GIOVANNI BELARDINELLI
Angela Allegria, ottobre 2009

Le interviste di Nadir Magazine.

Sensibile ed acuto, riservato ma allegro, Giovanni Belardinelli, in arte Giobel, cattura la realtà mutevole immortalandola nei suoi scatti che esprimono il suo modo di essere, di guardare al reale, di dar vita alle immagini che crea nella propria mente e ricerca nella vita.
Parola d’ordine “divertimento”, un passione vissuta con la consapevolezza della sperimentazione, dell’allenamento continuo, non dimenticando la bellezza e la curiosità che lo hanno spinto ad intraprendere la strada della fotografia.
Capace di migliorarsi sempre, Giobel ci spiega il suo concetto di fotografia.

D: Cosa significa per te fotografare?
R: Per me fotografare vuol dire proiettarmi all’esterno ed esprimermi su di un altro piano di realtà: intraprendere un gioco fantastico ed intrigante dai risultati non sempre prevedibili. Fotografo mettendo in campo, di volta in volta, gradi ed ambiti differenti di sensibilità che entrano in un rapporto biunivoco col progetto fotografico da intraprendere od in corso di realizzazione.
Ad esempio, nei miei lavori di tipo reportagistico, cerco di rendere il reale nel modo più fedele possibile cercando di coglierne, nella inquadratura, gli aspetti maggiormente significativi dal punto di vista documentario, ma anche da un punto di vista puramente emotivo.
Prediligo comunque lo spaziare in modo libero e senza schemi né temi precostituiti, finchè una qualche fascinazione segna l’inizio di un percorso o di un’ispirazione più precisi.
A volte si tratta di una da una semplice curiosità che ritengo meritevole di approfondimento, e ciò vale anche per i lavori di altri bravi fotografi: con loro mi confronto, scopro nuove possibilità e stimoli. Tutto ciò costituisce un alimento per la passione che cerco di esprimere con la fotografia.

D: Come è nata la passione per la fotografia?
R:  È nata negli anni 70, dal contatto con un amico fotografo professionista il quale per la prima volta mi mostrò i suoi lavori in camera oscura. A quel tempo lavorava per il giornale locale di Ancona per il quale doveva correre improvvisamente, anche in piena notte, sui luoghi della cronaca, per documentare l’evento con scatti rapidi e “taglienti”. Io lo accompagnavo con piacere in queste sue uscite e senza avvedermene imparavo da lui la destrezza e la velocità che quell’aspetto del suo mestiere richiedeva.
In seguito, cominciai a fargli anche da assistente durante i servizi matrimoniali, avendo occasione di notare che anche in quelle circostanze, di per sé stereotipate, era possibile una qualche spendita di creatività. Quelli furono per me i primi passi nel mondo della fotografia.
Successivamente, appresi che nel club subacqueo di Ancona, al quale ero iscritto, c’erano già due o tre soci che si dedicavano alla fotografia subacquea. Così, sulla loro scia, coniugai il fascino delle immersioni alla possibilità di fotografare. Un’esperienza davvero meravigliosa. Tuttavia la qualità delle immagini era ancora piuttosto bassa, perché si fotografava in maniera empirica, senza alcuno studio e con attrezzature rudimentali.

D: Quali maestri ti hanno influenzato? A chi ti ispiri e perché?
R: Non ritengo che i miei paesaggi abbiano avuto percettibili influenze da parte di altri. Durante la personale “Il Sentiero dei Sogni” alcuni visitatori mi chiedevano se mi fossi ispirato ad alcuni altri autori o pittori;  qualcuno mi accennò che in America Dennis Stock aveva fatto in passato qualcosa di simile.
Indubbiamente nel tempo sono state realizzate migliaia di ottime immagini fotografiche con tecniche di sovraimpressione come quelle da me usate ed è quasi inevitabile trovare delle similitudini, ma simili non significa uguali, perchè ogni buon autore ha comunque una sua impronta personale ed ogni suo lavoro diventa quindi “unico”.
Non credo che oggi nessuno possa reclamare per sé una “originalità assoluta”, siamo comunque tutti debitori ai miliardi di immagini che hanno preceduto le nostre. Credo però che ognuno di noi, con grande buona fede ed un pizzico di creatività, possa comunque porgere agli altri opere godibili frutto di una spendita di creatività e di passione.
Attualmente sto lavorando sul genere Street. Una esperienza per me completamente nuova ed entusiasmante. Prima di gettarmi a corpo morto nel genere ho cercato di documentarmi studiando i lavori dei grandi fotografi e riconoscendomi infine in Robert Doisneau e Cartier-Bresson come quelli più vicini al mio modo di sentire lo Street, interpretato con il sentimento e l’emozione tipici di noi mediterranei e poco presenti negli autori americani che al contrario vedo orientati su accostamenti di immagini forse più reali, ma spesso tremendamente “glaciali”.
Tra gli Italiani, invece, sono affascinato dai lavori di Gianni Berengo Gardin che ho avuto il piacere di conoscere personalmente e trovo molto vicino al mio modo di percepire.

