CHE COSA HO IMPARATO DAL GRANDE FORMATO?
Sarà perché sono un po' depresso, ma questa sera mi viene spontaneo fare un bilancio. Che cosa ho davvero imparato dopo anni che fotografo in grande formato?

Torno adesso dal Rifugio Gastaldi. Ho portato fin lassù la folding e le mie lastre per cercare di fotografare la Bessanese e il ghiacciaio della Ciamarella. Con scarso successo, dato che alle nove del mattino ha cominciato a piovere e io sono rimasto all'aperto sotto l'acqua, bagnandomi come una spugna perché la mantella impermeabile Ferrino serviva a riparare la macchina e lo zaino. Ovviamente incomincia sempre a piovere quando l'apparecchio è già pronto sul cavalletto, con il frontalino aperto, l'obiettivo montato e lo chassis inserito, così che non hai più il tempo di smontare tutto: e tu non vuoi che la folding si bagni, vero? Perciò la ripari e aspetti che l'acquazzone si plachi quanto basta. Poi sono cominciati i fulmini. E allora ti siedi per terra, il più lontano possibile dal cavalletto (ringraziando il cielo per non aver commesso l'idiozia di acquistarne uno in fibra di carbonio), ti abbracci le ginocchia e speri di non essere tu la cosa più alta e più bagnata dei dintorni.

Sarà perché sono un po' depresso, ma questa sera mi viene spontaneo fare un bilancio. Che cosa ho davvero imparato dopo anni che fotografo in grande formato?

Bene, la prima cosa è che sbagliare una fotografia è dannatamente facile. Un'affermazione che non può essere capita appieno da chi è abituato alla reflex 35 mm che fa tutto da sola, perché con quella per sbagliare bisogna mettercela tutta.

Invece col grande formato no. Prima di tutto diventi cretino a togliere la polvere dagli chassis quando carichi la pellicola piana. Il pennellino non serve e le bombolette d'aria compressa non fanno altro che spingere la polvere negli interstizi più nascosti. Perciò escogiti mille sistemi e credi sempre che l'ultimo sia il più efficace, quello definitivo. Fai le cose più cretine con la serietà di Galvani quando titillava le zampe di una rana morta per scoprire l'elettricità, del tipo ficcare gli chassis in lavastoviglie, e riesci persino a prenderti sul serio. Poi, quando pensi che tutto sia perfetto, gli chassis puliti come un abito da sposa appena estratto dalla scatola, un minuscolo peluzzo volante viene attratto dall'elettricità statica che si è accumulata sullo chassis (per forza: a furia di sfregarlo!) e vi si posa dolcemente mentre tu stai già infilando la lastra e non puoi più tornare indietro, perché ormai sei immerso nel buio totale e non ti accorgeresti nemmeno se sulla lastra si depositasse un meteorite da venti tonnellate.

Ora, nella casa di Torino io la camera oscura non ce l'ho. Non mi serve, dato che lavoro quasi esclusivamente su pellicola invertibile. E non ho neppure una stanza completamente oscurabile. Ci sono due bei ripostigli grandi, è vero, ma nei ripostigli di tutte le case di tutto il mondo non è che si tolga la polvere tutti i giorni, giusto? Per cui sono il posto più sbagliato per prepararci le pellicole piane. Nella casa di montagna ho un bagno completamente buio e l'operazione risulta più facile: appoggio tutto sulla lavatrice e ci metto trenta secondi a preparare cinque chassis doppi. Dalla polvere sono immune perché Claudia tiene la casa come se dovesse venirci Barnard (Dio l'abbia in gloria!) a fare un trapianto di cuore. E non posso neppure dirle "esci con me invece di pulire", perché lei è talmente veloce che mentre glielo dico ha già disinfettato tutto, me compreso se non mi defilo in fretta. Perciò il bagno di Fenilliaz è il posto migliore per maneggiare pellicole. L'unico rischio è che qualcuno della famiglia, spinto da improvvisa necessità e dimentico delle mie raccomandazioni, mi accenda improvvisamente la luce mandando al diavolo centoventimila lire di lastre, ma grazie al cielo non è ancora successo.

Invece nell'appartamento in città sono costretto a ricorrere a sistemi alternativi. Per anni ho usato la "camera oscura portatile" (changing bag). Detto così sembra una cosa furba, soprattutto se lo si scrive in inglese, ma in realtà è una gran cavolata: si tratta di un sacco molle a due strati: fuori di plastica e dentro di cotone, con due cerniere lampo (in pratica sono due sacchi l'uno dentro l'altro). Si infilano gli chassis e la confezione di pellicole piane dentro il sacco, si chiudono entrambe le zip (normalmente pizzicando il tessuto o la plastica e perdendo venti minuti a disincastrare il cursore), si infilano i guanti e si ficcano le mani in due aperture apposite, chiuse con un elastico che teoricamente dovrebbe stringersi intorno ai polsi e non far passare la luce. "Teoricamente" perché dovete ricordare di compiere il rito con le braccia nude: l'orologio o il polsino della camicia possono fare spessore e favorire le infiltrazioni di luce.

