Ricordo, con nostalgia e un poco di indulgenza, quelle lontane giornate in Sicilia a fotografare uccelli e quant'altro, con gli amici del WWF di allora. Alla foce del Simeto, a Vendicari, nei Nebrodi o alla Cava del Cassibile, passavamo ore e ore a scrutare il cielo col binocolo e a cercare di fermare quegli incontri sempre troppo brevi ed improvvisi. L'attrezzatura di base era quasi sempre costituita da una macchina dotata di winder o motore e un obiettivo catadiottrico, che, negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, era considerata l'ottica di base per la caccia fotografica vagante, per la sua potenza d'ingrandimento e per il suo peso favorevole.
L'obiettivo a specchi, o catadiottrico (il cata nel linguaggio tra fotografi) è un sistema ottico che sfrutta il rimbalzo dell'immagine tra un sistema di specchi, con tecnologia di derivazione astronomica, Si ottiene un obiettivo con luminosità fissa (non c'è diaframma) più corto e leggero di un equivalente obiettivo a lenti. Credo che nel corso degli anni di averli provati quasi tutti: i pesanti MTO russi, sia 500 che 1000mm, più adatto quest'ultimo a essere montato su cavalletto, il leggero e otticamente molto valido 500mm Tamron, il mediocre Tokina, il discreto 600mm Sigma. Naturalmente c'era il formidabile (e otticamente inarrivabile) Mirotar Zeiss f/4,5, ma peso e dimensioni ne sconsigliavano l'uso sul campo.
La luce era sempre poca, in quanto la luminosità costante di f/8 era molto limitante, e le pellicole da 400 ASA costituivano la base della fotografia, aumentando, con la loro grana e la messa a fuoco approssimativa, nell'azione concitata dell'apparire dei volatili, la mediocrità del risultato finale. Per inciso, occorre ricordare che parliamo sempre di ottiche con messa a fuoco manuale. I tempi di otturazione raramente superavano 1/125 di sec, e si utilizzava spesso il supporto a spalla, che aiutava sia nella messa a fuoco che nel contenere le vibrazioni. Il più delle volte si finiva per tenere pochi, pochissimi fotogrammi e lo scarto a fine giornata poteva anche arrivare a trenta fotogrammi per rullo. Il manuale sugli uccelli, il binocolo e una boraccia completavano l'attrezzatura di base. L'emozione e l'attesa dell'incontro, il divertimento, lo stare in compagnia e l'imparare a conoscere ambienti e animali facevano superare tutte le difficoltà.
Naturalmente nessuno poteva immaginare allora gli obiettivi autofocus, ed anche stabilizzati, il poter scattare centinaia di fotogrammi liberamente, e le innovazioni ottiche sui teleobiettivi: novità che hanno completamente cambiato la fotografia naturalistica.
Ammetto che, rivedendo le foto oggi, non posso che constatare la mediocrità complessiva dei risultati, specie in relazione al defatigante impegno, ma anche il rimpiangere le ore passate all'aria aperta. Un tesoro di esperienze che ho poi sfruttato nel resto del mondo.
Poi finalmente nel 1980 approdai al Telyt 500/8 Leica, abbinato a R4S, fornita di vetrino tutto smerigliato, e winder: in realtà non è che fosse così nettamente migliore delle altre ottiche citate in precedenza. Di derivazione Minolta (al tempo dell'interscambio tecnico tra le due Case), e con un peso di 660g, presentava sicuramente una costruzione meccanica superiore, cosa non del tutto trascurabile nella caccia fotografica vagante, durante la quale i tele erano sempre sottoposti a urti e stress, e i catadiottrici più degli obiettivi a lenti, con il loro delicato sistema di specchi. Bastava qualche piccolo urto, anche casuale, per compromettere la planeità degli specchi e pertanto la resa finale. Sotto questo profilo il Leica era molto ben realizzato, senza arrivare agli eccessi da carro armato degli MTO. La resa ottica era pulita, fredda, il che aumentava la sensazione d'incisione, che poi non era così determinate.
Il vero segreto era scattare con tempi di otturazione adeguati, possibilmente sopra 1/250 cercando di arrivare al fatidico millesimo: allora il Leica mostrava appieno le sue potenzialità. Se si riusciva a portarsi dietro un cavalletto leggero e a montarlo in un posto riparato, si poteva agire con calma, mettendo a fuoco gli occhi dei volatili mentre pasturavano ignari nell'acqua bassa, per ottenere immagini con i caratteristici anelli nello sfuocato, che segnalano, inequivocabilmente, l'uso dell'obiettivo a specchi. La profondità di campo era sempre minima, e da qui nascevano i problemi di una messa a fuoco precisa, mentre il soggetto, schiacciato dall'ingrandimento 10x, spesso risultava quasi incollato allo sfondo. La minima distanza di messa a fuoco a soli 4 metri aiutava in molte situazione, negli incontri con piccoli animali campagnoli come la Donnola. Comunque i trucchi per migliorare le immagini non risiedevano nell'obiettivo usato: una giornata ventosa o una mattinata dopo una notte di pioggia, con la loro aria tersa e limpida, potevano donare alle immagini una notevole risolvenza rispetto alle classiche giornate calde e umide.
La Sicilia di allora era un paradiso ornitologico (e del resto lo diceva anche Federico II di Svevia, nel suo De Avibus, qualche anno prima…) e nel corso degli anni ho fotografato di tutto, dalle Aquile (indimenticabile quella di Alcari LiFusi) ai fenicotteri sino ai Grifoni, poi scomparsi. Tra i miei preferiti non potevano mancare gli stupendi Cavalieri d'Italia, unici per eleganza e gli stupendi Gruccioni cui tanto tempo ho dedicato.
Propongo una serie di scatti con Telyt 500 in ricordo di tutti i momenti felici e sereni, passati tra stagni e salicornia, che non potrò mai scordare: non appartengono alla sezione della fotografia naturalistica, ma a quella della fotografia della giovinezza.
Pierpaolo Ghisetti © 04/2016
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