UN MANOSCRITTO A SORPRESA
Michele Vacchiano, aprile 2003

Quando un fotografo è anche bibliotecario, la fotografia di documenti antichi acquista una marcia in più...
E tutte le scoperte diventano possibili...

Era un antico manoscritto di difficile datazione, piuttosto malridotto, che conteneva alcuni testi agostiniani, tra i quali, mutilo, il Psalmus contra partem Donati. Il tempo aveva sbiadito l'inchiostro rendendolo verdastro e il supporto membranaceo appariva fortemente ingiallito.

Non capivo che cosa ci fosse di speciale da fotografare in una pergamena bucherellata e tarlata, che riportava un testo fin troppo diffuso e poco interessante dal punto di vista bibliografico, ma da un'importante università francese mi avevano chiesto diapositive a colori di alcune pagine ed evidentemente avevano le loro buone ragioni.

Ero contento che non volessero stampe in bianco e nero: fotografare un testo verdino su carta giallina pone problemi non indifferenti per quanto riguarda il controllo del contrasto e di solito l'utente finale non è mai soddisfatto del risultato. Con le diapositive a colori il problema non si pone: i colori sono quelli e se non ti piacciono prenditela col tempo, con il cattivo stato di conservazione, con l'umidità... insomma, tutto fuorché con il fotografo.

Avevo con me la ShenHao e una decina di châssis caricati con Velvia 50.

Monto il tutto sullo stativo a colonna e mi chiudo in un ufficio vuoto, lontano dai colleghi e dal telefono. Di solito non inizio subito a fotografare: prima prendo il volume tra le mani e lo sfoglio con attenzione e rispetto. Dopotutto sono anche bibliotecario e so ascoltare il linguaggio segreto dei libri.

Un libro antico non è soltanto un contenitore di testi scritti, ma anche e soprattutto una testimonianza del suo tempo, un manufatto nel quale uomini sconosciuti hanno scritto la loro storia: non parlo dell'autore dei testi, ma dell'anonimo amanuense che li ha ricopiati, dell'illustratore che li ha miniati, del legatore che li ha cuciti con paziente perizia, perché giungessero integri e protetti fino a noi.

A chi la sappia leggere, il libro racconta la storia di tutti coloro che ne sono entrati in possesso, racconta gli ambienti nei quali è stato conservato, racconta i rischi che ha corso durante la sua lunga vita. Qui una gora d'acqua, là un residuo di muffe ormai morte da secoli, più avanti il solco di un tarlo vissuto forse quando Colombo navigava verso le Americhe... E ancora i segni di una precedente rilegatura, i fori di una cucitura rifatta, i residui di nervi in corda che qualcuno decise, chissà perché, di non ripristinare.

Questa lettura attenta, che ad alcuni potrebbe sembrare una perdita di tempo, fa invece parte del mio modo di fotografare.

Fotografia è innanzitutto conoscenza del soggetto, è entrare in comunicazione con lui, è instaurare un colloquio silenzioso - non mediato da inutili parole - che mi permette di coglierne l'intima essenza, di leggerne la storia, di esplorarne i differenti aspetti. Solo in questo modo riuscirò a tradurre in immagine le emozioni e le sensazioni che l'incontro ha suscitato in me. Lo faccio quando fotografo persone, animali, alberi o montagne; non vedo perché non farlo quando fotografo libri.

Sento spesso dire che la riproduzione fotografica di documenti è un'attività arida, squisitamente tecnica, quasi una fotocopia, anche se fatta con strumenti più sofisticati. E' sbagliato: io metto nella fotografia di un manoscritto lo stesso amore, la stessa attenzione, lo stesso coinvolgimento emotivo che dedico ai miei paesaggi e ai miei animali. Perché anche la fotografia di una pagina può - e deve - essere creativa, raccontare lo stile e l'intimo sentire del fotografo.

Appoggio l'originale sul piano di lavoro e accendo le lampade. Non uso mai le alogene, che scalderebbero eccessivamente i preziosi documenti, ma due comunissime lampadine da 60 Watt azzurrate, che emettono a 5600°K e mi permettono di usare pellicole per luce diurna.

Effettuo l'esposizione sul cartoncino grigio neutro e con l'esposimetro spot misuro poi tutti gli angoli della pagina, per controllare l'uniformità dell'illuminazione (se una lampada fosse più consumata dell'altra si verificherebbero differenze di illuminazione impercettibili ad occhio nudo ma rilevabili poi sulla diapositiva).

Da questo punto in poi il lavoro sarà quasi meccanico: inquadrare con attenzione la pagina, controllare la messa a fuoco con il lentino di precisione, chiudere il diaframma e scattare. E' inevitabile che dopo quattro o cinque scatti l'attenzione inizi a calare.

Sto per arrivare alla fine del lavoro. Non ho incontrato problemi, sono certo che le diapositive saranno perfette. Chissà perché non mi hanno chiesto di fotografare l'ultima pagina. Così il lavoro non è completo... Mah, forse si sono sbagliati... che faccio?

Decido che, per quel che mi costa, tanto vale fotografare anche l'ultima pagina. Volto la carta con attenzione, inquadro, metto a fuoco (per quanto minime, le differenze di spessore mi costringono a continui aggiustamenti), blocco le manopole di scorrimento e accosto l'occhio al lentino di precisione.

Percorro con attenzione tutta la pagina per accertarmi della perfetta messa a fuoco... e improvvisamente la vedo.

Mi sarebbe sfuggita senza la loupe, una piccola frase scritta a margine con grafia incerta, ma di sicuro con lo stesso inchiostro con cui è stato vergato il testo. Non capisco come si possa scrivere così in piccolo e con un pennino tanto sottile, ma la frase è lì, una manciata di millimetri sfuggiti forse per secoli ai precedenti possessori, che devono aver pensato a una macchia di muffa o ad una imperfezione nella pergamena.

E invece il piccolo amanuense, forse infreddolito e stanco, con gli occhi che gli bruciavano per le lunghe ore trascorse nello scriptorium a ricopiare a lume di candela, aveva trovato il tempo e il modo di tramandare nei secoli la sua umile preghiera, il suo segreto inno di lode, il suo silenzioso grido di amore e di fede: "Domine inluminatio mea".

Ho bisogno di un ingrandimento maggiore di quello ottenibile sul grande formato. Corro nel mio ufficio a prendere la Contax, vi monto il soffietto e il Planar da 100 mm invertito, per incrementare il più possibile il rapporto di riproduzione. Non basta. Sostituisco il Planar con un Distagon da 28 millimetri. Adesso l'ingrandimento è spaventoso, ma nonostante tutto la frase è ancora piccola, nell'inquadratura entra anche una parte del testo. Comunque adesso è chiaramente, nitidamente leggibile. Fotografo con emozione, con gratitudine, con amore.

La muta preghiera di un monaco sconosciuto, morto da più di cinquecento anni, diventa così la mia preghiera, in una condivisione di sentimenti che attraversa il tempo e la storia, che annulla i secoli con tutto il loro carico di lutti e sventure. Un filo di pura luce lega indissolubilmente due anime, ignote l'una all'altra, e sfida ogni distanza.

Una preghiera dalla quale un fotografo non può non farsi coinvolgere.

Signore, mia luce.

Buona Pasqua a tutti!

Michele Vacchiano © 04/2003
Riproduzione Riservata

Nota: l'immagine sopra riprodotta sembra ritoccata con un programma di fotoritocco e, in effetti, lo è. L'autore si è limitato a ripassare le parole per renderle più visibili anche nella piccola riproduzione adatta al web.