LENTI ECCELLENTI:
Un racconto e un test
Un incontro in alta quota, una gradevole chiacchierata, un confronto professionale che diventa un'idea, una sfida, una scommessa...
Ed ecco che nasce un articolo a quattro mani, scritto - grazie a Internet - da due autori lontani nello spazio ma uniti da passioni, pensieri, sogni comuni.

Ulrich Baumgartner

Qui sotto, le fotografie scattate a Salisburgo da Ulrich Baumgartner con i cinque obiettivi sottoposti a test. La prima serie rappresenta il centro storico della città con il castello; la seconda, l'ingresso della facoltà di scienze della locale università.

Io ho voluto testare gli obiettivi da vicino, riproducendo alcune pagine di antichi manoscritti e testi a stampa. Le prime due serie sono tratte dal Theatrum orbis terrarum di Abraham Oertel (Ortelius), stampato in prima edizione ad Anversa nel 1570 da Aegidius Coppens Van Diest. La terza serie è tratta dal Liber Nemrod (Libro di Nemrod), un manoscritto astrologico del XIII secolo di incerta attribuzione e di oscura interpretazione.

Quella sera giunsi al bivacco piuttosto stanco, com'era logico dopo quella lunga camminata con una decina di chili sulle spalle. E pensare che mi ero trattenuto, in considerazione della mia schiena non più giovane e provata da mille strapazzi, ma che volete farci, quando si sta via due o tre giorni ci vogliono gli indumenti di ricambio, l'acqua (in abbondanza), le bustine di liofilizzato, un bel pezzo di parmigiano, il fornelletto, il sacco a pelo... Senza contare, ovviamente, la folding, il cavalletto, un paio di obiettivi e tutti gli accessori del caso, più il dorso Polaroid e una scatola di Readyload riempita di T-Max e di Velvia in confezione a caricamento rapido. Il dorso Polaroid mi permette di usare indifferentemente i due sistemi Kodak Readyload e Fuji Quickload , con buona pace di chi lamenta possibili infiltrazioni di luce (mai successo) o una non perfetta planeità della pellicola (un solo caso in dieci anni) quando non si usano i caricatori originali.

Fatto sta che quando entrai nel minuscolo locale mi sembrò di avere raggiunto l'accogliente dimora di un Maharaja anziché una mezza botte di lamiera con un tavolino e quattro letti a castello.

All'interno non c'era nessuno. Strano, perché quella via è piuttosto frequentata e durante l'estate ci sono sempre alpinisti in transito. Mica gente come me: alpinisti veri, di quelli che quando entrano occupano tutto lo spazio con le loro corde, i rinvii, i chiodi, gli anelli Prusik e le maniglie Jumar, perché il giorno dopo dovranno affrontare qualche parete strapiombante lungo vie dal nome impronunciabile.

Lasciai aperta la porta per arieggiare il bivacco, invaso dall'odore di stantìo. La brezza di valle si era fermata e il vento aveva cambiato direzione: ora proveniva dalle cime portando con sé il profumo frizzante della neve. Il sole al tramonto colorava di rosa i ghiacciai mentre nel fondovalle già qualche finestra si accendeva e i tetti della case scomparivano alla vista, accarezzati dall'ombra lunga della sera.

Avvertii improvvisa e tangibile la mia solitudine. Avrei preferito un rifugio vero, di quelli che quando entri sei avvolto da quell'odore tipico e particolarissimo, un misto di minestra e di cuoio degli scarponi, c'è la luce accesa e il gestore ti chiede che cosa vuoi per cena, e quella lampadina stenta che in casa tua non useresti neppure per un ripostiglio, tanto è debole e funerea, ti sembra un faro amico nella notte, ti accoglie calda e invitante scacciando come per magia il freddo e la fatica, dopo ore di cammino nella solitudine silente del ghiaccio e della roccia.

