Non è mia abitudine redigere la cronaca di un incontro o di un workshop, anche perché di solito chi non vi ha partecipato trova poco interessante leggere che cosa hanno fatto gli altri, dove sono stati e quanto si sono divertiti.
Ma questa volta voglio fare un'eccezione, non soltanto perché i tre giorni trascorsi in Savoia sono stati particolarmente interessanti dal punto di vista fotografico, ma anche perché l'incontro con la civiltà altrui, con altri modi di vivere e di mangiare, di abitare e di relazionarsi, può rivelarsi talvolta più interessante dell'attività fotografica pura e semplice.
Anche perché, come dico sempre, non si può fotografare un territorio se non se ne conosce - oltre al paesaggio fisico - anche il paesaggio umano e culturale.
Ecco perciò - sul modello dei viaggiatori ottocenteschi - una relazione illustrata del nostro lungo weekend, redatta per divertimento ma non solo, sospesa tra il serio e il faceto.
Venerdì. L'appuntamento è alle nove del mattino in una stazione di servizio dell'autostrada A55 Torino-Fréjus. Di qui ci spostiamo nel parcheggio pubblico di un grande centro commerciale dove gli iscritti possono lasciare le loro auto. Siamo in quattro: tre partecipanti e il sottoscritto. Durante il viaggio, come mia abitudine, illustro il territorio che stiamo attraversando. Parlo della Valle di Susa e della sua conformazione geologica, del monte Musiné e della sua presunta natura vulcanica (una leggenda metropolitana tanto diffusa tra i torinesi quanto priva di fondamento), della millenaria Sacra di san Michele, delle guerre tra Franchi e Longobardi, dell'alta velocità (i cui cantieri stanno per devastare la valle), del Rocciamelone e della sua prima ascensione (Rotario d'Asti, 1358), del monte Chaberton e del suo ruolo strategico nella seconda guerra mondiale...
Così, chiacchierando, superiamo Bardonecchia (bubbone urbano innestato a forza e cresciuto male in uno scenario di rara grandiosità) e giungiamo al tunnel del Fréjus. Poco meno di tredici chilometri di galleria e siamo in Francia. Scendiamo verso Modane e la superiamo, diretti a Saint Jean de Maurienne.
Chi ha già partecipato ai miei tour fotografici nelle Alpi sa che il chiostro della cattedrale di Saint Jean è una delle mie tappe preferite. E' un edificio risalente al XVI secolo, realizzato in stile gotico con i semplici materiali del luogo. Niente marmi pregiati ma roccia calcarea strappata alla montagna; niente tegole ma lastre scistose (le "lose" diffuse in tutto l'arco alpino occidentale) scure e severe.
Parcheggiamo nella piazza della cattedrale e ci dirigiamo verso il chiostro, che troviamo chiuso. Strano, gli anni scorsi l'entrata era libera. Mi reco al vicino ufficio del turismo per chiedere informazioni. Una gentilissima signora mi informa che il chiostro non è più liberamente visitabile: recenti atti di vandalismo hanno reso necessario organizzare visite guidate. La prossima è alle 14. Spiego che siamo un gruppo fotografico e chiedo se nel chiostro si può fotografare. Mi guarda come se le avessi chiesto quante zampe ha un cavallo. Ma certo che si può fotografare - risponde - perché non si dovrebbe? Okay, insisto, ma noi abbiamo i cavalletti e potremmo anche usare il flash. "Non si preoccupi" mi risponde, ridendo divertita: "il pavimento è di pietra e non patisce certo il peso dei vostri cavalletti!"
Taccio, pensando ai divieti italiani e alle italiche sovrintendenze, che per lasciarti fotografare pretendono l'invio di una supplica scritta in triplice copia almeno tre mesi prima dell'evento, per poi - sovente - negare il permesso.
Decidiamo pertanto di aspettare le 14. Del resto è quasi ora di pranzo. Anzi, secondo le abitudini locali l'ora di pranzo è già trascorsa. Sono quasi le 13, e in un paese dove si mangia a mezzogiorno (tradizione condivisa anche in Piemonte, del resto) bisogna affrettarsi.
Scattiamo qualche foto nella via storica di Saint Jean e nel giardino antistante la cattedrale. In giro non c'è quasi nessuno. Si incontrano soprattutto nordafricani, come del resto in tutta la Francia. Qui operai, muratori, installatori sono soprattutto algerini o tunisini, magari di seconda o terza generazione.