Dopodiché cominciate a pasticciare alla cieca, rendendovi conto che è maledettamente difficile farlo perché le pareti del sacco, che sono molli, aderiscono a tutto e impediscono di manovrare in modo corretto. Oltretutto lì dentro c'è un mucchio di roba, e aprire la scatola (che per evitare infiltrazioni di luce ha due coperchi incastrati l'uno al contrario dell'altro), strappare la busta di alluminio, rimuovere il cartone protettivo (ma soprattutto distinguere al tatto e con i guanti il cartone protettivo dalla lastra vera e propria) e infine afferrare la lastra e girarla in modo che le tacche di riferimento si trovino in alto a destra diventa più scomodo che salire sull'autobus alle otto del lunedì mattina con una Samsonite da trenta chili in una mano e un bambino urlante sull'altro braccio. Io so cosa vuol dire perché l'ho fatto.

E non è finita qui, perché adesso devi sfilare il volet, aprire a 180 gradi l'antina dello chassis e infilarci la lastra. Ehehehehe! Cosa numero uno, hai sempre quel cavolo di sacco che ti si affloscia sulle mani e non sai come liberartene; cosa numero due, devi imboccare con estrema precisione le scanalature presenti ai lati dello chassis, ma quelle destinate alla lastra e non quelle dove scorre il volet. Voi dite, che problema c'è? Se sbaglio, sfilo via la lastra e ripeto l'operazione. Ehehehehe! Facile a farsi in camera oscura, con un piano di lavoro a disposizione; ma è tutto diverso mentre stai manovrando alla cieca in una cavità poco più grande di uno stomaco, piena di roba e soprattutto più appiccicosa di un'innamorata respinta. Quando poi finalmente hai deciso che tutto è a posto chiudi lo chassis e fai scorrere in posizione il volet. Operazione che normalmente va ripetuta un paio di volte, perché la prima volta finisci per pizzicare sotto il volet, a scelta, a) il tuo guanto, b) la parete interna del maledetto sacco.

Dopo dieci repliche di questo balletto (tante quante sono le lastre contenute in una confezione di pellicole invertibili), sfili via le mani, ti strappi di dosso i guanti che nel frattempo sono diventati una sauna e stai cinque minuti in raccoglimento per chiedere perdono a tutti i santi che hai tirato giù dal cielo mentre preparavi gli chassis.

Oggi ho cambiato sistema: uso una "portable changing room", in pratica una piccola tenda canadese, con tanto di paletti e le solite maniche per infilarci le braccia. I paletti la tengono in tensione ed evitano che ti si afflosci sulle mani. Peccato che quelle intelligenze smisurate che l'hanno progettata (americani, ovviamente) abbiano pensato bene di dotare le maniche di polsini in lana, belli stretti per evitare le infiltrazioni di luce. Già, peccato che la lana sia piena di pelucchi, così che quando infili le mani trascini dentro la tua camera oscura l'equivalente del vello di una pecora adulta del Kashmir, che va a depositarsi, vedi caso, proprio sulle lastre vergini messe a nudo e sulla parte interna degli chassis. Sarò tardo, ma ci ho messo un mese a capire da dove cavolo potevano venire tutti quei pelucchi che mi costringevano a buttar via negativi irripetibili!

Voi dite, sei un primitivo: oggi ci sono i dorsi a caricamento rapido, che devi solo infilare la lastrina e tirar via il cartoncino di protezione. Ehehehehe! Io i dorsi a caricamento rapido li ho provati tutti. E non solo: per non sentirmi proprio l'ultimo dei balenghi mi ci sono fatto una cultura leggendo tutto, ma proprio tutto, quello che c'è scritto su Internet in proposito. Credetemi: so tutto sui dorsi a caricamento rapido.

So per esempio che il sistema Kodak ReadyLoad mi consente di buttare nella spazzatura almeno una lastra su due, perché ogni tanto capita una confezione difettosa e il fermo metallico che chiude la parte inferiore della busta si aggrappa al meccanismo di sgancio durante l'estrazione e si stacca, permettendo alla luce di entrare allegramente e di fare scempio dell'immagine che ci avevi messo venti minuti a comporre. E se proprio è il tuo giorno fortunato, di quelli che era meglio se restavi a dormire, ne bruci due insieme, perché la Kodak si è fatta questa bella pensata di mettere due lastre nella stessa busta, giusto per risparmiare quei due grammi di cartoncino! Dice: adesso il problema è risolto, perché Kodak ha messo in commercio le lastre "single sheet", dove c'è una sola lastrina per busta. Vero, peccato che per procurarmele debba andare in Francia, dato che la Kodak Italia ha deciso di non importarle vista la scarsa, praticamente nulla richiesta da parte dei fotografi. Ovvio: in questo paese di furbi chi volete sia tanto pirla da usare ancora il grande formato?

