Che cos'è la fotografia? Per Michele Vacchiano è un'attività strettamente connessa con la vita e con le passioni. Anzi, la fotografia è vita e passione. Già nell'articolo "Un'escursione in paradiso" il nostro collaboratore ci aveva raccontato la nascita parallela di un'immagine e di un amore, e ci aveva fatto capire come le atmosfere e i luoghi possano essere influenzati dallo stato d'animo del momento, che influenza, inevitabilmente, anche lo stile del fotografo. Dopo tutto, "lo stile è l'uomo", come già affermava Voltaire.
In questo nuovo scritto Michele Vacchiano ci racconta come è nata una delle sue fotografie più amate, e lo fa immergendoci in un'atmosfera e in stati d'animo che non possono non avere influenzato le sue scelte stilistiche. Perché per lui tutto concorre a creare un'immagine: i sentimenti, in primo luogo, ma anche le conoscenze, la storia, i vissuti personali e collettivi
insomma, la Weltanschauung, cioè il modo di vedere e interpretare il mondo.
La strada è tutta curve e continua a salire. Se incontrassi un'altra macchina sarebbe un problema, anche perché alla mia destra c'è il burrone e ovviamente non esiste guard-rail. Non che la cosa mi preoccupi: sto guidando da ore in quelle condizioni. Sono partito questa mattina presto, insieme a mio figlio Giorgio, per esplorare le stradine fuori mano che si inerpicano su per le montagne e che (frane permettendo) consentono di passare da una valle all'altra. Talvolta invece si mantengono alte e corrono sul filo di cresta lungo lo spartiacque. Allora ti permettono una vista a 360 gradi su tutto l'arco delle Alpi. Se c'è vento puoi vedere persino il Monte Rosa, lontanissimo. Da queste parti il vero protagonista è il Monviso, il "re di pietra" che incombe sul paesaggio da qualunque angolazione lo si guardi. Siamo nel cuore del Paìs d'Oc, l'occitania alpina dove ancora risuona l'antica lingua dei "troubadours". La regione è il Piemonte, ma come latitudine siamo più a sud di Genova e come ambiente culturale siamo in Provenza. No, non la Provenza di oggi (quella ormai completamente francesizzata), ma quella di mille anni fa, quando da qui partirono i poeti che cantarono l'amor cortese in tutte le corti d'Europa, che viaggiarono fino in Sicilia, per dare inizio a quella scuola siciliana che fu il vero punto di partenza della letteratura italiana così come noi la conosciamo.
Il massiccio dell'Argentera (il quattromila più meridionale d'Europa) è a pochi passi da noi, al di là di quel confine che sulle Alpi non ha mai avuto significato. Abbiamo fotografato i tetti in paglia di san Bernolfo e le case costruite con la tecnica del blockbau, chiedendoci che cosa ci stesse a fare un unico villaggio di lingua e cultura tedesca in quest'angolo nascosto delle Alpi sudoccidentali. Misteri della storia, che risalgono ai tempi in cui la civiltà montanara era ricca e fiorente, autonoma e feconda. Allora la gente si muoveva molto più di oggi: popoli, conoscenze, mestieri e modelli culturali migravano di valle in valle, in uno scambio continuo di idee e innovazioni. Oggi la civiltà delle Alpi sopravvive solo nei canti e nelle testimonianze architettoniche, mentre la gente delle Alpi vive asservita alla monocultura del turismo di massa, che ha spento le autonomie accentrando ogni potere (tanto decisionale quanto economico) nelle città della pianura. Ma questa è un'altra storia.
Adesso ci stiamo inerpicando su per un vallone laterale appena indicato sulle carte. Si chiama Vallone di Neraissa, come scopro consultando la mappa, e a vederlo sembrerebbe disabitato. Invece no, ci sono prati coltivati, case, minuscoli villaggi. Come spesso accade da queste parti, improvvisamente la strada finisce, senza un segnale, senza un preavviso di alcun genere. Davanti al muso dell'Astra c'è il prato. Il problema è fare manovra e finisce che percorro in retromarcia molte decine di metri prima di poter effettuare l'inversione con una ragionevole sicurezza.
Intanto il sole sta tramontando: è ora di riporre l'attrezzatura fotografica e di dirigersi verso casa (Torino è lontanissima!) senza più tappe intermedie.
Sto scendendo nel cono d'ombra di una montagna quando scorgo, a un centinaio di metri davanti a me, un albero fiorito ancora illuminato dal sole. Chissà se ne vale la pena. Lo oltrepasso e scendo dall'auto. Lo osservo controluce: è bellissimo. Ma devo fare in fretta: il sole sta tramontando. All'epoca avevo ancora la Graflex, equipaggiata con l'obiettivo Wollensack Optar 135 mm f/4,7. Avrei voluto metterci il Super-Angulon, ma non c'è tempo: bisogna fare in fretta prima che il sole scompaia.
Monto la macchina sul cavalletto e mi accorgo di avere soltanto pochi secondi. Non guardo neppure attraverso il vetro smerigliato: inquadro attraverso il mirino esterno (ecco il vantaggio delle press-camera!), metto a fuoco a naso e chiudo tutto il diaframma, come viene viene. Faccio appena in tempo a scattare che il sole scompare dietro la montagna.
"Sei riuscito?" mi chiede Giorgio mentre ripongo l'attrezzatura nel bagagliaio. Gli spiego in quali circostanze ho fotografato, senza traguardare, senza una messa a fuoco di precisione, con il diaframma tutto chiuso e un tempo di otturazione che non ricordavo di avere impostato. "Sei pazzo" mi dice: "hai sprecato una lastra."
Arriviamo a casa che sono quasi le dieci di sera. Sono troppo stanco per scaricare gli chassis, lo faccio domani. L'indomani mattina non resisto: scarico gli chassis e corro difilato al laboratorio: sono curioso di vedere cosa è venuto fuori.
La foto è quella che correda questo articolo. Non so come la vedete sul vostro monitor, la diapositiva originale è bellissima. Adesso è presso qualche ufficio della Regione Piemonte, io conservo solo il file elettronico. Ho provato a farla stampare senza successo: il procedimento Cibachrome non ce la fa e tutto diventa insopportabilmente impastato. Ma chissà, forse è meglio così. Forse quel momento impalpabile, evanescente, fatto di suggestioni di luce che emergono dall'oscurità deve restare com'è.
Michele Vacchiano © 06/2001
Riproduzione Riservata