Disincantate considerazioni di un fotografo nato e cresciuto con la pellicola di fronte agli effetti collaterali dell'avvento/ricatto del digitale.
Lo so, non dovrei bere alcolici né mangiare dolci, almeno finché il tasso di trigliceridi non sarà calato sotto il livello di guardia, ma la birra trappista che sto sorseggiando profuma di torba e di miele e costituisce un ottimo riempitivo mentre sto aspettando che quaranta giga di roba si trasferiscano dalla pancia del mio computer al disco esterno di backup.
Un noioso ma indispensabile lavoro che fino a due anni fa pensavo non mi avrebbe mai toccato, io fotografo libero e creativo, dedito unicamente alla ripresa e costituzionalmente allergico a tutto ciò che succede dopo, compresa la camera oscura, al punto di affidare i miei negativi al miglior stampatore di cui avessi notizia pur di evitare la noiosa liturgia della postproduzione.
Preferivo di gran lunga utilizzare il mio tempo fra le montagne e i boschi, fotografando a ruota libera, piuttosto che trascorrerlo (sciuparlo, a mio modo di vedere) dentro una camera angusta e buia, fra intrugli chimici e luci soffuse.
Del resto non si può essere esperti in tutto, o sei bravo a fotografare o sei bravo a stampare, di Ansel Adams ce n'era uno, tutti gli altri non possono eccellere in entrambe le cose.
Così vivevo tranquillo e beato, sicuro che - comunque fosse andata - il mio stampatore avrebbe risolto tutti gli eventuali problemi del dopo ripresa.
Programmando i miei corsi di fotografia stavo bene attento a precisare che si trattava di corsi di "ripresa fotografica", dai quali il trattamento del negativo e la stampa erano esclusi. Mi confessavo non sufficientemente esperto in materia e se il corso prevedeva anche questo aspetto non esitavo a chiamare chi fosse più esperto di me in rivelatori, fissatori e carte da stampa.
Nella mia beata ingenuità pensavo che dopo 150 anni di fotografia chimica nulla sarebbe sostanzialmente cambiato, almeno nel corso della mia vita professionale, e che i binari che mi ero costruito mi avrebbero condotto avanti senza grossi scrolloni lungo l'arco della mia esistenza.
Mai avrei immaginato che la postproduzione, dalla quale mi ero sempre tenuto accuratamente lontano, mi sarebbe piombata addosso come un meteorite, costringendomi a sprecare tempo ed energie per imparare cose che sinceramente mi interessano quanto le preferenze alimentari dei tapiri della Papuasia, ma che sono ormai indispensabili per chiunque si voglia dedicare con un minimo di cervello alla fotografia digitale.
Così è, inutile rammaricarsene o abbandonarsi a considerazioni filosofiche, del tipo siamo tutti caduti in una trappola abilmente preparata per scopi di mercato che nulla hanno a che fare con la fotografia vera.
Alla resa dei conti sono tutte chiacchiere inconcludenti, come disquisire per tre ore sull'arbitro che ha dato un rigore che non c'era, ormai è fatta e chi s'è visto s'è visto, meglio parlare di donne che ci si diverte di più (anche se si conclude più o meno lo stesso, cioè nulla).
Qui e adesso (dovrei dire "hic et nunc" ma non voglio tirarmela) la fotografia digitale esiste, si evolve, migliora di giorno in giorno e - soprattutto - è l'unica forma in cui poter spedire immagini a clienti professionali.
Provate a proporre le diapositive agli editori: novanta su cento vi chiedono da che astronave siete sbarcati, nove vi rispondono che sì, accettano diapositive ma di formato superiore al seipersei e uno - uno su cento! - vi risponde che sì, lui lavora con diapositive, perché ha fatto delle prove e ha visto che il digitale non è ancora all'altezza dei suoi standard qualitativi.
Allora siete voi a chiedergli da che astronave è sbarcato.
"La morale de cette histoire", come recita una canzone francese un po' sconcia, di quelle che si intonano nei rifugi alpini dopo una buona cena e una generosa dose di grappa, è che quelli come me, professionalmente maturi (diciamo pure vecchi), e convinti di avere poco da imparare, si trovano proiettati in una realtà dove di fatto hanno tutto da imparare, perché quella macchina del cavolo che hanno tra le mani si comporta in modo decisamente diverso da quelle a cui erano abituati e - quel che è peggio! - una volta scattata la fotografia non si è ancora fatto niente, perché adesso li aspetta il vero lavoro, un lavoro al quale non sono preparati, e per svolgere il quale un ragazzino smanettone impiegherebbe di fatto un decimo del tempo.
Il risultato è che il mercato ha perso delle risorse importanti, perché molti (troppi) fotografi - bravi, decisamente bravi - hanno chiuso bottega, mentre giovani dilettanti di fotografia (ma abili ed esperti utilizzatori di software) sono riusciti ad imporre la loro presenza sul mercato.
Non credo che di per sé questo sia un male.
Anche i dinosauri dovettero adattarsi e diventare uccelli oppure perire, sotto la spinta evolutiva dei mammiferi.
Quello che però ritengo sbagliato è la sottomisione dell'arte alla tecnologia, la necessità cogente (ananke, l'avrebbero definita i filosofi presocratici) di diventare tutti informatici oppure morire, la prepotenza con cui fotografi mediocri (ma esperti di software) riescono a porsi (e imporsi) sul mercato, surclassando professionisti esperti la cui unica colpa è di non aver saputo o voluto adattarsi al ricatto digitale.
A Torino c'è un "professionista" che fa servizi matrimoniali per 450 Euro.
Sapete come fa?
Manda un ragazzino (in nero) al matrimonio, dicendogli "tu vivi col dito sul pulsante di scatto e l'occhio al mirino".
Quello scatta tremila foto, alla vigliacca, come viene viene.
Il "professionista" non le guarda neppure, scarica le schede di memoria su un DVD e lo dà agli sposi.
Punto.
Cinquanta Euro al ragazzino (in nero) e quattrocento di guadagno netto esentasse.
Conosco un fotografo che ha fatto una scelta del tutto diversa.
Dice che il suo è uno stile di vita.
Gira con la Rolleiflex biottica.
Non vende più una foto da tre anni.
Ma si diverte come un pazzo.
Beato lui.
Michele Vacchiano © 01/2007
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