Così, dopo avere speso più di duecentomila lire nel dorso Kodak sono passato al sistema QuickLoad della Fuji, che per adesso non mi ha dato problemi, è vero, ma che - ragazzi! - è dannatamente costoso. Se a tutto questo si aggiunge il fatto che sono davvero poche le emulsioni disponibili in confezione a caricamento rapido, ecco perché dalla scorsa estate ho deciso di ritornare al vecchio sistema del caricamento manuale. A proposito, vendo un dorso ReadyLoad.

Bene. Ho usato un bel po' di parole e di tag html soltanto per spiegare qualcosa riguardo al caricamento delle lastre. Cos'è che usate voi, una reflex col motore che aggancia automaticamente la pellicola appena la ficcate dentro? Bravi, voi sì che avete capito.

Adesso basta mettere tutto nello zaino e partire, che ci vuole? Già, peccato che nello zaino ci deve stare anche tutto quello che serve per coprirsi in caso di maltempo improvviso, un paio di calze e una T-shirt di ricambio, l'acqua e i generi di conforto, senza dimenticare la bustina del pronto soccorso e il telefono cellulare. In qualche caso, poi, ci vogliono anche la corda, la picozza e i ramponi, controllando che anche gli altri membri del gruppo facciano lo stesso. Per ultima (ma solo perché va sistemata nella parte alta dello zaino) viene l'attrezzatura fotografica. Dunque: la folding con l'ottica già montata, un obiettivo in più già fissato alla sua piastra, il filtro polarizzatore, lo scatto flessibile, il paraluce, il panno nero… Ah già, importantissimo: il cavalletto, senza il quale non si può lavorare in grande formato. Bene, si parte…

C'era tutto, vero? Perfetto, si raggiunge la meta, si parcheggia l'auto, si percorrono tre ore di sentiero e davanti al primo stupendo lago glaciale si apre il cavalletto e si monta il tutto. Aprire il frontalino, estrarre l'obiettivo, aprire il diaframma, aprire manualmente l'otturatore, avvitare lo scatto flessibile, mettersi il panno nero sulla testa e osservare il vetro smerigliato. Mettere a fuoco, correggere l'inquadratura, basculare e/o decentrare, rifare le messa a fuoco. Adesso l'effetto del filtro polarizzatore: ruotare il filtro con calma, fino a quando il cielo non appare scuro al punto giusto. Ancora un controllo e si esce da sotto la capannuccia buia un po' più accaldati di prima, giusto quanto basta per farti perdere quel paio di chili, con grande soddisfazione di tua moglie che ti stressa perché sei grasso, se solo bevessi meno birra. Adesso si misura l'esposizione. Aaaah, bene, con calma: si decide dove si vuole il grigio medio e lì si punta lo spot del Sekonic: 1/30 di secondo con f/32. Perfetto. Adesso si controllano gli altri punti per verificare quanto si discostano dal grigio medio, si fa attenzione che le alte luci e le ombre non cadano nelle zone estreme della scala, eventualmente si corregge l'esposizione... fatto. Non resta che chiudere manualmente l'otturatore, impostare tempo e diaframma (ricordandosi di aprire di due stop per compensare l'effetto del filtro), armare l'otturatore e infilare lo... chassis? Ma... ma dove sono gli chassis? Merda! vuoi vedere che...

Ecco, questo ho anche imparato: che prima di uscire di casa bisogna fare una check list. E un'altra cosa: da quando fotografo in grande formato conosco molte più parolacce di prima.