Nel bivacco non c'era elettricità e se volevo un po' di luce dovevo usare la mia lampada frontale. Mi decisi a mangiare qualcosa in fretta, prima che si facesse buio del tutto.

Il tempo sembrava rallentato. Alle nove non avevo ancora sonno e non mi andava di coricarmi. Indossai la giacca a vento perché la temperatura si era fatta rigida e uscii all'esterno. Assaporai il profumo dell'aria e l'ammiccare delle prime stelle. Rimpiansi di non avere con me la pipa. Sentivo acuta la nostalgia di casa. Cercai di chiamare ma in quella zona non c'era segnale. Ero isolato dal mondo, benché soltanto quattro ore di cammino mi separassero dalle abitazioni dei miei simili, milletrecento metri più in basso.

Udii uno scalpiccio lontano e aguzzai lo sguardo nel buio. Forse uno stambecco si stava avvicinando: vengono spesso vicino ai bivacchi, dove l'uomo lascia sempre qualcosa di interessante da assaggiare. Non avevo paura (e di che, poi?), ero semplicemente incuriosito. Un minuto di silenzio totale, poi di nuovo un suono di pietre smosse. Un suono ritmico, come di passi. Un essere umano! Attesi qualche secondo per accertarmi che potesse udire la mia voce, non volevo si spaventasse vedendomi all'improvviso: quando pensai che fosse ragionevolmente vicino accesi la lampada frontale ed esclamai "Buonasera!"
"Wer da!?" ribatté con voce allarmata. Nonostante le mie cautele ero riuscito lo stesso a sorprenderlo.
"Guten Abend!" ripetei.
Percorse i pochi passi che ci separavano, strinse gli occhi per scorgermi bene nell'oscurità crescente e senza dir nulla mi tese una grossa mano callosa: "Ulrich Baumgartner".
"Michele Vacchiano", risposi, ricambiando la stretta.
Poi guardò oltre le mie spalle, scorse il profilo del bivacco e si lasciò sfuggire un sonoro sospiro di sollievo.
"Arrivati, finalemente!" esclamò con spiccato accento teutonico. Misi in un angolo il mio zaino per fare posto al suo e lasciai che prendesse fiato.
"Niente luce?" domandò, e quando gli spiegai che non volevo consumare le pile della mia lampada frontale, commentò: "Ha ragione, stelle è meglio".
Era un signore corpulento, dell'apparente età di sessant'anni. Capelli a spazzola, un tempo biondi ma ora quasi bianchi, baffi corti e candidi. Ma quello che mi colpì di lui fu lo sguardo, uno sguardo dolce e penetrante insieme che sembrava scrutarti dentro. Mi piacciono le persone che hanno il coraggio di guardarti dritto negli occhi quando ti parlano.

Estrasse dallo zaino due panini e iniziò a mangiare. Mi chiese se avevo già cenato e alla mia risposta affermativa mi porse una piccola borraccia in alluminio. Adoro lo Steinhaeger e ne bevvi un lungo sorso, assaporando l'aroma del ginepro e il calore dell'alcol che avvolgeva la bocca dello stomaco. Quando ci vuole ci vuole, e prima di affrontare una notte gelida in un bivacco a tremila metri, ci vuole quasi sempre.

Scambiammo due parole di cortesia, lui in un italiano incerto ma intelleggibile. Disse di essere austriaco, salisburghese per la precisione, e di trovarsi sulle Alpi occidentali per una breve vacanza.

