Come diretta conseguenza di quanto espresso, si ha che al cervello giungono molte informazioni dal centro del campo visivo (oltre il 50% da fovea e macula), ma poche dalle aree retiniche più periferiche: mediante le prime "definiamo" l'ambiente, con le seconde vi "interagiamo", essendo la percezione di queste aree integrata dalla memoria, dall'esperienza e dai movimenti dello sguardo, attratto da quanto non completamente noto alla periferia del campo visivo.
Da un punto di vista "fotografico", la retina funziona come un sensore che varia le sue dimensioni (un sensore con funzione zoom!). Le diverse regioni coprono una determinata porzione del campo visivo, che viene espressa in gradi, analoghi degli angoli di campo di un complesso obiettivo-sensore fotografico: in particolare la fovea copre i soli 10° centrali, la macula copre circa 25°, il polo posteriore 60°, la media periferia 90°. La retina dei due occhi copre nell'insieme un angolo di campo di 160° in orizzontale e di 120° in verticale (limitazione anatomica questa, causata dalle arcate zigomatica e sopracciliare).
Osservando questi numeri e confrontando gli angoli di campo delle regioni retiniche e degli obiettivi fotografici, non può non saltare all'occhio (appunto!) la corrispondenza con alcune focali (che per comodità di trattazione riferisco al formato 35 mm). L'angolo di campo coperto dalla focale 35 mm (circa 60°) corrisponde a quello del polo posteriore: si tratta, secondo me, probabilmente dell'immagine più vicina alla percezione generale dell'occhio umano nell'ambiente. Un po' più stretta del precedente è quella del 50 mm (angolo di campo di 45° circa), che corrisponde alla visione dell'area maculare un po' allargata; il motivo per cui il 50 mm è considerato "normale" (per il 35 mm) risiede nella resa prospettica, analoga a quella dell'occhio umano. L'esperimento è di facile esecuzione: ponetevi di fronte ad uno specchio e guardate attraverso il mirino di una reflex - equipaggiata con un obiettivo normale - tenendo l'altro occhio aperto: vi accorgerete, dopo un breve adattamento, che le due immagini verranno fuse alla perfezione (proprio come se provenissero dai due occhi).
La dimostrazione matematica di questo fenomeno fa uso del teorema di Pitagora applicato agli angoli di campo e dell'approssimazione ad un rettangolo della regione maculare (che in realtà è una ellissoide), la cui diagonale viene a misurare 43° (et voilà). La macula copre un angolo di campo di 25-30°, analogo alle focali comprese tra gli 80 e i 100 mm, la fovea copre invece 10°, come un 200 mm.
Le analogie sopra descritte rendono conto, a mio parere, del fatto che immagini scattate con focali comprese tra i 35 e i 100 mm siano percepite con una prospettiva piuttosto normale dal nostro occhio. In un paesaggio ripreso con un 35 mm noi ci sentiamo "immersi", come se vi stessimo passeggiando; una qualunque immagine resa da un 50 mm ci dona gli stessi rapporti dimensionali del nostro apparato visivo; un ritratto scattato con un 90 mm ci avvicina al volto esattamente come fanno i nostri occhi quando l'attenzione viene focalizzata su un'area ristretta.
Un discorso a parte deve essere affrontato per la fovea: di fatto viene utilizzata in quelle attività (lettura o identificazione di un particolare) in cui è richiesta una precisa definizione dei particolari della scena (o dello scritto): si tratta di un utilizzo specifico, sebbene molto comune per noi uomini del terzo millennio (lettura o lavori di fino). Se riferito alla percezione dell'ambiente, esso funziona come un teleobiettivo da 200 mm.
E le altre focali? Di fronte ad un'immagine scattata con un grandangolare ci sentiamo immersi nella scena, e questo senso di presenza è tanto più intenso quanto più il grandangolare è spinto, per divenire ancora più efficace se il formato dell'immagine è quello panoramico. La distorsione, la caduta di luce e la perdita di definizione ai bordi, tipiche delle corte focali, richiamano la perdita di definizione ai margini del campo visivo propria della visione umana.
Un difetto che invece non piace, anzi infastidisce la nostra percezione, è quella relativa alle linee cadenti nelle fotografie di architettura: indipendentemente da come il nostro occhio vede una casa o una chiesa, (di fatto l'immagine grezza registrata dalla retina è caratterizzata da linee cadenti), il nostro cervello provvede a compensare il difetto e a raddrizzare le linee, perché la nostra esperienza (e di conseguenza la nostra memoria, e di qui la percezione corretta) che i muri di una casa o di una chiesa siano diritti in verticale.
Esiste l'eccezione: immagini di architettura caratterizzate da una forte distorsione non sono più ricondotte agli elementi originali, ma ad elementi grafici (linee o figure geometriche), e in quanto tali non sono percepite come erronee.
E i teleobiettivi spinti? L'immagine da essi prodotta, caratterizzata da una ridottissima profondità di campo, è inusuale per l'occhio, capace di offrire al cervello un'immagine tutta a fuoco grazie a movimenti di rifocalizzazione (una scansione per intenderci), ma rende l'occhio umano capace di vedere nitidamente ben oltre i limiti della sua stessa risoluzione spaziale. Come il microscopio o il binocolo, il teleobiettivo è uno strumento in grado di ampliare le nostre capacità visive.
L'immagine rappresenta (sul diagramma utilizzati per i campi visivi secondo Goldmann) gli angoli di campo coperti delle regioni retiniche: in rosso è rappresentata la fovea; in blu la macula; in verde il polo posteriore.
Davide Dassio © 03/2004
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