Ancora sulle domande e i commenti che affliggono chi fotografa in grande formato.
Nell'ormai lontano mese di luglio del 2001 pubblicammo un articolo sulle domande (curiose, stupide o assurde) rivolte dai passanti al fotografo che usa il grande formato. Per gioco, nell'articolo venivano suggerite diverse risposte possibili.Gli anni passano ma la gente, per sua natura, non rinuncia a star zitta, per cui abbiamo raccolto ulteriori "perle" che qui proponiamo.
Le risposte, questa volta, sono autentiche: ai miei workshop partecipano persone brillanti e spiritose, e non manca mai chi riesce a ribattere in modo adeguato.
Si potrebbe anche stilare una grossolana statistica dei commenti più gettonati:
Usano macchine vecchie - 30%
Sono professionisti - 10%
Girano un film - 5%
Fanno le cartoline - 20%
Fanno la reclam - 25%
Sono geometri - 5%
Altro - 5%
Tra le più gustose:
Parco di Nervi (Genova).
"Siete geometri? State misurando?"
"Sì signora, vede la scogliera qui sotto? Qui verrà un parcheggio: tutto cemento, mille macchine."
La signora scruta alternativamente il suo interlocutore e la scogliera sotto di sé. Poi se ne va scuotendo la testa mentre mormora: "Eeeh, ma che brutto!"
Stesso luogo.
Il papà mostra al bambino la mia macchina: "Vedi? è una Zenza Bronica".
Mi volto verso il bambino e con tono tranquillo ma assertivo pronuncio semplicemente: "No."
Immediatamente dopo mi rendo conto di avere distrutto, in una frazione di secondo, l'immagine di infallibilità della figura paterna, dando forse inizio ad una precoce quanto devastante crisi adolescenziale. Ho creato un mostro?
Sirmione (lago di Garda).
La solita signora d'età osserva una ShenHao montata sul cavalletto e commenta, rivolta alla vicina: "Ve' mé che l'è vecia!" (per i non padani: guarda quanto è vecchia).
In quel caso non ci fu risposta, sarebbe stata troppo ovvia e per ciò stesso banale.
Ancora Sirmione.
Un signore ci gira intorno a lungo, esplora, intimamente scalpita, vorrebbe dire ma non osa, poi prende il coraggio a due mani e chiede, timido: "Avete la passione della fotografia?"
"No, guardi, ci fa schifo. Siamo qui per farci del male, trascinati da questo fanatico [indicando chi scrive] che si diverte a tormentarci!"
Aosta, chiostro della Collegiata di S. Orso.
Il solito tizio incomincia a ronzarmi intorno. Faccio finta di non vederlo, armeggiando indaffarato con i miei congegni.
"E' una macchina a lastre, vero?"
"Mhm" rispondo, e già questo gli dovrebbe essere chiaro.
"Sa, io un po' ne capisco" insiste, nell'evidente quanto vano tentativo di mettermi a mio agio. Ma questa volta non rispondo neppure.
"Ne ho una così in soffitta", continua. Gli lancio di sfuggita un'occhiata rovente. So già dove vuole andare a parare.
"Eh, sì, era una Kodak seipernove, con l'obiettivo ormai quasi smerigliato. La usava mio nonno. Sull'obiettivo si legge qualcosa come "Grog".
"Goerz" lo correggo, chissà poi perché.
"Ecco! Ecco!" s'illumina il cretino: "Goerz!" Un istante di silenzio. "Anche il suo è un Gr... Goerz?"
"No. E questa non è come la macchina di suo nonno. E' un apparecchio moderno."
"Ah" mormora quasi deluso. "E cosa si può fare con questa macchina?"
"Tutto." E non dico altro.
"Mmm, tutto eh? Ma... ma non c'è niente di elettronico?"
Mi sento come Lupo Alberto quando tenta di indurre alla ragione l'ottuso quanto inflessibile Mosè. Cerco una risposta che lo spiazzi definitivamente e la trovo. Lo guardo dritto negli occhi e - con l'espressione di chi sta per svelare al nemico i piani del missile Cruise - sussurro: "Dipende."
Resta interdetto per qualche secondo. Senza salutarmi gira i tacchi e si allontana borbottando tra sè: "Eh, dipende... già... già... bof... mah... eh già, dipende... boh..."
Fu la mia più grande soddisfazione, quel giorno.
Ru Cortod (Valle d'Ayas).
E' il mese di settembre, i turisti estivi sono tornati in città, il cielo è limpido, l'aria dei duemila metri fresca e frizzante. Ci muoviamo tra boschi e prati, sempre seguendo il corso del Ru, accompagnati dallo sciabordio dell'acqua. Intorno a noi non c'è anima viva, se si eccettua qualche mucca al pascolo nei prati sottostanti. Le creste alla nostra sinistra sono già spruzzate di neve; di fronte a noi, lungo tutto il percorso, l'imponente spettacolo dei ghiacciai perenni.
