I fotografi sono il maggiore fattore di inquinamento ambientale. Più dei pali dell'illuminazione, più dei cavi elettrici, delle scie dei jet e delle pale eoliche. L'incremento esponenziale più spettacolare, dopo l'invasione di cavallette in Egitto.
È diventato ormai pressoché impossibile fotografare un monumento, una manifestazione pubblica, una cerimonia religiosa, un evento sportivo, senza trovarsi di fronte una cortina impenetrabile di "colleghi", che rende arduo il proposito di isolare il soggetto e ottenere una foto pulita. Le probabilità si riducono a zero se nel novero comprendiamo anche quelli dotati di smartphone. In mancanza di un plug-in di Photoshop che li rimuova in automatico, ci si rassegna ad includere nell'immagine anche loro, provando a valorizzarli come parte integrante della scena. Presto, noi fotografi diventeremo i nostri soggetti più gettonati, non avremo bisogno di altro: una rotta di autarchia che il fenomeno del selfie ha già inequivocabilmente tracciato.
L'impressione è che questa diffusione pandemica della fotografia, più che l'esito di un percorso culturale, sia ormai un riflesso pavloviano, un istinto imitativo, o difensivo: la fotocamera può proteggere dal coinvolgimento, dalla relazione, dalla contaminazione; una splendida corazza contro la timidezza sociale, come la chitarra nei falò. Uno scudo, o una feritoia dalla quale interloquire col mondo senza esserne toccati.
Brandiamo i nostri apparecchi – meglio se di foggia classica, che fanno tanto HCB - come fossimo esecutori di un inderogabile imperativo testimoniale. Ma quale missione documentaristica appare oggi ancora plausibile, se in qualunque istante e in qualunque luogo è tale la densità di fotografi da non riuscire neppure a escluderli dal fotogramma?
La situazione si presta all'ironia, ma è tremendamente seria, e riguarda il significato e la stessa sopravvivenza della nostra amata arte. Un tempo la fotografia trovava validazione nell'oggettiva difficoltà, tecnica ed economica, di praticarla, e nella conseguente esiguità del numero di cultori. Alcuni anziani Maestri, memori di quei tempi, hanno pensato di circoscrivere il concetto di "vera fotografia", facendolo coincidere con l'analogico in contrapposizione al digitale. Difendono uno specifico, un'identità che avvertono a rischio di estinzione, ma non inquadrano il vero problema, che non è la modalità di acquisizione dell'immagine, bensì il dilettantismo dilagante.
Lungi da me l'auspicare una qualche forma di elitarismo. L'espansione della platea di aspiranti fotografi, oltre a essere un sacrosanto diritto, rappresenta l'opportunità di elevare il livello dei risultati. In effetti, bisogna ammettere che qualunque moderna macchinetta è in grado di sfornare con disinvoltura fotografie tecnicamente perfette, tali da far invidia a molti autori classici. Ma la Fotografia non può limitarsi al mero dato tecnico. Come qualunque arte, essa è ricerca dell'unicum. Ciò che solo un autore, quale che sia il suo apparecchio e la sua modalità di lavoro, riesce a rendere visibile. Oggi non è più pensabile trovare qualcosa di inedito, non esiste luogo della terra, evento o situazione che non sia stato già ampiamente documentato. Quell'unicum allora può essere rappresentato da un incontro, l'incrocio virtuoso tra una sensibilità e una situazione reale. Quando tale convergenza acquista le virtù dell'armonia e della riconoscibilità diventa "stile", e questo trasforma un fotografo in autore.
Oggi, più che mai, abbiamo bisogno non tanto di belle fotografie, quanto piuttosto di buoni interpreti. Cerchiamo sognatori come un tempo reclutavamo viaggiatori. Lucidi visionari che, alla stregua dei grandi romanzieri, ci accompagnino all'interno di percorsi di senso, con i quali identificarci e dai quali imparare a leggere la vita.
Se l'artista è colui che vede oltre, allora essere fotografo oggi significa anche, paradossalmente, riuscire a vedere un mondo senza fotografi... Sentirsi unici e indispensabili, non come espressione di un delirio, ma come assunzione di una responsabilità, combinato disposto di tecnica, disciplina, sensibilità, perseveranza, senso etico e coraggio.
Poche foto, tra le migliaia che ci passano davanti ogni giorno, spesso tecnicamente notevoli, ci ghermiscono e ci emozionano. Lo fanno nella misura in cui colui che le realizza riesca a rendersi filtro esperienziale, cantore di stati d'animo, generatore di varchi visionari. Quando un fotografo è anche un autore possiamo avviare con lui un confronto intimo, ritrovando il gusto per l'affascinante mistero della fotografia. Il resto è compiacenza, svago estetico, gioco di specchi. Il like di un minuto, che non lascia traccia.
Ben venga anche quello, ci mancherebbe, e ben vengano alla fine pure le frotte di fotoamatori: più si è e più ci si diverte. E pazienza se qualcuno, ogni tanto, finisce per caso dentro il nostro fotogramma. Sono i rischi del non-mestiere.
Carlo Riggi © 05/2016
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