Nel frattempo ci preparavamo per la notte. Il mio sacco a pelo era in fondo allo zaino e per estrarlo dovetti tirar fuori un bel po' di roba. Quando appoggiai la folding sul letto lui la scrutò con interesse: "Was ist das?".
Gli spiegai che si trattava di un apparecchio fotografico di grande formato e che... Mi interruppe d'improvviso.
"Questo lo so, che modello è?".
Sinceramente sorpreso gli spiegai che si trattava di una Shen-Hao. Non la conosceva e volle sperimentarne i movimenti. Rapido e sicuro, nonostante il locale fosse immerso nell'oscurità, Baumgartner manovrava le manopole, spostava i corpi, come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. "Gut, gut!" commentava mormorando fra sé.
Poi, come sorpreso da un'intuizione improvvisa, mi guardò. Riuscivamo a scorgere solo il bianco dei nostri occhi, ma bastava.
"Michele Vacchiano, uh? Io ho già sentito o letto questo nome".
Non furono necessarie troppe parole per scoprire che aveva visitato la mia mostra ad Ostermiething, leggendo poi alcuni miei articoli su Nadir e altre riviste.

Conversando (sottovoce, come per non turbare il silenzio dei luoghi) scopriamo di avere molte cose in comune. Anch'egli amante del grande formato, usa preferibilmente macchine dal 20x25 in su, più sono grandi e più gli piacciono. Ha anche una Lotus 20x24" (50x60 centimetri!), un mastodonte che viaggia su ruote da mountain bike e che regola i movimenti dei corpi grazie a un motorino elettrico da 12 Volt.

Parliamo fin quasi all'alba di sistema zonale e di macchine, di agenzie giornalistiche e di esposimetri. La scarsa conoscenza delle rispettive lingue ci porta ad utilizzare una specie di koiné improvvisata, un misto di italiano, tedesco e inglese che però funziona magnificamente.

Ci accomunano la considerazione della fotografia come forma d'arte e di comunicazione, l'attenzione per la nitidezza, il primato assoluto della creatività, la ricerca della libertà espressiva.

Il mio parmigiano e il suo Steinhaeger ci tengono compagnia e solo quando entrambi finiscono decidiamo che forse è il caso di riposare qualche ora.

Gli chiedo dove intende recarsi il giorno dopo. Mi risponde che per lui è lo stesso, è in vacanza e tutto ciò che gli interessa è gironzolare per le Alpi. Gli propongo di condividere il cammino e accetta con entusiasmo: "Così possiamo fotografare insieme!".

A sorpresa, estrae dallo zaino la sua "compatta": una Linhof Technika 5x7 pollici, leggera quanto una putrella di ghisa, equipaggiata col glorioso Geronar da 300 mm. Veniamo così a parlare di trecento millimetri: una focale che a entrambi piace, pur se per motivi differenti. Lui considera il Geronar l'obiettivo ideale.
Mi mostro scettico, dopo tutto è proprio soltanto il buon vecchio tripletto di Cooke.
"Lei cosa conosce di meglio?" mi chiede. Snocciolo due o tre nomi, iniziamo un'accesa discussione a base di schemi ottici, ma ovviamente stiamo parlando a vanvera, ci vorrebbe un confronto vero.

Ed ecco che nasce l'idea. Una volta tornati alle nostre rispettive sedi, cercheremo di fare dei test comparativi, procurandoci in qualche modo il maggior numero possibile di obiettivi da 300 millimetri, a parte quelli che già possediamo. Ci vorranno mesi, ma alla fine un qualcosa verrà fuori. Gli propongo di pubblicare i risultati su Nadir, firmando a quattro mani il test. L'idea lo entusiasma. Definiamo gli ultimi particolari dell'accordo e finalmente - all'alba! - ci prepariamo ad un breve sonno, prima di riprendere il cammino.

IL TEST - DESCRIZIONE E METODOLOGIA

Prima di illustrare i risultati ottenuti, occorre come sempre definire gli scopi, i limiti e le modalità del test.

Prima di tutto va detto che non abbiamo voluto prendere in considerazione tutti gli obiettivi da 300 millimetri realizzati per il grande formato, ma soltanto quelli "compatti", quelli cioè che possono essere utilizzati su macchine portatili sia in metallo che in legno grazie alla loro leggerezza. Tutti questi obiettivi sono montati su otturatori Copal #1.