Troviamo un punto paesaggisticamente interessante e apriamo le zampe dei cavalletti. E contemporaneamente una comitiva di turisti si materializza lì accanto. Io credo che il teletrasporto esista e che solo io - per un complotto il cui motivo mi sfugge - continui ad esserne lasciato all'oscuro. Ovviamente i soliti tre o quattro si avvicinano incuriositi, nell'evidente intento - ché altro non potrebbe essere - di rompere le scatole.
Ma questa volta non mi lascio cogliere impreparato. La miglior difesa è l'attacco, sentenziava il principe di Metternich (e se non fu lui a dirlo, poco importa). Fingendomi intento nel mio lavoro e facendo mostra di non essermi accorto della presenza dei disturbatori, ficco la testa sotto il panno nero. Prevista ed accuratamente calcolata giunge la domanda: "Ugo, ma perché quel tipo infila la testa sotto quel coso?"
Ma questa volta Ugo non fa in tempo a rispondere, perché prima ancora che lui possa capire il senso della domanda io sbuco da sotto il panno nero gridando "Bleaaaaah!" con tanto di lingua fuori.
Nel giro di tre secondi la radura si svuota: uno così dev'essere matto forte ed è meglio non stare da soli con lui a duemila metri.
Il fatto è che non vedo più nemmeno i miei allievi... Ah, no, eccoli lì, rannicchiati a terra che si scompisciano dalle risate.
Ci sono poi le domande - tutt'altro che disinteressate - dell'autorità costituita.
Villa Taranto (lago Maggiore). Stiamo fotografando una fontana quando arriva il direttore del parco. Si informa su cosa stiamo facendo e perché. Evidentemente pensa di farsi lasciare copia delle immagini o di farci pagare qualcosa, nel caso fossimo lì in veste professionale per conto di un committente. Rispondiamo che si tratta di un corso di fotografia, tranquillizzandolo.
Nello sciocchezzaio non possono mancare i soprusi mascherati da regolamenti. Sempre a Sirmione ci mettiamo in coda per visitare e fotografare le cosiddette "grotte di Catullo", in realtà le rovine di una villa romana risalente al primo secolo dopo Cristo. Trattandosi di un sito archeologico molto conosciuto (che è anche attrazione turistica) l'ingresso è a pagamento. Mi avvicino alla cassa per pagare i cinque ingressi. La cassiera sta per staccare i biglietti dal blocchetto quando la signora addetta al controllo si fa avanti. Ci chiede chi siamo e che cosa vogliamo fare. Mi ricorda il gabelliere ossessivo del film Non ci resta che piangere. Rispondo nel solito modo: corso di fotografia, nessun intento commerciale, solo esercizio e foto a livello personale. Mi viene risposto che dobbiamo lasciare i cavalletti alla cassa. Niente da fare, ribatto, con questo tipo di macchine il cavalletto è irrinunciabile. Scopro così che per usare il cavalletto occorre il permesso (scritto) della Soprintendenza. Fantastico! Cercate di capire: se io entro con la reflex per fare (a mano libera) foto commerciali che poi rivendo a caro prezzo a loro va bene, tanto manco se ne accorgono, mentre se uso il cavalletto mi serve il permesso. Cos'è, temono che le punte del Berlebach gli righino i sassi romani? O forse - ipotesi più probabile - quella mattina la solerte impiegata aveva bisogno di gratificarsi affermando la propria autorità?
Non è per fare l'esterofilo (sarebbe fin troppo facile), ma a Martigny, nella sede della fondazione Pierre Gianadda, potete passeggiare nel parco in mezzo alle rovine di un nemeton (tempio) celtico, circondati dalle sculture e dalle opere a cielo aperto di artisti quali Calder e Mirò, tanto per non citarne che due, e i cartelli sparsi ovunque vi avvisano che potete toccare le sculture, che non è vietato passeggiare sul prato, che le rovine del tempio sono liberamente visitabili (e calpestabili), che l'acqua delle fontane è potabile... E se aprite le zampe del cavalletto per fare una foto, in meno di cinque secondi vi piomba addosso un custode, ma per chiedervi se vi serve un qualunque genere di assistenza. Martigny è in Svizzera, una manciata di chilometri dall'Italia.
Per fortuna l'impatto del grandeformatista con il resto dell'umanità non è sempre così stressante. Spesso si incontrano persone seriamente interessate. Solitamente si tratta di giovani che frequentano scuole d'arte o corsi di fotografia, o di gente che ha lavorato in studi fotografici. In questo caso le domande sono pertinenti (ed anche quando non lo sono si risponde volentieri, perché l'interessamento è autentico), il dialogo piacevole, e alla fine diventa normale illustrare come funzionano i movimenti o mostrare l'immagine che si forma sul vetro smerigliato.
Ma si tratta, ahimè, di rare eccezioni o - per dirla con il filosofo Heidegger - di "parole" nel mondo della "chiacchiera".
Chiacchiera di cui, sinceramente, a questo punto faremmo a meno.
Voglio organizzare un workshop in cima all'Ayers Rock. Forse lassù non sale molta gente. E pazienza se l'aborigeno che mi farà da guida domanderà "Uluru m'murrumbu kaliri n'k'à?" (perché fotografi con una macchina vecchia?)
Michele Vacchiano © 7/2004
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