Il sole picchia ma non fa caldo. Anzi, nonostante la quota piuttosto bassa (siamo in fondovalle, non in montagna) c'è un venticello fresco e gradevole che rende l'aria limpida e gradevolmente asciutta.
Troviamo una pizzeria e decidiamo di fermarci lì. Sui ristoranti e sulle trattorie francesi (parlo dei piccoli centri, non certo di Parigi) c'è da dire che normalmente il servizio è buono, la qualità più che accettabile, i gestori e i dipendenti gentili e disponibili. Negli ultimi anni sono stati fatti decisi progressi e la figura del cameriere francese burbero e sgarbato è ormai relegata nel limbo dei luoghi comuni. L'unica carenza riguarda i servizi igienici, sempre puliti, per carità (e anche questo è stato un bel progresso rispetto ad anni addietro), ma ancora lontani - come modernità e comfort - dagli standard a cui noi italiani siamo mediamente abituati.
Nel frattempo arrivano le pizze, decisamente migliori di quanto ci si aspetterebbe in un piccolo locale di un piccolo centro della Savoia alpina. L'impasto è pieno di burro, il che certamente farebbe inorridire un napoletano, ma è proprio questa aggiunta a rendere la base fragrante e appetitosa.
Alle 14, dopo un doveroso caffè (hanno finalmente imparato a fare l'espresso all'italiana, basta chiederlo), ci presentiamo davanti alla porta del chiostro. Abbandono temporaneamente amici e attrezzature e vado ad avvisare che siamo pronti. Una gentile e graziosa fanciulla esce insieme a me dall'ufficio e mi accompagna al chiostro dove gli altri attendono. Non ci sono altri visitatori, del resto è giorno feriale. Entra con noi e chiude la porta a chiave alle nostre spalle. Le indicazioni della sovrintendenza sono perentorie: è ammesso soltanto il gruppo accompagnato, non si possono permettere nuovi atti di vandalismo. Penso con tristezza alla balordaggine di certe persone e mi accingo a tradurre, a beneficio dei partecipanti, le spiegazioni della nostra guida. Il chiostro risale al tardo medioevo, ma esiste una cripta (scoperta solo negli anni Sessanta perché anticamente murata) risalente ad epoche anteriori. Secondo alcuni, addirittura all'età carolingia (IX secolo), come dimostrerebbero certe decorazioni sui capitelli.
Il sole fa brillare la pietra chiara e il verde del roseto. Al centro del chiostro una piccola fontana canta allegra. La luce e la pace pervadono quel luogo sacro.
Il chiostro presenta una difficoltà fotografica, dovuta al fatto che il colonnato di sostegno pende verso l'interno. Il peso della costruzione sovrastante, con l'andare dei secoli, ha costretto tutta la struttura a "collassare", e così le foto - anche se "in bolla" sembrano storte. Anni orsono avevo risolto il problema con un apparecchio a corpi mobili e un uso a dir poco acrobatico dei basculaggi. Con gli apparecchi a corpi fissi non si può fare molto, a meno che non si decida di intervenire pesantemente in fase di postproduzione.
Terminata la visita saliamo in auto, non senza esserci riforniti di acqua e di bicchieri in carta al vicino supermercato, e ci dirigiamo verso Chambéry.
L'autostrada si snoda tra le montagne formando larghe curve sinuose. Il traffico è scarso. Qui non c'è l'obbligo di viaggiare con i fari accesi anche quando il sole spacca le pietre, per cui metto il selettore delle luci in modalità automatica: si accenderanno da sole all'ingresso delle gallerie. Come sempre, trovo piacevole viaggiare in Francia. I limiti di velocità sono sensati: se prima di una curva il cartello indica 110 è proprio perché quella curva va fatta a 110, lo senti, te ne accorgi che quella è la velocità giusta, solo uno che avesse molta fretta ed altrettanta incoscienza la percorrerebbe a velocità maggiore. Chi gestisce strade e autostrade dimostra saggezza e buon senso, evita di imporre limiti assurdi ben sapendo che nessuno li potrà rispettare, e la grottesca sequenza 110-90-60-30 in meno di duecento metri (indicazioni che - se rispettate - costringerebbero il conducente a una frenata tanto repentina quanto oggettivamente pericolosa), che si osserva così spesso sulle nostre autostrade, qui non esiste nemmeno nei tratti sottoposti a lavori.