D: Come scegli i soggetti ed i luoghi delle tue opere?
R: Nello Street, semplicemente, me ne vado per strada come tutti e fotografo quel che mi colpisce. Questo come pratica quotidiana.
Per quanto riguarda altri progetti di lavoro, a volte si compongono nella mia mente delle immagini che spesso originano da un sogno o da divagazioni fantastiche. Cerco poi di trasformare questo materiale impalpabile in un progetto di immagine, un vero e proprio layout fotografico mentale che poi cerco di realizzare con i materiali del reale. Tutto questo, ad esempio, è alla base delle foto oniriche de Il sentiero dei Sogni.
Altre volte, invece, subisco la fascinazione di atmosfere particolari che mi capita di percepire in luoghi insoliti, particolari. In questi casi cerco di conservare nella mia mente quanto percepito e progetto degli scatti per poterlo comunicare, intatto, agli altri.

D: Cosa provi a livello emozionale quando trovi un soggetto che ti suggerisce una fotografia particolare?
R: Tanta emozione e tanta apprensione.
Di colpo mi rendo conto che mi trovo innanzi ad una situazione unica che magari cercavo da tempo, ma proprio la consapevolezza che si tratta di un momento non ripetibile e che in un attimo lo si possa perdere rischia di trasformarsi in panico e che quindi proprio la matrice emozionale che ti spinge a fotografare ti induca errori fatali proprio per “quella” foto.
Ora, grazie all’esperienza accumulata, so gestire meglio l’emozione, ma non sempre la padronanza della situazione è quella che vorrei. Solo dopo scatto, e la consapevolezza di averlo correttamente eseguito, trovo serenità e gratificazione.
Il divertimento comunque è il cardine della mia idea di fotografia, che vivo con gioia e leggerezza. Ritengo che solo così si riesca ad “ascoltarsi” ed a produrre immagini “vere” e non meri esercizi estetici prodotti tecnologicamente.

D: Esiste la casualità nella fotografia?
R: Ritengo di sì. Anche nel più rigoroso metodo scientifico il caso gioca un suo ruolo. Dal canto mio mi sforzo di gestire in positivo gli inevitabili elementi di casualità. Dalla casualità si può anche imparare molto.
L’occhio, talvolta, è colpito da un qualcosa che ti spinge a realizzare lo scatto, ma solo dopo, quando analizzo l’immagine sviluppata, comincio a cogliere altri elementi e significati “casuali” che a volte sono anche più interessanti di quanto di “voluto” si era pensato di inserire nell’immagine. È in questo senso che attribuisco alla casualità una valenza quasi didattica.

D: Nelle tue opere segui sia il bianco e nero sia il colore. Come è possibile conciliare le due diverse visioni?
R: Si tratta semplicemente di vedere le stesse cose con uno sguardo diverso.
Il colore è sinonimo della realtà, in quanto i nostri occhi vedono a colori quindi per questo motivo la foto a colori è comunque più aderente al reale e con difficoltà lo trascende.
Viceversa, nel bianco e nero, la foto che potrebbe sembrare più “povera” si carica di forza simbolica e metaforica che oltrepassando gli schemi mentali che ci sono comuni interferisce direttamente con strati di coscienza più profondi. È questo, penso, che conferisce alle foto in B/N il loro fascino particolare.
Lungi da me l’idea di esprimere una preferenza per l’una o l’altra scelta espressiva. Di volta in volta adotto quella che mi sembra più  consona al progetto cui sto lavorando.
Ci sono immagini che hanno bisogno del colore per esprimersi pienamente, lo stesso vale per le immagini in BN.

D: Quale è la parola chiave per definire la tua arte?
R: Il gioco continuo della ricerca, senza nessuna sfida o traguardo particolare da raggiungere.
Smetterò di fotografare quando non mi divertirò più.

D: C’è uno scatto mancato, una immagine che hai in mente e non hai ancora potuto realizzare?
R: Sono tantissime le foto che ho in mente, partorite dalla mia fantasia e non ancora realizzate; devo solo attendere l’occasione giusta per realizzarle e quando ci riuscirò sarà come una piccola sfida vinta con me stesso.

Angela Allegria © 10/2009
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Il sito dell'Autore:
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