MOSTRA WERNER BISCHOF
Nora Dal Monte, maggio 2007

Visita alla mostra allestita a Reggio Emilia (Palazzo Magnani): circa 100 immagini si propongono di riassumere l'opera di uno degli indiscussi maestri del reportage in bianco e nero. Approfondiamo i punti salienti del suo lavoro a partire dalle suggestioni forniteci dalle foto esposte.

Delicate conchiglie spiraliformi galleggiano in una pura e immateriale limpidezza: nient'altro che forme, mute, sistemate in una composizione rigorosa, così da farne emergere l'essenza estetica, astratta. Sono immagini come questa a catturare per prime la nostra attenzione all'inizio del percorso espositivo: still-life impeccabilmente allestite in studio, giocate intorno ad un solido senso per l'armonia compositiva e ad un'attenzione estrema per gli effetti di luce, in una sinfonia di reticoli d'ombra, opacità e trasparenze. Una fotografia contemplativa, dunque, statica e rarefatta per definizione, creata 'ad arte' da un uomo che, non a caso, anche nel bel mezzo di un conflitto o di una carestia non cesserà mai di dirsi artista.

Nato a Zurigo nel 1916, Werner Bischof, spinto dall'ambizione - poi ridimensionata - di diventare pittore, compie i suoi studi presso la Scuola di Arti Applicate della sua città natale, gravitando nell'orbita formalmente rigorosa del Bauhaus; un'impostazione, questa, che si coglie chiaramente nei suoi lavori fino alle soglie del 1945, anno in cui le crepe apertesi nelle mura del mondo per lo sconquasso della Seconda guerra mondiale si riflettono, metaforicamente, anche sulla superficie patinata delle sue immagini, incrinando e mettendo inesorabilmente in discussione il distacco dalla Storia entro cui parevano esser confinate. La sofferenza ha colmato la misura, al di là dei confini neutrali della sua Svizzera; parla con voce troppo intensa per non sentire il bisogno di provare a raccontarla, a tradurla: è allora che Bischof, spinto da questa necessità essenzialmente umana, esce nel mondo, determinato a guardarlo, d'ora in poi, dritto negli occhi; mosso da una solidale etica umanitaria, si mette in viaggio verso la Germania, la Francia, l'Olanda, per raggiungere negli anni successivi l'Italia, la Grecia, i paesi dell'Europa dell'Est... I semi della sua successiva carriera di fotoreporter sono tutti come rappresi nel piccolo rettangolo di una foto, scattata in un campo profughi ticinese nel 1945, che ritrare un bambino italiano intento a sfamarsi: una delle prime immagini di una serie lunga quanto tutta la sua vita, improvvisamente interrotta per un incidente sulla Cordigliera delle Ande, nel 1954.

Fin dai primi scatti di questa sua nuova e definitiva identità fotografica, dedicati alla minuziosa e partecipe rappresentazione di un'Europa dilaniata tra speranza e macerie, si colgono chiaramente i caratteri che faranno di Bischof uno dei maggiori esponenti del reportage in bianco e nero (divenuto membro dell'Agenzia Magnum nel 1949). Dal punto di vista formale, emerge la persistenza di un'attenzione particolare alla composizione, retaggio ineludibile del suo nascere fotografo da studio: il punto di vista attentamente ponderato, l'uso insistito del controluce, la ricerca costante sulle capacità espressive proprie dei contrasti chiaroscurali... sono tutti elementi che contribuiscono a far sì che quasi ogni immagine, per quanto colta al volo e magari anche vistosamente 'pendente', trasmetta un senso di armonia interna, un equilibrio delle parti scandito con discrezione. Siamo in piena modalità istantanea, certo, ma pare essere un'istantaneità più meditata di altre, guidata da un subitaneo istinto estetico che riesce a manifestarsi e ad imprimere di sé l'immagine nel brevissimo lasso di tempo di un click, senza tuttavia smorzare eccessivamente il 'calore' e l'onesta tensione emotiva dell'insieme.

Bischof non mira a cogliere in flagrante il sensazionale, ma lo aspetta al varco, pronto a sorprenderlo in quell'attimo in cui esso si rapprende, sedimentandosi negli sguardi e nei gesti degli esseri umani (peculiarità, questa, comune a gran parte della cosiddetta 'fotografia umanista'). Non foto di eventi, dunque, ma di persone. Di volti e storie situati alla periferia dei fatti. Di singole dignità, messe a dura prova ma non per questo affossate, non per questo eludibili. Lo sguardo di Bischof pare dunque rispondere a questo imperativo: raccontare, non documentare. Ed è un racconto fortemente empatico, che nasce dalla capacità del fotografo di percepire i tormenti altrui sulla propria pelle, restandone fatalmente preda (alcuni passi del diario di Bischof testimoniano questa sua dolente, a suo modo "scomoda" attitudine), per poi cristallizzarli in immagini colme di una paradossale, quasi inopportuna bellezza: "Il mio interesse è scoprire quanta bellezza umana si può trovare anche nella più profonda sofferenza. La ricerca della bellezza è il mio principale motore", ebbe a scrivere. Ed è soprattutto in forza di questi motivi che Bischof si batté lungo tutta la sua carriera affinché le sue fotografie non fossero considerate creazioni al servizio della stampa, dell'informazione, o peggio ancora della propaganda politica: una posizione forse contraddittoria per un fotoreporter, o quantomeno anomala.