Teoricamente è possibile montare su una folding un Apo-Symmar o un Sironar-S, ma il loro peso sarebbe tale da sottoporre a sforzi eccessivi i meccanismi di tenuta del corpo anteriore, soprattutto se questo viene decentrato o basculato. Questo è il motivo per cui ho purtroppo dovuto rinunciare al mio vecchio ma eccezionale Fujinon W 300 mm f/5,6 (420 mm di cerchio di copertura!), perfetto sulla Sinar ma inutilizzabile sulla Shen-Hao.

A fronte dei circa 1500 grammi di un obiettivo 300 mm tradizionale montato su Copal #3, gli obiettivi compatti sono contraddistinti da un peso che va dai 250 ai 300 grammi, otturatore compreso, con l'eccezione del G-Claron che - a causa di due lenti in più - raggiunge i 460 grammi (si tratta tuttavia di un peso ancora accettabile).

La lunghezza focale dichiarata è per tutti di 300 mm, ad eccezione del G-Claron, la cui focale è di 305 mm (evidentemente per esigenze progettuali e costruttive).

Ecco pertanto i modelli che abbiamo sottoposto al test:

Nome
Sch.
Ø
f/
Fujinon C
4/4
380
8,5-64
Nikkor M
4/3
325
9-128
Rodenstock Apo-Ronar
4/4
264
9-90
Rodenstock Geronar
3/3
340
9-64
Schneider G-Claron
6/4
381
9-90

Nella tabella qui sopra, la casella "Sch." (schema) descrive il numero di lenti e gruppi, ma è necessario un approfondimento relativo ai disegni ottici. Mentre il Fujinon, il Rodenstock Apo-Ronar e lo Schneider G-Claron obbediscono a uno schema simmetrico (pur con le differenze che vedremo), il Geronar e il Nikkor sono in pratica tripletti di Cooke. Il primo (3 lenti in 3 gruppi) è un tripletto classico, mentre il secondo rispetta lo schema del "tripletto evoluto", con l'aggiunta di quella quarta lente che arricchisce il gruppo posteriore e che migliora la correzione. Uno schema tipo Tessar che si ritrova, ad esempio, negli Schneider Xenar da 150 e 210 mm. Entrambi gli obiettivi sono ottimizzati per riprese a distanze medio-lunghe ma possono essere usati da vicino se opportunamente diaframmati.
Per quanto riguarda gli altri tre, abbiamo un disegno molto simile nell'Apo-Ronar e nel Fujinon C: quattro lenti in quattro gruppi a schema simmetrico; mentre nel G-Claron troviamo le classiche sei lenti proprie dello schema simmetrico Schneider. L'Apo-Ronar e il G-Claron, ottimizzati per le riprese a breve distanza, rendono bene all'infinito se diaframmati oltre f/22 (pur con le differenze che vedremo), mentre il Fujinon assicura una resa superba praticamente a tutte le distanze di ripresa.

Il simbolo Ø rappresenta il diametro, in millimetri, del cerchio di copertura, dato, per tutti, all'infinito e a f/22. E' evidente che alle brevi distanze il cerchio di copertura aumenta. Come si vede le differenze sono notevoli. L'Apo-Ronar, ad esempio, progettato per lavorare da vicino, non presenta, all'infinito, un cerchio di copertura significativo. Opposta la scelta di Schneider: pur essendo anch'esso progettato per le brevi distanze di ripresa, il G-Claron presenta, all'infinito, il cerchio di copertura più importante della categoria: ben 381 millimetri.

