Dall’altra ci sono milioni di foto che, se almeno non nascono con l’intenzione di mostrare il quotidiano dell’autore, dall’altra sono pessime immagini, scattate al mare, nelle città e nei paesini, quasi sempre nobilitate (si fa per dire) dagli effetti speciali e dalla postproduzione facile ed immediata messa a disposizione dalle varie app o inclusa in alcuni social network, come ad esempio Instagram. Tutti scattano foto (brutte o insignificanti) coi loro telefoni, poi arriva qualche click (anzi, “tap”) di postproduzione e la foto è in rete, pronta per essere ammirata da migliaia di persone (non solo amici) leste a commentare “Grande scatto!”, ed a ricevere più “like” delle foto degne di essere chiamate tali.
Sia chiaro: nessun problema per questo, tutti abbiamo diritto a pubblicare le foto che vogliamo ed a gradire quelle che preferiamo, ma - al di là del decadimento di una giusta cultura dell’immagine, conseguenza della sempre più carente educazione al bello - c’è la tendenza a non soffermarsi sulle foto se non per il tempo di cliccare “like” in modo da lasciarne il più possibile, e sperando di riceverne altrettanti. I latini dicevano “do ut des”, adesso è l’epoca del “like for like”.
Riflettendo su quanto appena detto, siamo sicuri di essere in fase di “decadimento della cultura fotografica”? Forse no; o meglio, il decadimento non appare essere la causa della situazione che abbiamo descritto; piuttosto ne è la conseguenza. Proviamo a spiegarci. La differenza, rispetto ai tempi delle varie Kodak Instamatic, compatte 110 e Polaroid, è solo nei numeri: prima le pellicole e le stampe avevano un costo non indifferente mentre ora si può scattare molto di più senza spendere un centesimo; prima una fotografia era una stampa, e per averla tra le mani bisognava aspettare (finire il rullino, portarlo al laboratorio, attendere sviluppo e stampa). E’ vero che pensare di calcolare la percentuale di foto pessime sul totale sarebbe a dir poco assurdo; ma la nostra sensazione è che nel complesso sia rimasta immutata; quello che è cambiato è il numero totale di immagini scattate, che con le nuove tecnologie è cresciuto in maniera smisurata.
A questo bisogna aggiungere un altro dato: fino a qualche anno fa, diciamo fino all’avvento della diffusione delle immagini tramite siti Web prima, e social network poi, la miriade di foto insulse che tutti scattavano (che in tutto il mondo fossero mille o un miliardo al giorno non conta) restava nei cassetti e negli album di ciascuno. Le stampe non si potevano certo “condividere”; al massimo si mostravano a parenti ed amici quando ci si riuniva (e c’era gente che si arruolava volontaria per il Libano pur di evitare un invito della categoria “venite a cena da noi così vi facciamo vedere le foto dell’album di matrimonio”). Oggi non è più così: si va in giro sempre con uno smartphone (ai tempi delle fotocamere non accadeva) e, stimolato dalla facilità di scatto, ritocco e condivisione, chiunque fotografa e “condivide” di tutto, anche verso chi ne farebbe volentieri a meno. Trent’anni fa, di un parente si conoscevano le foto di nozze, delle vacanze, dei compleanni e null’altro; oggi possiamo essere informati in tempo reale di cosa mangia a colazione, di come si è vestito per andare in ufficio, di quanto traffico sta incontrando per strada…
La conseguenza di questi due elementi (più facile scattare, più facile condividere) è che sui social si riversa quotidianamente una valanga di immagini a dir poco modeste che, se è vero che si possono evitare in qualche modo, è altrettanto vero che finiscono col costituire un rumore di fondo tale da coprire le poche cose valide che pur appaiono di continuo - perché gli autori bravi ci sono sempre stati e ci continuano ad essere.
E’ questa abnorme sproporzione quantitativa che finisce col soffocare le belle immagini e, dunque, a renderle meno evidenti, ad amalgamare il gusto estetico collettivo verso il banale, spingendo tante, troppe persone a valutare le immagini in maniera frettolosa e compulsiva, distribuendo Like e cuoricini a destra e a manca, e rendendole assuefatte ad un’estetica che ritiene ammirevoli effettacci ed effettini messi lì dall’app di turno giusto per dare un po’ di impatto ad un’immagine altrimenti insignificante. L’esposizione e la messa a fuoco raramente lasciano a desiderare (come detto, ormai anche le fotocamere degli smartphone più recenti sanno il fatto loro), ma tutto il resto, quello che dovrebbe “fare” la fotografia (una composizione non casuale, un uso consapevole del linguaggio fotografico, la sensibilità verso una situazione, l’applicazione di un’acutezza visiva che renda interessante un soggetto, e chi più ne ha più ne metta), manca.
Scattare, condividere ed apprezzare le foto di una vacanza o di una cena tra amici non è né sbagliato né riprovevole, ci mancherebbe: ben venga la facilità con cui oggi si può farlo. Ma, e con queste due osservazioni concludiamo questa riflessione, ci viene da dire che la mania di condividere tutto sempre e dovunque con tutti ci porta a pensare che a volte lo scopo principale di un incontro sia più il condividerlo su un social che il viverlo in quel momento. Ciò che più ci turba è che queste immagini, che un tempo assolvevano la nobilissima e fondamentale funzione di dare sostanza ad un ricordo, sono diventate il parametro estetico di riferimento, mettendo in ombra le altre, comunque le si voglia etichettare (belle immagini, fotografia artistica, fotografia d’Autore, e così via), ma la Storia c'insegna che esistono le mode, le fasi e l'evoluzione. Questo potrebbe essere solo un periodo poco felice, probabilmente reso necessario dall’avvento della fotografia digitale combinata alla diffusione di Internet e delle nuove modalità di socializzazione. Un po' come i tempi oscuri del Medioevo, se vogliamo; ma anche un passaggio che ci fa comunque procedere lungo il sentiero di una buona evoluzione.
Rino Giardiello e Agostino Maiello © 09/2015
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