E sto pure rischiando di diventare misantropo. No, dico, ma è possibile mai che quando un povero diavolo si ferma a fare una fotografia debba avere il capannello di curiosi intorno? Ma non è che la gente abbia di meglio da fare? E poi, io mi chiedo, com'è che lungo i sentieri di montagna non incontri mai anima viva, ma quando incominci ad aprire le zampe del cavalletto ti si affollano intorno come le locuste sull'unico cespuglio di tutto il deserto? Da dove caspita sono spuntati e - soprattutto - dov'erano fino a pochi minuti fa? Okay, ma finché guardano non danno poi tutto quel fastidio. Come ben sanno le mie amiche, io sono sufficientemente vanitoso da non sentirmi a disagio (anzi) di fronte agli spettatori. Il guaio è che parlano. E la prima idiozia che profferiscono, con la regolarità di un cronografo svizzero, non appena apro la folding, è: "Ma perché fotografa con una macchina così antica?" Oh, sublime ignoranza! Oh, fastidio supremo di essere ogni volta costretto a spiegare che la presenza di un soffietto e di un paio di standarte in legno non denota, necessariamente, che la macchina debba essere obsoleta. La mia Wista DX è nuova di trinca, come lo è il cavalletto in legno sul quale è montata: un Berlebach made in Germany costato parecchie migliaia di gocce del mio sangue ma insuperabile nell'ammortizzare le vibrazioni. Qualche volta provo a fingere di non aver sentito, ma poi devo replicare, è più forte di me, non ce la faccio. E così invece di fotografare sono costretto a improvvisare una conferenza, perché alle domande cretine che possono scaturire dalla mente umana non v'è limite alcuno (credetemi, con tutta la fantasia non riuscireste mai a immaginare che cosa sono capaci di tirar fuori). Ma perché non guardano tacendo?

Teoricamente ci sarebbe bisogno di una check list anche quando si fotografa, almeno all'inizio. E' vero che dopo un minimo di esperienza la sequenza delle operazioni diventa automatica, ma sono molte le cose da fare, e dimenticarne una non è poi così difficile. Ad esempio è possibile dimenticare di chiudere manualmente l'otturatore prima dello scatto, così che appena il volet viene estratto la pellicola brucia; è possibile per contro scattare la foto senza avere estratto il volet; oppure dimenticarsi di girarlo dalla parte bianca dopo lo scatto, così si fanno due fotografie sulla stessa lastra. E questo fa davvero arrabbiare, soprattutto quando si pensa a quanto costa fotografare in grande formato.

Perciò ho anche imparato che quando fotografo devo avere intorno a me il silenzio e la quiete (il che non è difficile, visti i posti dove lavoro di solito), ma soprattutto essere capace di creare in me stesso la giusta calma interiore e la necessaria concentrazione.

Un'altra cosa che si dimentica spesso è di applicare il fattore di incremento dell'esposizione quando si fotografa da vicino, così che si ottengono immagini sottoesposte. Questo accade soprattutto ai principianti, abituati all'esposimetro TTL della reflex che compensa automaticamente la caduta di luce dovuta all'aumentato rapporto di riproduzione.

Il vero problema di chi inizia a lavorare in grande formato è però capire fino in fondo le leggi che regolano i movimenti di decentramento e basculaggio. Il che non significa soltanto evitare di decentrare più di quanto consentito dal cerchio di copertura dell'obiettivo, ma anche - per esempio -  imparare ad applicare "a occhio" la regola di Scheimpflug, soprattutto se si lavora all'aperto. E per fare questo non c'è calcolo che valga quanto l'esperienza. Ovviamente dopo aver mosso le standarte bisogna rifare la messa a fuoco, il che non è sempre facile. E com'è noto chiudere molto il diaframma per cavarsi dai guai non si rivela sempre la scelta giusta. Perciò non resta che controllare accuratamente la nitidezza di ogni elemento dell'inquadratura esplorando con attenzione il vetro smerigliato, magari aiutandosi con una loupe: il fatto che l'immagine sia capovolta aiuta molto, in questo caso, dato che ci consente di non lasciarci distrarre da quello che stiamo vedendo. Inoltre bisogna controllare bene gli angoli del campo inquadrato, per verificare l'assenza di vignettature dovute a un cerchio di copertura insufficiente.

Mah... adesso che sono arrivato alla fine mi accorgo che sto di nuovo ricominciando a dare lezioni. Segno che tutto sommato la depressione è sparita ed è ricomparsa la voglia di fotografare. Sì, ma in un angolino della mia mente c'è ancora una fastidiosa vocina che mi chiede: ma perché in grande formato? Okay, d'accordo, il negativo è più grande, i fili d'erba si contano ad uno ad uno, la gamma tonale è straordinaria, l'immagine sembra saltar fuori dalla diapositiva e a volte diventa ancora più bella quando la si stampa... Senza contare che le agenzie e gli editori vanno insieme come la maionese quando vedono una lastra 4x5" però...

Però, per quale perverso motivo prima di scattare l'ennesima foto dell'ennesimo ghiacciaio, decentrando l'obiettivo verso l'alto per includere la vetta della montagna, basculando il dorso per mettere in risalto quella roccia in primo piano, misurando trenta volte l'esposizione per decidere dove accidenti voglio il grigio medio, arrabbiandomi con la nuvola che passa lì davanti proprio adesso e pensando - di sfuggita - a quanto mi costerebbe sciupare una lastra; per quale deformazione mentale prima di fare tutto questo - facendo aspettare gli amici e spingendo alla rivolta i compagni di cordata - non mi fermo un istante a chiedermi perché?

Michele Vacchiano © 03/2002