METAFISICA
Carlo Riggi, settembre 2010

Una porta, una sedia, quadri sullo sfondo. Transiti che non conosciamo, storie che non abbiamo alcuna probabilità di indovinare. L'unica è fermarsi, "perdersi a guardare", come suggerisce Jodice, lasciando che siano esse stesse, le cose, a raccontare.

Secondo De Silvestris e Vergine (Nota 1) l’arte, nel momento del suo concepimento dovrebbe contenere almeno un minimo di progresso scientifico. Ogni forma d’arte, infatti, “riguarda quel tipo di conoscenza che l’uomo percepisce e conserva in sé fino a quando l’artista non riesce ad allucinarla e quindi a rappresentarla. Dalle viscere alla realtà concreta”. L’arte, dunque, permette di dominare ciò che non è ancora conoscibile, ma solo intuibile o fantasticabile, con la messa in figura di tale preconcezione, realizzata attraverso un variabile gradiente di metaforizzazione.

La pittura consente di attivare questo piano rappresentativo in una dimensione di libertà pressoché totale, poiché la proiezione allucinatoria trova il suo unico limite nelle dimensioni della superficie su cui opera, oltre che nelle abilità tecniche dell’artista. In fotografia la questione è resa più complicata dal fatto che la fantasia deve trovare un punto di aggancio fisico già esistente nel quale far coincidere il piano della realtà fotogenica e quello della fantasia allucinatoria. L’immagine finale si posizionerà all’interno di un continuum che va dall’iperrealismo all’astrazione pura: nel primo caso, l’intuizione e il gesto autoriale che intendeva darle realizzazione sono saturati da un eccesso di presenza fisica del soggetto riprodotto; nel secondo caso, la realtà allucinatoria prende il sopravvento fino a scompaginare del tutto l’aggancio col soggetto reale, dando luogo a un’immagine ad amplissima gamma potenziale di senso e a pressoché nulla definizione di significato. La possibilità di modulare gli estremi del continuum connota la cifra stilistica di ogni autore.

Fin qui potrebbe sembrare che il movimento sia a senso unico: preconcezione -> ritrovamento -> realizzazione, con una priorità cronologica attribuita sempre al processo mentale. Non è sempre così. Capita che un’emergenza fotografica sia determinata da un’emozione, implicita o esplicita, così come capita che uno scatto sia “estorto” dalla irresistibile pregnanza di un soggetto, il quale solo a posteriori rivelerà tutto il suo potenziale emozionale. Più spesso questo incontro avviene in regime di sincronicità, senza che sull’atto fotografico prevalga una qualche preesistente intentio auctoris.

Ciò è tanto più evidente quando la materia, attraverso un processo di mutua plasmazione, si scompone e si scontorna fino a mostrare nuove gestalt, nuove forme aggregate in grado di evocare significati inediti e imprevedibili. Siamo nel campo della metafisica. È qui che il fotografo si trasforma in scienziato, delle scienze mutuando - come forse solo lo scultore fa - il metodo empirico. L’incontro tra due nature plasmabili, la mente dell’autore e la materia fisica, dà vita ad agglomerati di senso letteralmente invisibili, eppure presenti, a patto di intercettare quella fessura spazio-temporale nel quale il fenomeno si manifesta e può essere raffigurato e mostrato, facendolo divenire elemento di conoscenza e di progresso.

La metafisica è su un altro piano rispetto al surrealismo, identificato come la corrente più prossima all’esplicitazione dell’inconscio freudiano. L’opera metafisica non è irreale, dominio assoluto di una proiezione allucinatoria, non nasce per partogenesi dall’autarchica fantasia dell’artista; appare irreale perché mai vista prima, riconfigurazione fenomenica che si nutre della fantasia ricreatrice o ordinatrice dell’autore, senza che da esso venga totalmente colonizzata. Essa espande a dismisura le sue potenzialità di senso, ricordandoci ogni volta che non solo il nostro inconscio è infinito ma pure la natura intorno lo è, legata a noi a doppio filo nel reciproco esistere, all’interno di un semplice gesto percettivo.

Carlo Riggi © 09/2010
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Nota 1: De Silvestris P., Vergine A. “Dio, l’inconscio, l’evoluzione” Franco Angeli, 2010

Finestre, quadri, cornici di verità sepolte dietro un muro da cui, guardando con attenzione,
sembrano tornare ad affacciarsi antiche presenze, a raccontare storie.

Due elementi apparentemente incongruenti, che pure qualcuno ha disposto lì e in cui il fotografo
ha colto un’armonia. Non ci interessa indovinare l’intenzione dello sconosciuto collocatore,
meglio lasciare spazio ai mille cortocircuiti che la strana coppia riesce a suscitare.

Come in una sorta di dislessia, possiamo guardare una foto senza capire nulla di quel che voglia dirci.
Poi ci torniamo su, ci soffermiamo con curiosità e diffidenza, finché un racconto comincia a prendere forma,
e l’immagine si anima di significati non pronunciabili, invisibili, eppur presenti in quella fessura
di tempo e di spazio dove l’autore ci ha invitati a posare lo sguardo.