FISCHIA IL VENTO (URLA LA BUFERA)
Dite un po', che cosa fotografate voi col grande formato? E soprattutto, dove fotografate? Avete uno splendido studio superattrezzato dove dedicarvi allo still-life, con un meraviglioso parco luci da disporre come meglio vi aggrada, un dorso digitale da sessanta chili collegato al computer, un piano di lavoro vagamente simile alla pista di decollo del Concorde? Oppure allestite set da sogno per riprendere boccette di profumo e bottiglie di whisky, eteree fanciulle tanto belle da sembrare finte o preparazioni gastronomiche tanto finte da sembrare vere? E forse talvolta, spinti da spirito di avventura, ardite uscire all'aperto, nel giardino, per riprendere (più per hobby che per dovere d'ufficio) fiori in boccio e farfalle variopinte, affrontando gli ardui problemi che la fotografia in grande formato all'aperto comporta?

Se avete risposto "sì" anche a una sola di queste domande, significa che appartenete alla schiera di quelli che hanno capito.

Io no. Io faccio parte dell'altra metà del mondo, quella dei creativi a tutti i costi, che mettono i jeans e la camicia a quadri alla festa di compleanno del principe Ranieri e che finiscono sempre per farsi notare per la loro eccentricità (dove il termine "eccentricità" viene usato in senso eufemistico), tanto da finire sempre per sentirsi fuori posto in ogni occasione. Quelli che hanno l'aria di chiedersi "ma che ci faccio qui?". Quelli che - per una strana tendenza a complicarsi la vita (ma mia nonna diceva, in buon piemontese, "a tagliarsi le palle da soli") - percorrono le strade più complicate per arrivare in posti che a nessun altro interessa raggiungere. Così mi sono ritrovato, a quarant'anni suonati da un pezzo, ad arrancare per i sentieri di montagna con un banco ottico nello zaino e un cavalletto legato al medesimo. Non potevo dedicarmi alla fotografia pubblicitaria o alla biancheria intima, ché almeno mi godevo la vista e la compagnia di qualche bella figliola, no, io ho scelto "la fotografia in ambiente alpino", espressione pomposa per dire che sei proprio l'ultimo dei pistola a vagare in solitudine per luoghi deserti e gelidi dove al massimo incontri qualche mucca ma belle figliole nisba. Comunque ormai è fatta e - che mi piaccia o no - sono un fotografo di montagna. Il che vuol dire che normalmente faccio più fatica degli altri a realizzare una fotografia (oltre che a trovare belle figliole).

Parco del gran Paradiso. Questa è la valle di cui si parla nell'articolo. La fotografia fu scattata subito dopo aver perso nel torrente l'"irripetibile" lastrina Readyload a causa di un'improvvisa folata di vento. In primo piano il torrente glaciale che scende dal ghiacciao dell'Aouillé (alle mie spalle); sullo sfondo, l'elegante piramide rocciosa dell'Herbetet.

Ecco un altro posto maledettamente ventoso. Siamo nel Vallone di Piantonetto (versante piemontese del Parco Nazionale) e stiamo salendo verso i Becchi della Tribolazione (un nome alquanto evocativo, neh?). La fotografia riprende la Punta di Ondezana e il Becco di Valsoera, sull'opposto versante della vallata.