Il simbolo f/ rappresenta l'estensione dei diaframmi. Le esigenze di compattezza hanno imposto un'apertura relativa massima piuttosto ridotta: f/9 (che diventa f/8,5 nel Fujinon C). Quello che cambia, e di molto, è l'apertura minima. Un'apertura minima di f/64 (Geronar e Fujinon) potrebbe sembrare insufficiente per tenere sotto il dovuto controllo la profondità di campo. Trecento millimetri sono tanti e soprattutto alle brevi distanze l'estensione del campo nitido può diventare problematica. Di qui la scelta (effettuata da Rodenstock per l'Apo-Ronar e da Schneider per il G-Claron) di estendere la scala a f/90. Ancora più spinto il Nikkor, il cui valore di f/128 potrebbe sembrare sovradimensionato rispetto alle reali esigenze fotografiche, soprattutto in un obiettivo non concepito per le riprese a distanza ravvicinata. Senza contare i problemi di diffrazione di cui parleremo tra poco.

Per quanto riguarda la disponibilità, gli unici modelli tuttora in commercio sono il Fujinon e il Nikkor (non importati in Italia ma disponibili all'estero), mentre il Geronar, l'Apo-Ronar e il G-Claron, ormai usciti di produzione (da più tempo il Geronar) sono reperibili sul mercato dell'usato.

Per effettuare i test sono state usate apparecchiature di formato 4x5 pollici, il più diffuso sul campo, e precisamente: una Sinar F, una Shen-Hao HZX 45-II A, una Linhof Technika IV e un'Arca-Swiss F Basic.

Le pellicole usate: Fuji Velvia e Provia 100F per le foto a colori pubblicate qui. Abbiamo preferito pubblicare le foto a colori per rendere visibili le differenze di saturazione e di resa cromatica delle diverse ottiche: nel bianco e nero le differenze sono meno evidenti e la scansione a bassa definizione destinata al web le avrebbe appiattite del tutto.

Il metodo usato per il test è stato volutamente empirico. A chi osserva la stampa finale non interessano le linee per millimetro, ma parametri valutabili visivamente quali la nitidezza apparente, la ricchezza tonale e cromatica, il contrasto. Ci siamo pertanto limitati a fare le fotografie e a confrontarle, per vedere quale ci piaceva di più. Dei negativi in bianco e nero abbiamo realizzato stampe 30x40, su carta politenata, non virate; le diapositive a colori sono state invece esaminate con un lentino di precisione Horizon 6x.

Va detto che in tutti i casi i risultati ci sono apparsi eccellenti, persino quelli del "vecchio" (ma in ogni caso multicoated) Geronar, e che le differenze riscontrate ci sono apparse talmente minime da diventare evidenti solo attraverso un approfondito e pignolissimo confronto diretto. Addirittura su certi risultati non ci siamo neppure trovati d'accordo, e questo è capitato là dove non si trattava di differenze qualitative, ma di differenze "estetiche", quali la maggiore o minore morbidezza dei toni o la resa dei colori.

Proprio in base a queste considerazioni, ci è sembrato poco utile pubblicare tutte le immagini ottenute: abbiamo piuttosto preferito affidare la descrizione dei risultati ad una meno immediata ma più "onesta" descrizione verbale.

IL TEST - I RISULTATI

Il buon vecchio Geronar ha fornito risultati che sinceramente mi hanno sorpreso. A fronte dei commenti poco entusiastici che girano su Internet ("quite good" è il più benevolo), abbiamo notato una brillantezza e una resa cromatica decisamente interessanti. Va comunque detto che non l'abbiamo mai usato a diaframmi più aperti di f/22 e questo ha evidentemente contribuito a migliorare la nitidezza. I test sul Geronar sono stati effettuati sia da Ulrich che da me, con due obiettivi praticamente coevi (fine anni Ottanta) ed entrambi dotati di trattamento antiriflessi multistrato.

