Giugno 1992. Non ho ancora vent'anni, ma sono già stanco delle vacanze tutte "spiaggia & discoteca" di gran parte dei miei coetanei.
Ho voglia di fare qualcosa di diverso, di utile. Anni prima, nel 1987, una ragazzina che mi piaceva mi aveva fermato, nei corridoi del liceo, chiedendomi: "Ciao! Ti vuoi iscrivere alla figgicì?" FIGC, penso io, Federazione Italiana Gioco Calcio. Il calcio mi interessava poco, ero di quelli che finiva sempre in porta, ma la ragazzina molto: divenne infatti la mia prima fidanzatina. Ma non si sta parlando di questo. Parto, e trascorro un mese nel villaggio di Pakrac, in Croazia (per la precisione in Slavonia); o meglio, in quel che ne resta. Dall’Italia siamo in tre: oltre a me ci sono Claudio (romano) e Sergio, un torinese. Sembra una barzelletta (“Ci sono un napoletano, un romano ed un torinese…”), se non fosse che il più vivace e spiritoso è proprio Sergio, a fronte della mia tradizionale compassatezza. E’ un fitopatologo, cordiale e simpatico, che si diverte anche ad ironizzare sul suo modesto inglese. Lynnette, una simpaticissima ragazza del South Dakota, è spesso oggetto delle sue attenzioni scherzose: il “Lynnette, I am erected” che gli udii profferire una volta non lascerà mai la mia memoria. Lynnette, dal canto suo, ironizzava sulla “guida pratica alla lingua croata” che aveva comprato negli USA subito prima di partire; era zeppa di frasi pronte all’uso del tipo”Mi piace molto come ti sei truccata oggi”, del tutto inutili, per non dire surreali, nel contesto post-bellico in cui ci trovavamo. Anni dopo, tramite Internet, ho ritrovato tracce di Lynnette, ancora impegnata nel volontariato, stavolta in Medio Oriente. Ma non si sta parlando di questo.
Dalle tante chiacchierate fatte con Sergio emerge che, nel tempo libero, va spesso a fare escursioni in montagna. "Mai fatte?", mi chiede. Ed io, che come molti napoletani potevo al massimo vantare qualche sciata (si fa per dire: come sciatore valevo ancor meno che come calciatore) sull'Appennino abruzzese, rispondo che no, non ne ho mai fatte, ma mi piacerebbe, perché la montagna esercita su di me un fascino particolare, ancor più che il mare - con il quale del resto non ho mai avuto un gran feeling. Il mare mi piace come i leopardi: ammirandolo da lontano. "Quando saremo tornati in Italia, se hai modo, puoi venirmi a trovare, così provi", mi dice Sergio. Lo prendo in parola: terminata l'esperienza croata (splendida, manco a dirlo; ma non si sta parlando di questo), già a settembre lo chiamo e mi organizzo: "Sali il prossimo fine settimana, ti porto sul Monviso", mi fa. "E' bello e non è difficile, non ti preoccupare: non dovrai scalare, solo camminare".
Prendo il treno un giovedì sera ed il venerdì mattina arrivo a casa sua; quel giorno lui lavora, io dopo un breve giro in una città per me nuova torno a casa e scopro accanto allo stereo di Sergio una sfilza di audiocassette di un certo Fabrizio De André. Inizio ad ascoltarle e non smetto che all'ora di cena, quando Sergio rientra a casa (sua); da allora, De André è sempre con me, anche quando non lo ascolto. Ma non stiamo parlando di questo.
I due giorni seguenti, sabato e domenica, li trascorriamo per l'appunto sul Monviso. Sono passati tanti anni e non ho memoria dei percorsi seguiti né del punto di partenza. Ricordo però la sorgente del Po, e di aver bevuto un sorso non senza un po’ di divertita emozione. Intendiamoci, come la FGCI non mi aveva reso “rosso”, così l’acqua del Po non mi rese “verde”; del resto ancora non era tempo di ampolle, riti celtici ed altre amenità. Ma non stiamo parlando di questo.
Eravamo una mezza dozzina di persone. Poco prima di partire avevo comprato, a Napoli, un paio di scarponi da montagna. Andavano bene per la nostra escursione ma non li avevo allacciati come avrei dovuto; la guida che era con noi, un uomo alto e brizzolato, smilzo e sulla cinquantina, parlando in un dialetto a me sconosciuto mi spiega come ovviare, allacciandomene lui uno ed assistendomi nell'allaccio dell'altro. E' mattino presto, iniziamo a salire e per molte ore non facciamo altro che camminare in mezzo a rocce e paesaggi più o meno brulli. Col tempo iniziano a farsi sentire il freddo (poco), la stanchezza (abbastanza), la fame (tanta). Arriva la pausa pranzo: pane e salsiccia. Cruda! Faccio finta di nulla e, non senza sforzo, mangio la mia parte. Qualche minuto di riposo, si fanno due chiacchiere. "Già stato in montagna qualche volta?", mi chiede qualcuno. "No", rispondo. Poi aggiungo, come a voler rimediare: “Solo alcune escursioni sul Vesuvio”; ma non è vero, il Vesuvio lo vedevo solo dal balcone del salotto, e d’inverno mia madre mi chiamava ogni tanto ad affacciarmi per contemplarne la sommità innevata. Riprendiamo la marcia. La fotografia non è ancora entrata nella mia vita, ho con me solo una modesta compatta con cui scatto qualche foto ricordo qua e là ai paesaggi, scenari per me del tutto nuovi e affascinanti. Arriviamo a fine giornata, io sono stanco ma felice e piacevolmente emozionato da quell'esperienza nuova. Trascorriamo la notte al Rifugio Quintino Sella (quota 2640). Quando Sergio mi sveglia sono le quattro del mattino. Una frugale colazione e poi si riprende a salire. Alcuni tratti sono un po' stretti, si cammina senza problemi ma per sicurezza ci leghiamo gli uni con gli altri. Il sole sta iniziando a sorgere, chi mi precede si ferma per scattare una foto, e decido di imitarlo. Rimetto la compatta in tasca e, avvolto nelle prime luci dell'alba, penso con un sorriso a cosa direbbero molti miei amici se mi vedessero in quel momento: "Ma chi te lo fa fare?". Guardo il cielo, i compagni di cordata, la montagna che mi preme sulla schiena, e persino io, napoletano novizio che più novizio non si può, sento di avere la risposta.
Agostino Maiello © 11/2011
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