La descrizione del Mamiya ULD 210mm f/4 IF fatta da B&H è a dir poco entusiastica ed era impossibile non desiderare di provarlo, ma trovare sul mercato gli obiettivi marcati Mamiya è divenuto meno facile di un tempo visto che Mamiya è stata assorbita da Phase One, ma eccolo qui!
Il Mamiya ULD 210mm f/4 IF è un medio teleobiettivo dotato di lenti a bassa dispersione (da cui la sigla ULD, “Ultra-Low Dispersion”) e messa a fuoco interna (IF = “Internal Focusing”).
Questa combinazione assicura – secondo molti commentatori, soprattutto di lingua anglosassone – una qualità di immagine spesso definita “superba”. Del resto, trattandosi di un obiettivo per il medio formato, c’è da aspettarsi una particolare cura e attenzione al mondo dei professionisti.
La descrizione del Mamiya ULD 210mm f/4 IF fatta da B&H (il celebre negozio newyorkese sulla 9th Avenue) è a dir poco entusiastica (e di solito loro non si sbilanciano più di tanto): “Mamiya manufactures its own glass and coats the lens elements using Mamiya’s proprietary multi-coating process, increasing light transmission, dramatically reducing flare, and ensuring crisp, clean whites and vibrant natural colors”.
Viene voglia di provarlo e così ho fatto, cercandolo in rete. Ma trovare sul mercato gli obiettivi marcati Mamiya è divenuto meno facile di un tempo: come è noto, Mamiya è stata assorbita interamente da Phase One, che ne ha ereditato e perfezionato le piattaforme, pur mantenendo la totale compatibilità tra corpi e ottiche.
Mamiya produce gli obiettivi marcati Phase One (migliorati per il digitale), mentre Schneider realizza per Phase One una seconda serie di ottiche, dotate però di otturatore centrale. Ma né Phase One né Schneider hanno ereditato da Mamiya la focale di 210 millimetri, per cui sono stato costretto a impegnarmi un po’ più del solito per trovarla. Oggi il Mamiya ULD 210mm f/4 IF è proposto da un numero alquanto ridotto di fornitori, che lo vendono a prezzi diversificati, con una media che si aggira intorno ai 1.600 Euro.
In mano
Il Mamiya ULD 210mm f/4 IF sembra ben costruito, anche se le sue dimensioni appaiono piuttosto contenute: il diametro è più simile a quello di un obiettivo per il formato Leica e anche la lente frontale ha dimensioni ridotte (un diametro filtri di 58 millimetri è davvero inconsueto nel mondo del medio formato).
Tuttavia, in mano sembra pesante e stabile al punto giusto, anche se dispiace constatare che il paraluce (a scorrimento) è realizzato in plastica invece che in metallo.
L’autofocus si inserisce spostando in avanti la ghiera di messa a fuoco: una ghiera di dimensioni ridotte ma dalla rotazione morbida e ampia, che facilita la regolazione manuale.
Il peso è di 750 grammi, inclusi i tappi anteriore e posteriore. Il range dei diaframmi va da f/4 a f/32, come è consueto per le ottiche di medio formato. La minima distanza di messa a fuoco è di due metri, mentre l’angolo di campo è di 19 gradi, quindi paragonabile (più o meno) a un 135 millimetri sul formato Leica. Il “più o meno” è doveroso non soltanto per la differenza di proporzioni tra i diversi formati, ma anche perché i sensori di medio formato non hanno tutti le stesse dimensioni, pertanto non è possibile stabilire una corrispondenza esatta. Lo schema ottico è composto da sette lenti in cinque gruppi, un numero di elementi che fa ben sperare riguardo all’assenza di flare e riflessi parassiti: vedremo in pratica come si comporta a questo riguardo.
Sul campo
Il Mamiya ULD 210mm f/4 IF è perfettamente compatibile con i corpi macchina Phase One, sui quali mantiene tutti gli automatismi.
Per provarlo, è stata usata una Phase One 645DF+ equipaggiata con due differenti dorsi: il primo da 39 milioni di pixel, il secondo da 60,5 milioni di pixel.