Decisamente più tagliente la resa dell'Apo-Ronar, come del resto ci si aspetta da un Rodenstock apocromatico. Come già illustrato in un precedente articolo apparso su Nadir (Piccoli e brillanti), si tratta di un'ottica dal contrasto elevato ma capace egualmente di rendere con la dovuta ricchezza i toni intermedi. Pur essendo ottimizzato per la fotografia ravvicinata, rende magnificamente anche all'infinito, senza apparenti cali di qualità, a patto che lo si usi ai normali diaframmi di lavoro (da f/22 in su). Il limitato cerchio di copertura lo rende inadatto a formati superiori al 5x7" (copre l'8x10" solo a distanza ravvicinata) e questo è il suo limite, irrilevante per chi lavora in 4x5" ma tale da renderlo inutilizzabile per chi utilizza il formato maggiore. Un vero problema per Baumgartner, che utilizza correntemente l'8x10" e che sinceramente si rammarica di non poter usare questo superbo vetro.

Una resa simile è stata rilevata nel Fujinon. La sua costruzione in quattro lenti separate e non incollate, com'è tradizione Fuji, garantisce una nitidezza superba. La resa dei colori e il contrasto sono eccellenti.

Nitido e definito, anche se meno tagliente, lo Schneider, che a fronte di un contrasto apparentemente meno elevato sembra dotato di una maggiore ricchezza cromatica e tonale. Il G-Claron è un "vero" obiettivo macro, nel senso che rende magnificamente soprattutto da vicino. All'infinito (come del resto dimostrano le tabelle MTF pubblicate da Schneider) le sue prestazioni appaiono - pur se di tutto rispetto - meno entusuiasmanti. In ogni caso nella resa dei colori il G-Claron ci è sembrato il migliore dei cinque, anche grazie alla curva di trasmissione spettrale tipica degli Schneider, che rimane elevata e costante su tutto lo spettro visibile ma crolla drasticamente alle lunghezze d'onda meno elevate, garantendo cieli sempre saturi e densi.

Le maggiori discussioni tra noi si sono incentrate intorno al Nikkor, il cui potere risolvente ci è sembrato del tutto paragonabile a quello del Fujinon (a f/22, forse un tantino meno brillante a f/16), ma che rispetto a questo sembra presentare una resa dei colori meno squillante. Attenzione: si tratta di differenze minime e nemmeno osservabili in tutte le immagini. Il contrasto di questo piccolo Tessar è comunque elevato.

Sulla possibilità di chiudere il diaframma fino a f/128 c'è da discutere (e in effetti Baumgartner ed io abbiamo quasi litigato). Da un lato questa caratteristica può sembrare vantaggiosa: è vero che a f/128 è bene non arrivare, ma f/90 ti può togliere dai guai quando fotografi da vicino e/o hai bisogno della massima profondità di campo ottenibile. D'altro canto la perdita di qualità dovuta alla diffrazione rischia di fatto di vanificare l'incremento apparente di nitidezza ottenibile grazie all'aumento della profondità di campo. In pratica, sarebbe come schiacciare insieme freno e acceleratore: la velocità non cambia e la macchina si rovina.

Volendo essere più precisi (e scientifici), possiamo quantificare gli effetti della diffrazione ricorrendo alla formula lmm=1000/f, dove "lmm" esprime le coppie di linee per millimetro risolte dall'obiettivo (inteso come perfettamente esente da astigmatismo e a pupilla circolare), e "f" l'apertura relativa impostata. Si vede quindi come a f/90 l'obiettivo (un obiettivo teorico, cioè perfetto ed esente da qualsivoglia aberrazione ottica) non possa risolvere più di 11,11 coppie di linee per millimetro, che diventano 7,81 a f/128. Un valore inaccettabile se solo si voglia ingrandire l'immagine andando al di là del puro formato di ripresa, data la capacità di risoluzione dell'occhio umano. Ne consegue che un diaframma pari a f/90 può essere usato se si lavora su lastre 8x10" da stampare a contatto, ma non quando si usa il 4x5" e lo si deve ingrandire!

Ma allora perché Nikon offre la possibilità di chiudere il diaframma a valori tanto estremi? Si comporta forse come quelle case automobilistiche che montano tachimetri da 240 all'ora anche sulle utilitarie?