Le stazioni di servizio sono ampie e progettate davvero come punti di sosta e di riposo. C'è il bar-ristorante, l'area shopping, ci sono i distributori di carburanti, ma c'è anche un'area picnic, con tavoli e panche, e i giochi per i bambini, circondati da ampie aree verdi.
Intanto il panorama cambia e le alture del massiccio della Chartreuse si fanno sempre più vicine, avvertendoci che Chambéry è ormai a pochi chilometri.
Capitale del ducato di Savoia fino al 1563, anno in cui Emanuele Filiberto decise di spostare a Torino il centro del potere, Chambéry è oggi una città attiva e vivace, sede dell'università e del governo locale.
Vi giungiamo a metà pomeriggio e troviamo con relativa facilità l'indirizzo dell'albergo. Mi infilo con l'auto nella stretta via prima di capire che sono entrato in un'area pedonale. Cerco di uscirne facendo il giro dell'isolato, ma i paracarri a scomparsa situati alla fine del percorso mi costringono a tornare indietro. Ancora ignoro (me lo dirà il concierge due giorni dopo) che il meccanismo si aziona semplicemente avvicinandosi al pistone e non richiede (come invece pensavo) codici, schede o telecomandi.
Ma la mia inversione a U si rivela un rimedio peggiore del male, perché finisco per inserirmi nuovamente nella via dell'albergo, questa volta contromano. La mia manovra maldestra fa imbestialire il conducente di una Audi che mi viene incontro e provoca commenti salaci tra i nordafricani seduti davanti al venditore di kebab. I francesi stanno alle regole e se qualcuno le infrange non glielo mandano a dire: "L'autostrada è giù in fondo!" mi apostrofa brusco il conducente dell'Audi quando mi passa vicino. Ed è inutile e puerile che io mi giustifichi con un balbettante "Desolé, je me suis trompé".
Torno sulla piazza e parcheggio. Decidiamo di farci vivi in albergo: verremo a prendere i bagagli in un secondo tempo.
L'albergo appartiene alla catena Best Hotel. E' un due stelle dignitoso ma non certo modernissimo. Il locale della reception è angusto, manca l'aria condizionata (un rumoroso ventilatore davanti al banco attenta alla cervicale di chiunque vi si avvicini) e l'ascensore è vetusto. Del resto ho scelto io di alloggiare nel centro storico e non potevo aspettarmi che in un palazzo d'epoca lo spazio abbondasse.
La signora alla reception ci dà le chiavi delle camere. Non le interessa vedere i nostri documenti: come garanzia le bastano le mail che ci siamo scambiati e il numero della carta di credito che le avevo inviato a garanzia della prenotazione.
Torniamo al parcheggio, scarichiamo i bagagli e li sistemiamo nelle camere. Un'ora di sosta, giusto per sistemare i vestiti e fare una doccia, e a metà pomeriggio iniziamo il nostro tour fotografico del centro.
Chambéry somiglia a tante altre città storiche con vocazione turistica. Assediato da una periferia moderna e razionale, il centro è caotico e vetusto, con rari sprazzi di modernità soffocati tra vecchi portoni, anditi angusti, cortili bui. Pochi i negozi di souvenir - per fortuna! - e molti i punti di ristoro, calibrati sulle esigenze del turista medio che vuole mangiare bene ma senza lunghe attese, e soprattutto senza dar fondo alle proprie finanze. Ne consegue che i ristoranti blasonati sono decisamente rari, mentre al contrario abbondano le trattorie più o meno tipiche. Attraverso Rue Croix d'Or raggiungiamo Place Saint Léger, ancora inclusa nell'area pedonale. La piazza è piena di gente: turisti, impiegati che tornano a casa dopo il lavoro, commesse che chiacchierano sulla porta dei negozi.
