Del perché a mia zia non piace il bianco e nero e del perché continua a piacere a tutti.
Le foto in bianco e nero hanno ripreso a piacerci, o forse non hanno mai smesso. In realtà, piacciono poco a mia zia, che ogni volta che ne vede una pensa ai tempi in cui non erano ancora arrivati i colori e per questo, dice, mi ricordano di quando si era poveri e poco moderni e il mondo era difficile. Così chiede “ma perché in bianco e nero?”, come se non vedesse oggi alcuna ragione sufficiente ad usarlo. E allora quando capita le si risponde, tranquillizzandola, che è un bianco e nero facile: fa tutto il telefono, zia, e il più delle volte la foto originale è stata fatta a colori, quindi nessuna paura.
Dicevamo, dunque, che il bianco e nero ha ricominciato a piacerci, specie ora che vanno tanto di moda le nostalgie retrò e, in un baleno, possiamo tutti illuderci di poter raggiungere grandi risultati d’atmosfera grazie a quel magico set di filtri, con cui passiamo il tempo fra le app del nostro smartphone.
Ogni tanto, però, proprio per questo non sarebbe poi così male ricordare che scattare in bianco e nero è cosa tutt’altro che semplice. Per dirla in breve, richiede una certa tecnica, e no, non è sufficiente una conversione automatica per raggiungere dei risultati apprezzabili.
Ci sono infatti – perché per fortuna ancora esistono – alcuni fotografi, guarda caso estimatori, amanti e/o praticanti dell’analogico, che sono in grado di usare il bianco e nero con una tale intensità che l’aspetto retrò, quello tanto di moda, è solo uno dei tanti effetti che riescono a suscitare.
C’è per esempio una fotografa, di nome Daniela Neri, che mostra un talento davvero invidiabile. Vedere, per credere, è tutto nel suo progetto Go to Hebron, anno 2010, il cui titolo ricalca il j’accuse lanciato nel 2009 da Ori Nir, membro dell’organizzazione Americans for Peace Now, per denunciare lo stato in cui versa la più grande città della Cisgiordania, in seguito alle diverse vicende politiche, che dai Sessanta a oggi, le sono costate frammentazione, isolamento e strazi che lo spazio urbano riflette in modo tanto immediato, quanto impassibile.
È chiaro che qui non si parla già più di attinenze con l’atmosfera retrò, tanto di moda, a cui si alludeva solo qualche riga fa. Qui si è ormai dentro a un altro genere di bianco e nero. Quello dello stato d’assedio, della povertà, della guerra che è passata e di quella che ancora esiste sotto molteplici forme. In sintesi, quel genere di bianco e nero per cui mia zia ancora e sempre dirà: smettetela di scattare in bianco e nero.
Andrebbe allora specificato che usare il bianco e nero per ritrarre luoghi e vite castigati da sofferenza, frontiere, muri e recinzioni, è senz’altro più difficile che in qualunque altra circostanza. L’espediente sembrerebbe, ai più ingenui, semplice e a portata di mano e invece, invece ci vuole una grande sensibilità per raccontare, in modo non banale, cose come la quotidianità dell’infanzia traumatizzata e traumatizzante, passando per un’immagine in cui la luce cade sulla testa dei bambini attraverso il filtro e le ombre delle reti metalliche. E poi dire con facce allegre e con facce tristi come dev’essere il quotidiano in luoghi in cui tutto sembra friabile e precario. Le facce di gente la cui vita, insomma, è quella di chi non avverte mai di dormire al sicuro.
Se poi questa sensibilità va di pari passo con il gusto per un certo genere di inquadrature, per esempio la poetica che sta intorno al taglio quadrato, dove la vignettatura a cui siamo ormai assuefati è funzionale a centrare il soggetto e vedendo le foto bypassiamo però l’ultima delle nostre app perché ci sovviene, prima ancora, una vecchia Holga, allora siamo davvero di fronte a quel che si dice capacità.
Perché, attenzione, Daniela Neri dispone di questo talento indipendentemente dal bianco e nero, che mostra di saper usare con una maestria non comune. Un esempio? Le foto a colori contenute nel suo progetto Mothers from Bhopal, attraverso il quale racconta una delle peggiori, e purtroppo mai fin troppo ricordate, catastrofi della storia, vale a dire la fuga di gas che colpì la fabbrica americana di pesticidi, con sede a Bhopal, in India, che oltre ad aver causato la morte di decine di migliaia di persone, continua a generare effetti inquinanti disastrosi oltre a generazioni di malformazioni e malattie.
Ebbene, i soggetti ritratti in quelle mostruosità, ancora senza risarcimento, colpiscono non per i tratti deformi ma per l’eleganza e la dignità con cui appaiono in quello che è il loro vivere quotidiano. C’è allora un modo che rifugge il sensazionalismo, i facili e morbosi appetiti che catturano il diverso solo per suscitare un frammento di compassione che un attimo dopo, si sa, non esisterà già più. C’è un modo, e sono in pochi a mostrare di conoscerlo, che è quello del reportage ravvicinato eppure discreto, che conosce il torbido del mosso, dello sfocato, delle imperfezioni, così come l’urlo della precisione che può essere tanto bella quanto agghiacciante. C’è il modo di chi, con in mano una macchina fotografica, non trascura per un solo istante che quelli ripresi di fronte sono occhi, occhi veri, in cui risuona l’eco delle vite che incarnano, e per questo riesce a ritrarli così bene da farne sentire il respiro.
Vedendo quelle foto, non si può non pensare a quanto sia rincuorante che in un mondo in cui il facile accesso al click ci ha convinti di essere ormai tutti fotografi e - peggio ancora - che tutto sia ormai degno di essere fotografato, ci sia chi riesce a far passare nello spazio di uno scatto tutta la prepotenza delle storie collettive che entrano nelle storie personali. C’è, infatti, un modo ed è per pochi, che è quello di riuscire a mettere dentro a un’immagine - che sia a colori o in bianco e nero, fa poco differenza – l’arte di saper raccontare.
Per tutti gli altri, diciamolo alla zia, così si tranquillizza, non rimane che l’illusione dei filtri.
Maria Letizia Mereu © 09/2016
Riproduzione Riservata
Molte altre foto di Daniela Neri, informazioni e contatti, nel suo sito www.danielaneri.eu