In realtà bisogna considerare che tutti questi obiettivi - anche se "piccoli" - sono in grado di coprire formati di tutto rispetto: fino a 8x10" ed anche (come nel caso del Fujinon e del G-Claron) 11x14". Negativi di queste dimensioni debbono essere ingranditi pochissimo (o addirittura per nulla ingranditi, come avviene nelle stampe a contatto), e pertanto il numero di linee per millimetro presenti sulla stampa finale, anche se esiguo a causa della diffrazione, risulterà in ogni caso superiore alla capacità di risoluzione dell'occhio umano. Ecco perciò che Nikon offre agli utenti dei formati maggiori la possibilità di incrementare in modo drammatico la profondità di campo apparente grazie ad aperture relative estremamente ridotte.

Conclusioni

Sia in base alle considerazioni teoriche che a seguito dell'analisi delle fotografie, ci è sembrato inutile e fuorviante concludere stilando una classifica. Ciascuno degli obiettivi esaminati gode di caratteristiche sue proprie che gli sono peculiari e che rendono di fatto impossibile stabilire una graduatoria.

Ci sembra tuttavia di poter affermare che il nostro test ha evidenziato l'esistenza di un fuoriclasse assoluto e di due cavalli di razza.

Il fuoriclasse assoluto è il Rodenstock Apo-Ronar. Lo abbiamo definito "fuoriclasse" non solo per la sua resa, ma anche perché la sua presenza nel gruppo è un po' anomala: il suo cerchio di copertura ridotto (all'infinito) lo rende un intruso all'interno di una famiglia di ottiche progettate per un ben preciso formato.

Ma anche su questo c'è da discutere e approfondire. Da un punto di vista strettamente ottico, non è consigliabile usare obiettivi caratterizzati da un cerchio di copertura molto più esteso di quanto il formato richieda. Questo perché l'eccesso di campo coperto implica un surplus di luce che potrebbe provocare perdite di nitidezza dovute a flare. Sia in teoria che in pratica, l'obiettivo ideale dovrebbe essere caratterizzato da un cerchio di copertura corrispondente alla diagonale del fotogramma più l'estensione dei movimenti di cui l'apparecchio in uso è capace.
Da tutto questo deriva che chi lavora esclusivamente nel formato 4x5" potrebbe non avvantaggiarsi, ma anzi essere danneggiato, da un obiettivo in grado di coprire formati molto maggiori: un cerchio di copertura di 250 mm consente già una gamma di movimenti che eccede ampiamente le possibilità di qualunque apparecchio 4x5" in commercio, sia da studio che portatile. Se ne conclude che l'Apo-Ronar, "anomalo" e di fatto inutilizzabile (all'infinito) nei formati più grandi, si rivela ideale se usato sui formati inferiori.

I due cavalli di razza sono il Fujinon C 300 mm f/8,5 e il Nikkor M 300 mm f/9, con una leggera preferenza nei confronti del Fujinon a causa di una (apparente) maggiore incisività e di un cerchio di copertura (dichiarato) leggermente superiore. Se però si considera
1. Che nel caso degli obiettivi Nikkor il cerchio di copertura dichiarato dalla casa è di solito leggermente sottostimato;
2. Che lavorando su formati fino al 5x7" il cerchio di copertura di entrambe le ottiche eccede largamente le possibilità di movimento di qualunque apparecchio oggi in commercio;
ecco che anche questa differenza - pur senza annullarsi - acquista un'importanza secondaria.

Nella colonna qui a sinistra abbiamo pubblicato alcune delle immagini del nostro test.

Ulrich Baumgartner e Michele Vacchiano © 07/2003
Riproduzione Riservata


Altre immagini scattate per il test:

Come soggetto per la fotografia a distanze medio-lunghe, ho scelto la biblioteca "Dietrich Bonhoeffer" di Torino, con un particolare del parco in primo piano.