La scelta non è stata casuale, né priva di conseguenze, come vedremo tra poco.
Per cominciare, ho ritenuto opportuno testarlo in situazioni capaci di mettere in risalto le caratteristiche tipiche della focale: compressione dei piani prospettici nelle riprese d’ambiente, ripresa di particolari architettonici, ritratto, fotografia naturalistica.
Per queste prove ho usato il sensore più piccolo.
La figura 2 è stata scattata nella piazzetta reale di Torino: i piani prospettici (ben evidenziati dagli alberelli ornamentali) appaiono ravvicinati tra loro, così come lo sfondo, grazie al comportamento tipico delle lunghe focali.
La figura 3 è stata realizzata a Cavour (provincia di Torino), elegante cittadina sabauda che ogni anno, a novembre, organizza “Tuttomele”, una fiera agricola e artigiana vòlta alla valorizzazione della biodiversità e delle varietà di mele autoctone del Piemonte; molte insegne di negozi sono realizzate secondo uno stile caratteristico e un medio teleobiettivo rappresenta lo strumento ideale per riprenderle a fotogramma pieno.
La figura 4 è un ritratto realizzato in studio: la figura 4a è l’ingrandimento dell’area di messa a fuoco (secondo le regole, l’occhio della modella più vicino al fotografo).
Risolvenza
La figura 4a mostra con sufficiente chiarezza le capacità risolventi dell’obiettivo, ma – in mancanza di dati strumentali, che non sono riuscito a reperire – voglio mostrare anche la figura 5: il particolare di un nodo realizzato con fibre vegetali.
Questa è stata realizzata su un sensore da 60,5 milioni di pixel: una densità capace di esaltare le qualità (ma anche di evidenziare i difetti) di qualunque obiettivo. L’immagine non è una macro (il Mamiya ULD 210mm f/4 IF ha una distanza minima di messa a fuoco di due metri, quindi è inadatto alle riprese ravvicinate), ma l’ingrandimento dell’area centrale di una fotografia realizzata, appunto, a poco più di due metri dal soggetto (una fascina di ramaglie). La risoluzione e la nitidezza dei dettagli sembrano accettabili, considerando che l’area sottoposta a ingrandimento misura, nella realtà, circa 4 centimetri di larghezza per 3 di altezza.
Distorsione
Se osserviamo con attenzione la figura 2, notiamo che le linee ortogonali della facciata di Palazzo Reale sono riprodotte in modo corretto, senza notare l’incurvamento verso l’interno (distorsione a cuscinetto) tipico delle lunghe focali.
Essenzialmentela distorsione non c’è, almeno all’osservazione diretta.
Del resto, se anche ci fosse, non solo sarebbe trascurabile, ma anche del tutto priva di influenze sull’immagine.
Risposta al controluce
La figura 6 è un collage di fotografie scattate dal terrazzo di casa a diversi valori di diaframma e a pochi secondi di distanza. Come si vede, ai diaframmi più aperti sono presenti aloni colorati ed effetti di flare piuttosto evidenti, che scompaiono gradatamente chiudendo il diaframma.
Da uno schema ottico dotato di poche lenti e da un trattamento antiriflesso così decantato dagli americani di B&H ci si aspetterebbe sinceramente un risultato migliore. Per cui, piuttosto perplesso dal risultato, ho voluto essere cattivo e sono passato ai…
Confronti
Non andrebbe fatto ma l’ho fatto lo stesso, prendendolo come un gioco: ho messo a confronto il Mamiya ULD 210mm f/4 AF, montato sulla Phase One, con uno Zeiss Apo-Sonnar 135mm f/2 montato su una Canon 5DS R.
Due sensori dalla densità paragonabile (60,5 contro 50,6 milioni di pixel), ma su due formati differenti (l’uno il doppio dell’altro) e con fotodiodi di dimensioni e caratteristiche imparagonabili, per non parlare dell’architettura stessa dell’elemento sensibile (CMOS contro CCD).
Senza contare gli obiettivi, simili soltanto nell’angolo di campo ma diversi in quanto a schema ottico e (probabilmente) potere risolvente.
