Sin dagli albori della sua civiltà l'uomo ha cercato di modificare il paesaggio, di piegare la natura ai suoi voleri e di asservirla ai suoi scopi. Cominciò col prelievo di legname, con la creazione di pascoli e con le prime coltivazioni; oggigiorno i cosiddetti paesaggi antropizzati, gli ambienti modificati o creati dall'attività umana, sono ormai entrati a far parte dell'esperienza visiva quotidiana. Parliamo dei campi coltivati, dei frutteti e di tutti quegli elementi paesaggistici che, ognuno a suo modo e in diverse epoche dell'anno, ci gratificano con uno spettacolo di sconfinati scenari multicolori. ll caleidoscopio colorato che va in scena ad ogni stagione ha un rovescio della medaglia: andando oltre l'apparenza, scopriamo un panorama molto diverso.
Esso infatti é ottenuto attraverso una lotta "contro" l'ambiente naturale, che ne resta impoverito se non escluso del tutto. Il verde agricolo non significa necessariamente Natura (la maiuscola non é casuale), come erroneamente si é portati a considerare, soprattutto coloro che di natura non hanno più un'esperienza quotidiana, addomesticata o meno che sia.
Il facile equivoco per cui qualsiasi spazio verde sia
automaticamente naturale, e quindi buono e giusto, si fonda
su una percezione parziale e antropocentrica del paesaggio,
che ha contribuito negli anni a privarci di immense
ricchezze. Le coltivazioni sono qualcosa di "altro" rispetto
ad una Natura intesa come il dispiegarsi senza interferenze
di comunità animali e vegetali; una natura non meno
importante (al contrario), solo per il fatto di essere meno
fotogenica o affine alla visione umana, nel suo
manifestarsi.
L'azione di addomesticamento, in atto da millenni, ha
portato profonde modifiche in quasi ogni area popolata
dall'uomo, a volte con esiti esiziali per la sopravvivenza
stessa del territorio (inaridimento, erosione).
Questo ha sempre comportato impoverimento, almeno dal punto
di vista della ricchezza della diversità naturale (in modo
sintetico ma efficace le culture native americane
descrivevano l'uomo occidentale come "l'animale preceduto
dal bosco e seguito dal deserto").
Il carattere monotipico dei coltivi e l'appiattimento
ambientale che ne deriva creano un ambiente artificiale che
non é in grado di sostenersi autonomamente; le piantagioni
sono più esposte agli attacchi di parassiti e malattie,
esattamente come i polli di batteria, i suoli tendono ad
impoverirsi.
Si rende quindi necessario il continuo intervento umano,
spesso effettuato con dubbio riguardo per la salubrità del
sistema stesso.
Vengono a mancare le complesse interazioni tra organismi
tipiche di un ambiente ricco e variato in cui piante e
animali siano naturalmente adattati ad affrontare le
avversità climatiche o sanitarie.
Viceversa, nella moderna agricoltura molte delle sementi utilizzate sono nate in laboratorio, e, cosa anche più pericolosa, la variabilità é diminuita vertiginosamente (al mondo sono coltivati ormai non più di quattro o cinque tipi di frumento, e i semi sono clonati). Ciò rende i raccolti estremamente vulnerabili di fronte ad eventuali malattie su scala planetaria; proprio in questa prospettiva negli ultimi anni si sta prendendo coscienza dell'importanza del recupero delle specie arcaiche e rustiche, più robuste e adattate ai luoghi di origine. Nonostante tutto, e torniamo al punto di partenza, anche gli ambienti modificati dall'uomo posseggono una forte valenza estetica: lasciamo quindi da parte il livello di lettura più strettamente ecologico (pur fondamentale per andare oltre l'apparenza), perché la cifra di queste pagine é meno prosaicamente la contemplazione di quella magnifica tavolozza che i coltivi ci regalano, a modo loro fonti di nutrimento metaforico per la mente e lo spirito, e non solo concreto per il corpo.
Sono questi i luoghi di un'armonia più tipicamente umana,
quindi addomesticata, che tuttavia presenta un suo specifico
pregio, una bellezza più razionale, artificiale e ordinata,
ma non per questo meno "bella" in senso lato.
L'uomo infatti tende ad apprendere e ragionare per simboli,
categorie e schemi, e di conseguenza sente più prossimo a sé
quello che risponde a queste logiche, anche dal punto di
vista puramente esteriore.
Anche nel suo apparire, e non solo nella sostanza, l'eleganza organizzata dello spazio antropizzato è infatti qualcosa di altro rispetto alla Natura selvaggia, lasciata a stessa, la Wilderness degli anglosassoni. Quest'ultima è il caos, se vista attraverso le dinamiche con cui l'uomo percepisce e interpreta ciò che lo circonda; col suo essere visivamente non schematizzabile essa si distacca da una visione umana che tende istintivamente ad apprezzare categorie ordinate, nel suo accostarsi al paesaggio e all'ambiente in generale. Quante volte ci siamo trovati ad apprezzare un bosco pulito dalla mano dell'uomo pensando "sembra un giardino"? Il bosco vergine, naturale, con il suo disordinato sottobosco a tratti impenetrabile e i suoi tronchi marcescenti, ci appare come una sgradevole cacofonia visuale, un luogo persino ostile, se non siamo stati preparati a comprenderne il valore tramite un'azione culturale educatrice.
Allo stesso modo, un tempo le paludi erano considerate luoghi malsani e improduttivi, mentre ora, consci della loro importanza fondamentale per la vita, siamo in grado di apprezzarle e proteggerle proprio per la loro naturalità (cosa che, tristemente, non ne impedisce un rapido declino).
Noi invochiamo con lo sguardo moduli ripetitivi, linee rette e contorni definiti, prospettive, volumi e contorni certi, e nel caso dei coltivi veniamo accontentati, perché troviamo filari, ondulazioni, sequenze di colori, stratificazioni di petali e corolle, fughe di tronchi e sentieri.
Parte delle coltivazioni di cui parliamo sono a scopo
alimentare; alcune altre nascono invece con il preciso
intento di produrre piante per fini estetici (tulipani e
fiori in genere), anche se non esplicitamente per creare le
fantasmagoriche scenografie che ne risultano. In altri casi
lo spettacolo dei colori è solo l'effetto collaterale di una
coltivazione estensiva che ha altri fini, come nel caso
dell'aromatica lavanda.
Vitantonio Dell'Orto © 02/2007
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Pubblicato sulla rivista Oltre n.81, 05/03