Il committente del fotoamatore è sempre egli stesso. Il dilettante non ha altro motivo per fotografare se non quello di assecondare il proprio intimo bisogno di espressione.
Ma fotografare per se stessi non basta. Certo, si prova una profonda soddisfazione narcisistica nel realizzare una foto perfetta, sia essa organizzata sotto il registro della ricerca estetica pura, della street, della documentazione o dell’astrazione. È una tendenza innata dell’essere umano quella di completare gestalt percettive, organizzando gli elementi dello spazio per giungere a forme armoniche, ancor più gratificante quando esse riescano a coniugarsi con un messaggio, esplicito o alluso che sia. Eppure, senza la dimensione esibizionistica, il piacere di una splendida foto rimane incompleto.
Non vale solo per la fotografia, è una condizione che si ritrova in tutte le espressioni artistiche. Quale musicista si accontenterebbe di suonare sempre da solo? Ore e ore di sacrifici spese alla ricerca della perfezione interpretativa non possono restare segregate all’interno di una dimensione solipsistica e autoreferenziale, ma hanno bisogno del conforto di un pubblico (meglio se pagante, ma questa è una lusinga riservata a pochi). L’arte è comunicazione.
Essere artista significa vedere oltre, varcare la soglia delle convenzioni e del direttamente percepibile per giungere a una diversa piattaforma di senso. Non si tratta di giungere alla Verità (quale?), la dimensione dell’arte come testimonianza o denuncia sembra non incidere così tanto nei processi trasformativi della società. Federico Fellini, per fare l’esempio di un artista geniale e visionario, non pretese mai di mostrarci la luna, si limitò ad evocarne la “voce”, eppure ci ha cambiati profondamente, più di quanto gli artisti “impegnati” del suo tempo abbiano fatto.
L’artista è radar, sestante, tela di ragno, strumento di amplificazione sensoriale, mai oracolo. L’artista propone la sua visione stralunata della vita per indicare nuove possibilità, nel mentre che egli stesso prova a sondarle. Per far questo, necessita di un contatto costante col suo pubblico, fatto di intuizioni, minime sensazioni, sobri riscontri. Persino il like di facebook, nella sua stringata semplicità, può essere importante. A patto che la ricerca esasperata del consenso non ci spinga verso tentazioni di eccezionalità, che ammazzano la fotografia, piuttosto che esaltarla.
Il confronto quotidiano in rete con centinaia di immagini bellissime, spesso spettacolari, ci spinge a competere con noi stessi per emergere dal livello medio sempre più alto, portandoci a strafare. Questa assillante ricerca, sostenuta da un mero desiderio di visibilità, porta anche a migliorarsi, ma dopo poco risulta deleteria, perché conduce a privilegiare l’effetto più che la ricerca, la sensazionalità del singolo scatto più che lo sviluppo di un linguaggio coerente. Che è proprio ciò di cui avremmo bisogno: non belle foto, di cui siamo pieni, ma riconoscibili percorsi di senso; esito raro, che passa attraverso sfumature sottili, e non da reboanti sortilegi estetici.
La luce della luna è un richiamo affascinante, ma pericoloso. Seguirne le lusinghe senza barriere simboliche ci espone al rischio di annegare nel mare vacuo della vanità. Se ricercare il sublime significa mettere in contatto la realtà percepita con una significanza universale, ricercare l’eccezionalità a tutti i costi induce, invece, alla tentazione di “drogare” l’emozione, con un sensazionalismo fine a se stesso, che snatura l’approccio alla fotografia, alterandone il significato.
Un eccesso di visibilità che, come ammoniva Luigi Ghirri, rischia di portare all’insensatezza dello sguardo.
Carlo Riggi © 03/2017
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