MA TU CE L'HAI IL DEPTH OF FIELD CALCULATOR?
Tutto quello che non può mancare nel corredo del "grandeformatista" perfetto. Gadget, ammennicoli, quisquilie e pinzillacchere. Se poi siano davvero utili... Boh, giudicate voi!

Questo disco graduato con tanto di cinghietta per appenderselo al collo serve per calcolare l'angolo di inclinazione del banco ottico. E' dotato di livella a bolla e se lo comprate per corrispondenza costa circa sessanta dollari.

Non sono igloo portatili e neppure culle termiche pieghevoli, ma "changing bags" per caricare gli chassis anche quando non si ha una camera oscura nelle immediate vicinanze. Il modello in alto è quello che possiedo io ed è il cavallo di Troia della polvere. Il modello in basso è di tipo floscio.

Dorsi caricatori Polaroid, utili anche per ospitare le pellicole a caricamento rapido.

Due loupe per verificare con precisione la messa a fuoco sul vetro smerigliato. Il costo del modello prodotto dalla Horseman è paragonabile a quello di un obiettivo per il piccolo formato. E non certo di fascia economica.

Non sono strumenti di tortura rinvenuti nel sotterraneo di qualche castello diroccato ma aggeggi che servono ad avvitare e svitare l'anello di tenuta dell'otturatore per avvitarlo alla (o rimuoverlo dalla) piastra portaottica. Ovviamente possono adattarsi ai diversi diametri (Copal #0, #1 e #3, Prontor, Compur eccetera).

Serve a calcolare l'angolo di inclinazione della macchina ed è dotato di bolla di livello. Lo fa la Horseman e come tutti i prodotti Horseman è bello e ben rifinito. Ovviamente è costoso in proporzione. Personalmente ci ho pensato a lungo ma ancora non ne ho afferrato la reale utilità. Vuol dire che ci penserò ancora. Poi, sicuramente, deciderò che non mi serve.

Di fronte ai gadget che il mercato propone al fotografo si sarebbe tentati di acquistare tutto, apparentemente spinti dalla filosofia del "tanto prima o poi mi tornerà utile" ma in realtà attirati dalle confezioni luccicanti e dall'aspetto un po' misterioso di molti di questi aggeggi. Tranne poi scoprire che non ci serviranno mai. Oppure che il loro utilizzo è talmente complicato da richiedere un lungo studio, magari supportati da un libretto di istruzioni formato Divina Commedia. Scritto ovviamente in tutte le lingue. Tranne, ovviamente, l'italiano.

Per carità, ce ne sono di davvero utili. Le camere oscure portatili, ad esempio. Metti che ti trovi in alta montagna e hai finito le pellicole piane. Metti che sei stato previdente e ti sei portato dietro una confezione di pellicole vergini. Come fai a caricare gli chassis se la camera oscura più vicina è come minimo duemila metri più in basso? Ma non solo: c'è la pellicola in rullo che si incastra nel dorso roll-film, c'è il motorino di riavvolgimento della reflex che si blocca per il freddo, o la leva di carica che si inceppa, o... Bene, le camere oscure portatili risolvono tutti questi problemi. Le più semplici sono quelle morbide, piuttosto scomode quando si lavora con il grande formato: le pareti interne si afflosciano sulle mani, si infilano dappertutto, si pizzicano sotto la guida del volet; quelle rigide somigliano a tende da campeggio ed hanno due maniche che consentono di lavorare all'interno. Per evitare le infiltrazioni di luce hanno una doppia cerniera e i polsini delle maniche sono stretti da elastici. Guardate il modello in alto: è quello che ho io. Si tratta di un vero e proprio cavallo di Troia per la polvere. Già, perché le intelligenze smisurate che l'hanno progettato gli hanno messo due bei polsini di lana. Così mentre ci infili dentro le mani trascini all'interno tutta la polvere, i pelucchi e le schifezze varie, acari compresi, che si annidano tra le fibre della lana. Il brutto è che prima di accorgermi dell'inconveniente ed eliminare i maledetti polsini (è bastato ripiegarli all'esterno) sono diventato matto a capire perché diavolo i miei negativi fossero diventati più pelosi di un san bernardo!

I dorsi Polaroid sono l'invenzione più furba dopo l'acqua corrente. Soprattutto perché consentono l'utilizzo delle pellicole a caricamento rapido. Senza cambiare caricatore potete farvi una Polaroid di prova e subito dopo inserire la Velvia in confezione Quickload, o la T-Max in confezione Readyload, senza necessariamente dover andare in giro con i caricatori originali Fuji e Kodak. L'unico inconveniente è che il maggior spessore delle Kodak Readyload (due lastre per ogni busta) causa frequenti problemi, tipo il distacco della cornicetta metallica di tenuta con conseguente esposizione delle pellicole piane alla luce. Si spera che simili difetti scompaiano con l'introduzione, da parte di Kodak, delle Readyload "single sheet" (una pellicola per ogni busta, come da sempre fa la Fuji).