Sono un centinaio le fotografie esposte a Palazzo Magnani: mai brutali, come si sarà già intuito. La sofferenza risulta suggerita, più o meno palesemente, ma non è quasi mai abbandonata nuda sulla scena: sono rari i casi in cui non abbia almeno un velo, a dissimulare la sua parte considerata più "oscena" e sconveniente. Il viaggio comincia dall'Europa, dove ad ogni rudere fa da contrappeso almeno un elemento di speranza (di lirismo?), per quanto esiguo; qui - come nell'intera produzione di Bischof - sono i bambini, nella maggior parte dei casi, ad essere chiamati ad assolvere questo compito di autenticità, di possibile rinascita: bambini che giocano, persi in un girotondo nel bel mezzo del nulla, o che corrono tra le pareti di una chiesa violata dai bombardamenti; immagini, queste, che hanno un che di surreale, di incantato. Passando per il Perù, in cui Bischof torna a farsi tentare dall'astrazione delle forme pure del tempio di Machu Picchu (e per alcune immagini a colori che, ad esser sinceri, paiono aver perso gran parte del fascino e dell'intensità che contraddistinguono quelle in bianco e nero), si arriva ai due reportage certamente più celebri, probabilmente più intensi e suggestivi: sull'India (commissionato dalla Magnum nel 1951-'52) e sul Giappone. Nel primo, è emblematica l'immagine di tre donne che, in vesti tradizionali e col loro bagaglio in bilico sulla testa, camminano in fila indiana su uno sfondo di ciminiere: una foto di forte impatto (anche se, a ben vedere, un po' troppo didascalica), che esemplifica quella costante attenzione riservata da Bischof all'indagine dei contrasti stridenti e problematici tra tradizione e progresso, spiritualità e materialismo, povertà e industrializzazione; il "velo estetico" di cui sopra sembra però non bastare più, di fronte alla sfrontatezza dilaniante di fame e carestia, e immagini come Gente sfinita dalla fame per le strade di Patna "pungono" e ci strattonano più di altre. Ma è in Giappone che l'anima fondamentalmente "pittorica" del fotografo riemerge con impeto, richiamata alla luce dalla delicata armonia zen che tutto trasfigura: non più sguardi persi nel vuoto e membra emaciate, dunque, ma candidi monaci shintoisti vaporosi come nuvole, pennellate fitte e mansuete di neve buona, e lunghi nastri di seta che, appesi ad asciugare, solleticano il cielo.

Un fotoreporter "esteta", dunque? Ancora troppo incline a lasciarsi sedurre dai rigori della forma, troppo intento a cercarla in ogni dove, per dirsi coerentemente tale? O, ancora, qualcuno potrebbe obiettare che andare a caccia, in maniera così programmatica, di bellezza nelle disperazioni altrui è anch'esso una sorta di "sciacallaggio", tanto quanto andare a caccia di sangue, di bruttezze; ma si finirebbe poi per sconfinare in territori impervi, che trascendono l'opera del fotografo singolo e difficilmente conducono a risposte certe. Meglio, forse, lasciar parlare le immagini. Perché alla fin fine, si sa, tutto dipende - per dirla con Eugene Smith - esclusivamente da chi guarda.

Nora Dal Monte © 05/2007
Riproduzione Riservata

La mostra è accompagnata dall'uscita del volume Werner Bischof. Immagini, Federico Motta Editore (464 pagg., 80 foto a colori e 350 in bicromia, 24x26,7cm, cartonato con sovraccoperta - 65 euro)

Ben oltre la documentazione delle foto esposte in mostra, il volume raccoglie un'ampia selezione dei lavori più significativi di Bischof, per un totale di 430 immagini stampate a tutta pagina: da quelle in bianco e nero scattate in India, Giappone, Corea, Cile e Perù, ad alcuni dei rari scatti a colori, prodotti in un'epoca in cui i materiali e la tecnica del colore erano da poco entrati sul mercato. Curata da Marco Bischof, Simon Maurer e Peter Zimmermann, è la più ampia ed autorevole monografia su Bischof uscita fino ad oggi. Ordinabile su IBS