La fontana di Place Saint Léger (a sinistra) e la fontana degli elefanti all'incrocio tra Rue De Boigne e il Boulevard du Théatre. Qui le aree pedonali sono gestite con intelligenza. Esistono zone completamente precluse al traffico veicolare ed altre zone che potremmo definire "miste", dove le auto devono procedere a passo d'uomo. Queste aree sono leggermente sopraelevate, con il fondo stradale colorato in rosso e simboli di pedoni che camminano disegnati in terra. Le indicazioni sono chiare e generalmente la gente le rispetta. Chi non lo fa è sottoposto a disapprovazione sociale. Come era avvenuto a me per la mia manovra contromano, due ragazzi in motorino scatenano un coro di proteste e vere e proprie minacce da parte di pedoni e automobilisti. La loro colpa è avere attraversato un'area "mista" a velocità eccessiva e aver suonato il clackson per costringere un pedone a scansarsi. Le strade sono prive di cartacce anche se i cestini non sono così numerosi e frequenti. Purtroppo non mancano i segni maleodoranti lasciati dai cani (anzi, dai loro ineducati padroni), ma incontrarne è un'evenienza rara.
I muri sono puliti e generalmente privi di quegli scarabocchi e graffiti che denunciano l'attività notturna dei "writers" (ma perché nobilitare gli imbrattamuri con un termine così sofisticato?). Persino la Casa dello Studente appare linda e immacolata, cosa che a Torino (e quasi certamente nel resto d'Italia) sarebbe impensabile in una struttura frequentata da giovani! I graffiti ci sono, ma solo relegati alle aree extraurbane e alle massicciate dell'autostrada.
I giovani sono numerosi (Chambéry è sede dell'Università della Savoia), li incontri per strada a gruppi, o ai tavolini delle gelaterie. Come ho occasione di notare ogni volta che mi reco in Francia, vedo che parlano senza gridare, ridono senza sguaiatezza, e molto raramente ostentano quella smania di apparire che sembra ossessionare i rampolli nostrani.
In generale sembra che in città regni un'atmosfera rilassata e gradevole. Le giovani donne che incontro per strada e con le quali - per caso o per ammirazione - incrocio lo sguardo non abbassano gli occhi, evidentemente non temono commenti pesanti o apprezzamenti sgraditi. Anzi, per un attimo mi squadrano dalla testa ai piedi, di certo incuriosite dall'armamentario che mi trascino appresso, poi sorridono e salutano, con una serenità priva di qualunque altra connotazione che non sia l'abitudine alla gentilezza.
Il tempo trascorre veloce, ma è difficile accorgersene perché il sole sembra voler indugiare nel cielo. Non siamo troppo a ovest rispetto a Torino, ma la distanza è già sufficiente a spostare sensibilmente in avanti l'ora del tramonto.
Da Place Saint Léger svoltiamo a destra in Rue De Boigne per fotografare la fontana degli elefanti: un monumento eretto nel 1838 dallo scultore Sappey per onorare il generale De Boigne e le sue imprese in territorio indiano. Tornato in patria, il De Boigne si adoperò per migliorare l'assetto urbanistico della sua città, facendo tracciare la monumentale via che ora porta il suo nome, bordata di portici secondo il modello torinese. Il monumento rappresenta quattro elefanti disposti a croce che sembrano scaturire dalla pietra e che sostengono una colonna scolpita a tronco di palma sormontata dalla statua del generale.
Da Rue De Boigne ci spostiamo in Place Métropole per visitare la cattedrale. Dedicata al santo savoiardo, Francesco di Sales, la costruzione risale al XV secolo. Dapprima semplice chiesa francescana, divenne fin dal 1779 sede dell'arcivescovado di Chambéry, Tarentaise e Saint Jean de Maurienne. La struttura poggia su trentamila pali di legno di larice, un accorgimento costruttivo volto ad evitare che l'edificio assorbisse umidità dal terreno. All'interno, seimila metri quadrati di disegni e volute a trompe-l'oeil ornano le volte e le pareti, opera dei pittori Sevesi e Vicario. Il gigantesco e possente organo (costruito da Zeiger nel 1850 e restaurato nel 2004) è uno dei più importanti di Francia. Ogni estate, nella cattedrale, si svolgono concerti d'organo con ingresso libero.
Dopo la cattedrale è la volta del castello dei duchi di Savoia, sede del ducato nei secoli precedenti al trasferimento della capitale da Chambéry a Torino. Oggi non è liberamente visitabile, essendo sede della Prefettura. Per questo siamo costretti ad ammirarlo dall'esterno, girandogli intorno e tentando di catturare inquadrature interessanti.
Torniamo in albergo piuttosto stanchi e tutto sommato contenti di depositare finalmente l'attrezzatura fotografica. Un breve riposo e poi usciamo nuovamente, alla ricerca di un ristorante per la cena. La scelta cade sulla trattoria "Edelweiss" (ma che fantasia!) in Rue Croix d'Or, non lontano dall'albergo.
