, sarà conosciuto in tutto il mondo in veste di impareggiabile "fotografo di guerra".
«Se la tua non è una buona foto, significa che non ti sei avvicinato abbastanza», recita uno dei suoi più conosciuti aforismi, estremo e lapidario come di consueto, che ben introduce alle caratteristiche essenziali dei suoi scatti e della sua personalità: un fare fotografia, il suo, che si insinua coraggiosamente (incoscientemente?) nelle fibre più profonde dei maggiori conflitti mondiali, al fine di carpirne immagini il più possibile "vive", drammatiche e brucianti, dinamiche fino a quel suo ricorrente "fuori fuoco" motivato dalla necessità di danzare a tempo con la Storia nel momento stesso in cui essa è intenta a mostrarsi per la prima volta al mondo. Dalla guerra civile spagnola del '36 allo sbarco in Normandia del '44 (celebri le poche immagini superstiti del D-Day, scattate immerso nell'acqua al fianco dei soldati, con la sua Contax tenuta alta sopra la testa), Robert Capa non osserva mai in disparte, ma vive l'azione in prima persona, forte di un impegno morale prima che professionale, comunicandocene con brusca immediatezza ogni spasimo, ansia o pericolo imminente. Ne risulta un corpus fotografico che, dubbi di autenticità a parte, costituisce un patrimonio di immagini-simbolo dall'incredibile incisività ed efficacia, che vanno ben al di là della documentazione dei singoli conflitti per farsi testimoni del caos illogico e travolgente che il concetto stesso di guerra porta con sé, ovunque e in ogni tempo, senza eccezioni né tantomeno plausibili scusanti.
Imprescindibile, per approfondire il "mito Capa", la lettura dell'autobiografia "Leggermente fuori fuoco" (edita da Contrasto e corredata da un'ottantina di foto), in cui Capa ci trascina, col suo stile accattivante ed appassionato, nel vivo della sua "avventura" di fotoreporter, compilando un diario-romanzo della sua partecipazione ai cinque più terribili conflitti mondiali fatto di personaggi intensi, viaggi incessanti, drammi, colpi di scena e peripezie di ogni sorta, e in cui l'umanità si impone sempre e comunque - nonostante il contesto fuorviante - come valore essenziale ed ineludibile. Due i repertori d'immagini da consigliare: la piccola raccolta di sessanta foto edita da Contrasto nell'economica e ben curata collana Fotonote, e la più ampia ed esaustiva "Robert Capa. La collezione completa" (edita da Phaidon, curata dal fratello di Capa, anch'esso fotografo, e dal suo biografo ufficiale Whelan), che racchiude oltre 900 scatti accompagnati da commenti e didascalie informative. Sul sito dell'Agenzia Magnum Photos (dalla Home: sezione 'Photographers', poi 'Capa, Robert' dal lungo elenco che appare) è consultabile un portfolio di cinquanta tra le più note fotografie di Capa (anche se maltrattate dalla bassa risoluzione e dai tanti - troppi! - copyright in filigrana...). Segnaliamo infine, a chi non abbia problemi con l'inglese, un'opera meno nota eppure così importante in quanto documento storico, finora mai tradotta in italiano: si tratta di "A Russian Journal" (Penguin Books), a metà tra diario di viaggio e reportage, a firma dello scrittore americano John Steinbeck e illustrato da fotografie di Capa, risultato delle loro peregrinazioni tra la gente e i luoghi dell'Unione Sovietica durante la Guerra Fredda come inviati del New York Herald Tribune nel 1948.
S.E.