Ho scritto “probabilmente” perché – come già detto – non sono riuscito a reperire i test MTF relativi al Mamiya ULD 210mm f/4 AF. Poi, giusto per esagerare, ho rifatto la stessa fotografia montando sulla Phase One un vecchio Zeiss Sonnar 180mm f/4 per Hasselblad serie V, con anello adattatore. Alla ricerca di una (impossibile) uniformità di risultati, ho realizzato le tre fotografie allo stesso valore di diaframma, f/8, e alla stessa sensibilità (100 ISO). Un diaframma 8 è già in grado di minimizzare gli effetti delle aberrazioni residue presenti a tutta apertura, ma non è ancora così chiuso da rendere evidenti gli effetti della diffrazione.
Inoltre è generalmente a questo diaframma (oltre che a tutta apertura) che vengono riferiti i grafici dei test MTF. In tutti e tre i casi, per massimizzare la stabilità, ho montato le reflex sul cavalletto (Manfrotto 055 con testa a cremagliera SKU 410), sollevato lo specchio prima dello scatto e impostato l’autoscatto con un ritardo di 10 secondi, per essere strasicuro che ogni vibrazione si fosse ormai esaurita.
La figura 7 è la visione di insieme. La figura 7a illustra i risultati ottenuti con i tre obiettivi a un ingrandimento del 100% (cliccare sulle foto per vederle a dimensioni reali).
L’analisi delle tre immagini (effettuata ovviamente sui RAW originali, che qui non possiamo mostrare), ha condotto alle seguenti…
Conclusioni
Le immagini che corredano questo articolo sembrano tutto sommato soddisfacenti in termini di risolvenza e finezza dei dettagli, ma non più di quanto normalmente ci si aspetta da un obiettivo destinato a un uso professionale.
Però attenzione! Le immagini pubblicate non soltanto sono notevolmente ridotte rispetto ai RAW originali, ma sono anche accuratamente elaborate, allo scopo di migliorare contrasto, nitidezza e chiarezza, con un attento studio di luci e ombre.
Questo perché il RAW originale generato dal Mamiya ULD 210mm f/4 AF ha un aspetto desolatamente “morbido” e “piatto”.
Che cosa è successo?
Semplicemente, è successo che gli obiettivi nati per la pellicola (anche di medio formato) hanno un potere risolvente inferiore a quello dei sensori più performanti.
Il Mamiya ULD 210mm f/4 AF fornisce buoni risultati su un sensore da 39 milioni di pixel (pur con i dovuti interventi in fase di trattamento), ma mostra tutti i suoi limiti sul sensore più grande (e una volta e mezzo più denso).
La conferma di quanto detto è data dal comportamento del “glorioso” Sonnar 180mm f/4 per Hasselblad, che abbiamo usato per il confronto: un obiettivo superbo su pellicola o su sensori di taglia non eccessiva, ma piuttosto deboluccio (pure lui) su un sensore di 8984 x 6732 pixel!
La controprova è data dal comportamento dell’Apo-Sonnar 135 f/2: un’ottica di piccolo formato ma progettata per il digitale, e quindi capace di evidenziare (anche sul “sensorone” da 50 milioni di pixel della Canon 5DS R) tutti i particolari che ai fratelli maggiori (non solo in termini di taglia, ma anche e soprattutto in termini di età) sono sfuggiti.
Ma allora, gli americani?
Evidentemente i commenti entusiastici trovati in rete si riferiscono a prove effettuate su pellicola, o su sensori di qualche anno fa, quando 22 milioni di pixel sembravano un limite invalicabile.
Oggi che la risoluzione dei sensori di medio formato ha eguagliato – e in alcuni casi superato – quella della pellicola piana di grande formato, gli obiettivi di vecchia generazione andrebbero onorevolmente pensionati.
Sono certo che il Mamiya ULD 210mm f/4 AF è in grado di fornire fotografie perfettamente vendibili, ma solo lavorando parecchio in postproduzione ed evitando (o affrontando con molta cautela) le situazioni di controluce esasperato.
Michele Vacchiano © 01/2017
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