"Siamo in quattro, c'è posto?". Il padrone (un uomo alto e brizzolato, aspetto energico ma cordiale, sulla cinquantina) ci fa accomodare all'interno, su alte panche di legno. L'arredamento è rustico, come si addice a un locale per turisti attratti dalla cucina e dalla way of life savoiarda. Alle pareti festoni, palline e decorazioni natalizie, che evidentemente restano lì tutto l'anno come avviene - dicono le leggende - nelle case degli gnomi.
Il padrone rimane al banco mentre chi prende le ordinazioni e serve in tavola è una giovane, anzi giovanissima (potrebbe avere 18-20 anni) ragazza dai capelli corvini, con tutta probabilità nordafricana.
Ci porta il menu, che provvedo a tradurre e a spiegare a chi non conosce il francese. La scelta cade, all'unanimità, su una entrecôte di vitello guarnita con la tradizionale ratatouille. Il tutto annaffiato con abbondante birra locale. L'unico problema è la ragazzina, che sembra non capire le ordinazioni, si confonde, ritorna a chiedere, dimentica di portarci da bere... Mi domando fino a che punto capisca il francese. Nella migliore delle ipotesi sembra distratta, con la testa fra le nuvole. Ma il mistero è presto chiarito: gli sguardi infuocati che scambia con il giovane aiuto-cuoco non lasciano dubbi: non è distratta né impacciata, semplicemente è innamorata cotta!
Al termine della cena propongo agli amici un assaggio di génépy: un liquore fortemente digestivo diffuso in tutto l'arco alpino occidentale, ottenuto mettendo in infusione piantine di Artemisia genepi. Conosciuta fin dalla più remota antichità ("genepi" è un termine celtico, se non ancora precedente), la piantina fu apprezzata anche dai conquistatori romani (ne parlano Plinio e il greco Strabone) per le sue virtù toniche e digestive. mAncora una breve passeggiata digestiva in Place Saint Léger e poi subito in albergo: la giornata è stata intensa e stancante. Dormo poco e male. Il mio cuscino odora di fumo stantìo, come se al posto delle piume ci fossero mozziconi di sigaretta. In strada il rumore è continuo: c'è stato un concerto etnico-rock al castello dei duchi e per tutta la notte sotto le mie finestre passano persone urlanti e schiamazzanti, spesso ubriache. Sento molte lingue, soprattutto arabo e anche italiano.
La doccia del mattino e una buona colazione a base di croissant caldi e fragranti, come solo in Francia li sanno fare, mi rimettono all'onor del mondo. Il programma prevede il giro del Lac Bourget, il più grande lago di Francia, e la visita al priorato di Le Bourget-du-Lac.
Si narra che nell'anno 1030 l'abate Odilon di Cluny fosse stato costretto a fermarsi a Bourget a causa di una forte febbre. Quella notte, l'abate sognò San maurizio e il conte Amedeo di savoia piantare una croce luminosa sulla collina di Saint Jean. Ne dedusse che con quel sogno Dio gli ordinasse di costruire una chiesa in quel luogo. Informato della cosa, il conte concesse all'abate un suo terreno situato a Saint Jean. Più tardi il priorato fu trasferito nella sede attuale, edificata sulle rovine di un tempio romano dedicato a Mercurio. Oggi il priorato è proprietà del comune, che lo utilizza come sede di concerti ed eventi culturali.
Le Bourget-du-Lac, adagiata all'estremità inferiore del lungo e stretto lago che si inoltra verso nord, è una cittadina tranquilla e sonnacchiosa, che si anima durante la stagione turistica e nel fine settimana. Come in molti luoghi simili sparsi in tutta la Francia, il traffico è limitato e ordinato. Le strade sono percorse per lo più da ragazzini in bicicletta, tutti con il loro caschetto (obbligatorio per legge). Quando li incontrano, gli automobilisti rallentano fino a fermarsi, per poi riprendere la marcia solo quando il bambino è a distanza di sicurezza. Sembrano prendere molto sul serio l'avvertimento esposto all'ingresso di ogni centro abitato: "Rallentate, pensate ai bambini". Per chi viene da un paese dove il semaforo rosso è spesso considerato nulla più che un discreto invito, si tratta di una bella lezione di civiltà.