Il classico dorso 545i è stato affiancato dal 545 Pro (dove "Pro" sta per "professional", come se l'altro lo usassero i principianti), che ha persino un timer per calcolare l'esatto tempo di sviluppo a seconda del tipo di film usato, e che emette un segnale sonoro allo scadere dei minuti necessari. Studiato per fotografi talmente miserabili da non potersi permettere un orologio, neppure uno di quei patacconi russi che costano due lire ma che vanno benissimo, a parte il fatto che sono silenziosi quanto le pale di un elicottero. Peccato che non sia possibile scegliere il segnale sonoro, come si fa con le suonerie dei telefonini: a me piacerebbe un dorso Polaroid che quando lo sviluppo è terminato emette un ululato lupigno (ma anche la sirena della Queen Mary non mi andrebbe male). Comunque ribadisco che il dorso Polaroid è una bella trovata. E' vero, è un po' pesante (soprattutto perché io ho ancora il vecchio modello in metallo, mentre quelli più recenti sono in materiale plastico), ma con uno di quelli e un pacco di Quickload vai tranquillo, e alla fine il peso complessivo è di molto inferiore a quello di dieci chassis doppi tradizionali.

Per fotografi pignoli che devono affrontare lavori di elevata precisione esistono le "loupe": lenti di ingrandimento piuttosto complesse (in realtà veri sistemi ottici a più lenti, spesso con elementi asferici e "multicoated") che permettono di verificare se quel filo d'erba nell'angolo in alto a destra del vetro smerigliato è davvero a fuoco. Ne abbiamo parlato diffusamente in un precedente articolo di "Nadir", per cui passiamo oltre.

Il cruccio di ogni fotografo che lavora in grande formato e che riprende qualcosa di diverso da quadri, stampe e manoscritti miniati è la profondità di campo. Nel grande formato la profondità di campo va calcolata, più che verificata a vista, anche perché se si chiude il diaframma all'apertura di lavoro il vetro smerigliato diventa troppo buio per capirci qualcosa. La regola di Scheimpflug son si può applicare sempre e chiudere a f/64 non è quasi mai una buona soluzione. Per cui ecco le tabelle per la profondità di campo, come quelle a stampa pubblicate da Linhof, o i regoli calcolatori come quello proposto da Rodenstock. Bellissimo, per carità. Peccato che per imparare a usarlo sia necessario essere laureati in matematica esoterica o titolo equipollente. Ogni tanto me lo porto dietro. Lo studio con attenzione. Poi chiudo a f/64 e chi s'è visto s'è visto!

Un disco per calcolare la profondità di campo.

Montare e smontare gli obiettivi dalle piastre è una faccenda complessa e delicata. Prima si rimuove, svitandolo, il gruppo ottico posteriore. Poi si appoggia l'otturatore, con il gruppo ottico anteriore montato, al foro della piastra. Il bordo filettato dell'otturatore entrerà nel foro e sporgerà verso il lato interno (posteriore) della piastra. A questo punto occorre avvitare saldamente l'anello di serraggio. L'operazione è delicata perché:

  1. L'anello va stretto saldamente, altrimenti si provoca l'antipatico fenomeno della rotazione dell'obiettivo. Nello stesso tempo...
  2. Bisogna fare un'attenzione mostruosa a non toccare le delicatissime lamelle del diaframma, che con il gruppo ottico posteriore smontato sono messe a nudo. E se considerate quanto costa ciò che in quel momento avete in mano non tarderete ad avvertire una leggera apprensione, giusto quella che prova un chirurgo neolaureato alla sua prima operazione a cuore aperto.

Fortunatamente gli anelli di serraggio presentano delle tacche nelle quali inserire uno speciale arnese avvitatore, una placchetta metallica dotata di punte diversamente distanziate e capaci di adattarsi ai diversi diametri (essenzialmente Copal #0, Copal #1 e Copal #3, ma anche altri tipi di otturatore). In alternativa, si può usare un compasso da falegname, di quelli con due punte metalliche che si aprono e si chiudono mediante una vite. L'operazione è comunque delicata ed è per questo che si preferisce usare una piastra per ogni obiettivo, lasciandovelo perennemente montato.

Di altre cose, decisamente più indispensabili quali lo scatto flessibile, il panno nero o il paraluce, abbiamo diffusamente parlato in precedenti articoli. Anche queste fanno parte dell'armamentario di cosucce che il fotografo si porta appresso. Cosucce da nulla, stanno nella tasca esterna dello zaino. Solo che, messe l'una sull'altra, raggiungono un peso non indifferente. Di qui la necessità di discernere, con la dovuta oculatezza, ciò che serve davvero da ciò che può essere tranquillamente lasciato a casa.

Michele Vacchiano © 7/2000