NOSTALGIA
Carlo Riggi, gennaio 2010

Le note biografiche di molti fotoamatori (comprese le mie) cominciano con un: “Mi piace raccontare la realtà...”. Ma è proprio questo il desiderio che ci muove? La nostra finalità è davvero quella di testimoniare al mondo un evento sconosciuto ai più? E quali eventi, oggigiorno, sono ancora così esclusivi?

C’è qualcosa che non mi convince in questo gran parlare di reportage o di street photography, come si dice oggi. Forse è il caso di guardarci un po’ dentro e fare ordine nel nugolo di “falso sé” che avviluppa i nostri gesti fotografici e il quotidiano pensarci fotografi.
Ci illudiamo di innestarci nel flusso della vita - un evento (le feste di paese), una comunità (i pescatori al lavoro sulle barche), un luogo (una città, un borgo medioevale) - cogliendone una speciale verginità da raccontare ad un pubblico ignaro. Salvo scoprire che quella festa, quella gente, quei luoghi sono stati fotografati miliardi di volte, e miliardi di volte visti da chiunque. A meno di trovarsi in un villaggio sperduto della Nuova Guinea, ma anche là è difficile che non sia passato prima, e con ben altra attrezzatura, un fotografo del National Geographic.

Volendo prendere per buono questo proposito di raccontare una realtà inedita - o anche solo da vertici originali -, che senso ha questa diffusa ostilità per le didascalie e i testi? Perché tutta questa manfrina della foto che parla da sé? Non dovrebbe essere il benvenuto ogni elemento che contribuisca a implementare il nostro racconto e rendere più perspicui i fatti oggetto del nostro reportage? Invece no, e mi convinco ancor più che c’è qualcosa che non torna in questo nostro modo di fare. È come se inseguissimo un mito, una rappresentazione idealizzata, c’è un equivoco di fondo che sarebbe bene provare a demistificare.
Nel mio modo di vedere, lo stimolo fondamentale comune alla stragrande maggioranza dei fotoamatori non è affatto il desiderio di raccontare un evento, ma quasi sempre il desiderio di emulare una configurazione “già vista”. Fotografiamo i pescatori all’opera non già perché ci illudiamo di poter mostrare ancora qualcosa di inedito di quel soggetto, ma nel tentativo di realizzare immagini gratificanti per noi, perché coerenti con un sistema di riferimento estetico strutturato in anni di visione di altre foto dello stesso tipo. Quanto più quella fotografia corrisponderà ad un modello precostituito nella nostra mente tanto più ci sentiremo appagati. Stessa cosa per i reportage di manifestazioni pubbliche, scioperi, cortei, con facce sempre uguali che davvero nulla aggiungono all’immaginario diffuso, ma nei quali cerchiamo forme che soddisfino la nostra urgenza di collezionismo iconografico.

Questo non significa che il nostro fotografare sia sempre meramente un copiare, anche se spesso in effetti lo è. Quel che voglio dire è che la nostra motivazione alla fotografia è costituita il più delle volte da un inconsapevole desiderio di riconfigurare una gestalt, un ordine delle cose. Ordine che deriva dalla nostra esperienza, dalla cultura visiva e da un immaginario intimo profondo costruito a partire da sensazioni e percetti anche molto antichi, fin dai momenti, pre- e peri-natali, in cui vigeva quella condizione di pace primordiale (“Elazione”, secondo la terminologia di Bela Grunberger, o “Nirvana”) che rappresenta il prototipo e il paragone di ogni futura esperienza di benessere e di serenità, il nostro Eden originario.
Fotografare, per quanto atteggiati col cipiglio del reporter di guerra e attrezzati con le mitiche fotocamere della flänerie bressoniana, è mosso innanzitutto dal desiderio di ristabilire un’armonia, un paradiso perduto. Un gesto messo in moto dalla nostalgia, dal tentativo di ricostruire o riparare mondi melanconicamente perduti e ritornarne in possesso. Questo avviene, a maggior ragione, per le foto di denuncia, in situazioni di forte degrado, dove è ancora più evidente il tentativo di ricucire strappi e riportare armonia e bellezza nei luoghi devastati della nostra memoria affettiva.

Se è così (la mia è solo una proposta di pensiero, ovviamente, non una verità rivelata), allora potremo sempre ritrovare qualcosa di noi tra le grinze arse al sole del vecchio pescatore, nella smorfia del portatore della vara, o nel viso sbigottito del passante accecato da una flashata a tradimento (come usa oggi, in certa street selvaggia). Se è così, allora ogni foto è veramente mossa dal bisogno di conoscere e raccontare. Scoprire e condividere non tanto la realtà esterna ma qualcosa di noi, dei nostri mondi potenziali, del nostro anelare a un’armonia perduta.
Il nostro fotografare, qualunque sia il genere, è dunque davvero sempre un reportage: un reportage dell’anima. Questo sì originale e unico, sempre che siamo in grado di disinvestire i falsi ideali e sintonizzarci lealmente con le nostre emozioni.

Carlo Riggi © 01/2010
Riproduzione Riservata

 

Milazzo ‘09
Il pescatore tesse infaticabile il disciplinato ordito della sua esistenza. Una trama con la quale ogni fotoamatore sente il bisogno almeno una volta di confrontarsi, alla ricerca di un ordine interno che stenta a ritrovare.

Milazzo ‘08
Una nave salpa sotto un cielo incombente e minaccioso. Perfetta allegoria dell’inquietudine dell’uomo solo e indifeso di fronte all’ineluttabilità del fato.

Parigi ‘08
L’iconografia di Montmartre non aveva certo bisogno della mia foto. Ero io che avevo bisogno di gettare la mia stilla nel mare dell’immaginario bohemien, ottenendo l’autorizzazione a sedere al banchetto dei fotografi che mi hanno preceduto.

Venezia ‘84
Come per Montmartre, neppure Piazza San Marco necessitava del mio contributo. La colomba è un guizzo della giovinezza, la leggiadria che sfugge in un battito d’ali, dentro un luogo di atemporale bellezza.

Ballarò ’08
Una gestalt, un’adeguatezza come direbbe Muriel Barbery. La fatica dell’uomo, il destino della bestia, la vita che passa. Lo spirito incontra la carne non già per raccontarne a chi non sa, ma per toccare una volta di più, protetti dal filtro della fotocamera, le leggi inesorabili della vita.