Il giro del lago è deludente. Nemmeno la celebre abbazia di Hautecombe (dove è sepolto Umberto II, ultimo re d'Italia) sembra offrire spunti fotografici interessanti: l'esterno è poco significativo e all'interno è vietato fotografare. La strada che circonda il lago e si inerpica verso le alture permetterebbe un panorama stupendo se la giornata non fosse afflitta da una foschia densa e caliginosa.
Ci fermiamo a mangiare nella celebre cittadina termale di Aix-les-Bains, sulla sponda orientale del lago, e rientriamo a Chambéry.
Una breve sosta in albergo e nel tardo pomeriggio partiamo verso il Col Granier, reso celebre dal tour de France. Dal colle (1134 metri) si gode la vista del massiccio della Chartreuse e soprattutto della sua cima più settentrionale, il Mont Granier (1933 metri). Il Mont Granier fu protagonista, nel 1248, di una catastrofe di proporzioni apocalittiche. Nella notte tra il 24 e il 25 novembre un'intera metà della montagna, costituita da fragile roccia calcarea e indebolita da fenomeni carsici, collassò su se stessa, si abbatté sugli strati marnosi sottostanti e - accompagnata da colate di fango - piombò su cinque villaggi di fondovalle, seppellendoli completamente e causando migliaia di vittime. Cinquecento milioni di metri cubi di materiale scivolarono verso il basso su un fronte di sei chilometri e mezzo e cambiarono in una sola notte la geografia della regione. Come sempre accade in occasione di simili catastrofi, fiorirono sull'accaduto racconti e leggende. Una falesia verticale alta più di 900 metri è la gigantesca cicatrice che oggi si mostra agli occhi del visitatore.
Nella notte tra il 5 e il 6 luglio inizia a piovere. Domenica mattina ci svegliamo sotto un cielo temporalesco che non promette nulla di buono. Decido ugualmente di non modificare il programma, ben conoscendo l'estrema variabilità del tempo in montagna.
L'itinerario scelto prevede il ritorno a Torino attraverso un suggestivo percorso in alta quota: da Chambéry ci recheremo in autostrada fino ad Albertville. Di qui proseguiremo verso il Beaufortain e il colle detto Cormet de Roselend, che mette in comunicazione con la Val d'Isère e Bourg-Saint-Maurice (l'antica Bergintrum). Da Bourg-Saint-Maurice saliremo al colle del Piccolo San Bernardo per rientrare in Italia attraverso la Valle d'Aosta.
Il viaggio fino ad Albertville è privo di storia. Mentre saliamo verso la regione del Beaufort (patria del celebre omonimo formaggio) il tempo sembra migliorare. Ci fermiamo a Queige per fotografare la chiesa parrocchiale, interessante per alcuni particolari costruttivi.
Da Queige saliamo verso il suggestivo lago di Roselend, dove giungiamo sotto una pioggia battente. Il lago è artificiale. La diga che lo contiene è alta 150 metri e larga 800. Realizzato fra il 1955 e il 1962, lo sbarramento ha inghiottito sotto 185 milioni di metri cubi d'acqua un antico alpeggio, attestato fin dal X secolo col nome del suo primo proprietario, Rozelindus, da cui il nome del luogo. Oggi nel lago è praticata la pesca sportiva a seguito dell'introduzione di alcune pregiate specie ittiche.
Dopo qualche minuto la pioggia si acquieta e possiamo scendere dall'auto per fotografare. Sono stato molte volte qui, ma non ho mai avuto il privilegio di fotografare questo posto con il sole. Pazienza, un lago sotto la bruma fa molto "scozzese".
La cappella in stile romanico che veglia sul lago fu edificata negli anni Sessanta ed è la copia esatta della chiesa del villaggio sommerso dalle acque.
Dal lago risaliamo al Cormet de Roselend sotto una vera e propria bufera di vento. L'aria proveniente dal fondovalle si incanala nella stretta gola e si raffredda, per poi scendere sull'altro versante sotto forma di vento caldo, il foehn. Dal colle la strada scende ripida, stretta e tortuosa verso Bourg-Saint-Maurice, mentre il tempo si fa più clemente grazie all'influenza del foehn.
A Bourg-Saint-Maurice piove di nuovo. Ci infiliamo in una trattoria per mangiare (che manco a farlo apposta si chiama "Le Savoyard") e dopo un doveroso caffè ci accingiamo ad affrontare la lunga strada del ritorno.
Michele Vacchiano © 07/2008
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