Dei problemi logistici legati alla fotografia all'aperto in grande formato ho parlato in diverse occasioni. Ma quello che caratterizza in maniera peculiare il lavoro in alta quota è la costante, continua, invadente e irrinunciabile presenza del vento. Sulle Alpi c'è sempre vento, e questo è il principale postulato. Che ha un corollario: se non c'è vento vattene perché sta per nevicare. Questa costante meteorologica trascina con sé alcune conseguenze.
  • Prima di tutto scordatevi di poter usare un cavalletto pesante per contrastare la potenza del vento.
    Intanto perché non è umanamente possibile portare in alta quota un cavalletto che pesi più di quattro o cinque chili (e che si aggiunge a tutto il resto dell'attrezzatura), in secondo luogo perché la forza del vento sulle Alpi è tale da avere ragione anche di oggetti ben più pesanti di così. Provare per credere.
  • Per questo motivo bisogna prestare attenzione a dove si monta il cavalletto.
    Se vi avvicinate al bordo di un dirupo per riprendere il paesaggio sottostante, un'improvvisa folata può rovesciare il treppiede e far compiere alla vostra preziosa folding un volo di parecchie centinaia di metri nel vuoto. Se ciò dovesse accadere, non tentate di recuperare ciò che rimane: il pezzo più grande della vostra attrezzatura sarà stato nel frattempo usato da una formica rossa come abbellimento estetico della sua celletta nel formicaio. Soluzione: appesantite il cavalletto legando lo zaino alla colonna centrale, in mezzo alle tre zampe. In questo modo oltretutto abbasserete il baricentro del sistema aumentandone la stabilità. Altro trucco: accumulate alcune pietre intorno alle zampe in modo da stringerle come in una morsa. E quando dico pietre intendo pietre, non sassolini. Sul ghiacciaio, piantate bene le zampe nello strato di neve superficiale, eventualmente scavando tre piccoli alloggiamenti nel ghiaccio con la becca della picozza.
  • Cercate di fare a meno del panno nero.
    Il panno nero è una vela perfetta, un aquilone ideale con cui il vento ama giocare portandosi via, insieme ad esso, anche la macchina e il treppiede. Se proprio non avete il sole alle spalle e il vetro smerigliato è in ombra, la visiera del berretto consentirà il più delle volte una visione chiara quanto basta. A patto che utilizziate obiettivi ragionevolmente luminosi. Un convertibile Plasmat f/13 lo potete usare in studio ma non all'aperto.
  • Sottoposto a raffiche di vento il soffietto vibra.
    Questo di per sé non costituisce un male (la luce passa lo stesso e non ne viene influenzata), ma le vibrazioni del soffietto possono comunicarsi anche alle standarte, soprattutto se queste sono in legno. Soluzione: una volta effettuata l'inquadratura bloccate con forza tutti i movimenti. Approfittate di un momento di calma per premere il pulsante di scatto. In montagna il vento non è sempre costante, ma di solito soffia a raffiche: tra una folata e l'altra trascorrono brevi istanti di relativa tranquillità.
  • Lasciate gli chassis e le pellicole piane nello zaino, estraendole solo al momento del bisogno.
    Mi trovavo nella Valle delle Meyes. Erano con me mio figlio Giorgio e un paio di giovani amici ben noti ai frequentatori del NG it.arti.fotografia, oltre a una coppia di amici di Torino. Salendo, avevo fotografato un paesaggio bucolico: una mandria di bovini al pascolo vagava tranquilla nel pianoro del Nivolet. Il sole faceva scintillare le acque del torrente, che in quella zona pianeggiante si impigrisce e quasi si ferma, formando anse e volute, minuscoli laghetti e pantani colonizzati dagli eriofori. Sullo sfondo, la silhouette elegante della Grivola e i ghiacciai del Gran Paradiso. L'insieme dei diversi elementi (la luce, le forme, il chiaroscuro) faceva di questa foto un qualcosa di unico, una scena a suo modo irripetibile. Avevo curato con estrema pignoleria l'esposizione, misurando ogni angolo dell'inquadratura per decidere dove far cadere il grigio medio.
  • Poi avevo impressionato la pellicola: una Ektachrome 100 Professional in confezione Readyload. Adesso ero salito di quota e mi trovavo in una valle laterale, al cospetto del poderoso ghiacciaio dell'Aouillé. Qui il torrente glaciale scorreva limpido fra i sassi, formando innumerevoli rivoletti e permettendomi di giocare con le prospettive. Montai con calma la folding sul cavalletto ed estrassi dallo zaino la bustina Readyload contenente le due lastre: la prima era quella delle mucche, ora mi accingevo ad impressionare la seconda. Faceva molto freddo (era settembre e quella sarebbe stata la mia ultima uscita prima della neve) ma c'era calma di vento: quella piccola valle riparata era come un'oasi di pace lungo il cammino. Posai la busta di cartoncino su una pietra asciutta: il tempo di estrarre il dorso Polaroid per inserirvela. Fu un attimo: dal ghiacciaio di fronte scese improvvisa una folata. Durò un secondo, forse uno e mezzo, ma fu sufficiente per far volare nel torrente la busta, insieme alla mia foto irripetibile.
  • Organizzate un riparo.
    In montagna non è difficile trovare ripari naturali: l'ambiente di alto pascolo o di morena glaciale è di solito piuttosto accidentato ed offre protezioni naturali come risalti di roccia, avvallamenti, pareti a picco. A volte basta spostarsi di pochi metri per trovare un luogo meno esposto alle raffiche: quand'è così conviene senz'altro spostarsi, a patto che l'inquadratura non ne risenta negativamente. Se vi trovate in luoghi aperti, l'unico rimedio consiste nell'abbassarsi il più possibile, utilizzando il primo segmento delle zampe del cavalletto o - nei modelli che lo consentono - aprendole il più possibile per aumentarne la stabilità. Con la macchina posta in basso sarà più facile improvvisare un riparo: lo zaino, la giacca a vento tenuta aperta da un compagno, il corpo stesso del compagno consentono di solito la necessaria assenza di vibrazioni.
  • C'è vento e vento.
    In caso di tormenta evitate di fotografare: i minuscoli cristalli di ghiaccio sparati dal vento ad alta velocità non sono soltanto fastidiosi sulla pelle, ma hanno la capacità di infiltrarsi dovunque, anche all'interno dell'otturatore. Poi il ghiaccio si scioglie, si trasforma in acqua e inizia a lavorare provocando l'ossidazione dei componenti. Meglio evitare. Anche perché quando c'è tormenta non si vede a un palmo dal becco, e allora, che ci sarà mai da fotografare?

L'estate si avvicina (anzi, già ci siamo) ed io sto per partire per le Alpi. Se qualche lettore di "Nadir" capiterà dalle parti del Monte Rosa o del Gran Paradiso e vedrà uno svirgolato arrampicato in posti impossibili con la testa sotto un panno nero, si faccia riconoscere: farò volentieri quattro chiacchiere.

Michele Vacchiano © 6/2000