Gli anni ‘70 furono un momento di grazia per gli ingegneri della Leitz. In quel decennio vennero alla luce alcune delle nostre ottiche più amate, autentici prodigi di poeticità fotografica come il 50 Summicron 6 lenti (il cosiddetto “Wetzlar”) o la terza serie del 35 Summicron, entrambi per il sistema telemetrico. E per le reflex, gemme incomparabili come il 35 Summicron 9 lenti, il 60 Macro-Elmarit o il primo 50 Summilux, ispiratore di questo articolo, partorito dal genio matematico di Heinz Marquardt con uno schema ottico di 7 lenti in 6 gruppi.
L’oggetto è di per sé meritevole di venerazione, con la sua lente frontale “lacustre”, il suo paraluce di foggia vezzosamente démodé, che si innesta fermo e sicuro sui due pioli della ghiera anteriore, un tappo che assomiglia a quello della biscottiera della nonna: entrambi scrigni di piaceri inenarrabili, apprezzabili solo dai palati più fini. Sapori di una volta che oggi appaiono di difficile decodifica a giudicare dal mercato internazionale dell’usato, dove questa lente viene accreditata di quotazioni assai altalenanti, con escursioni anche del doppio o triplo tra un venditore e l’altro, a parità di condizioni. Quotazioni talvolta movimentate dai ciclici miraggi di imminenti modelli digitali ad attacco Leica R.
Le foto a corredo di questo articolo sono realizzate con la Canon 5D. Un matrimonio felice tra la generosa full frame nipponica e questo classico obiettivo “normale”, che di normale non ha proprio nulla. Il tedesco porta in dote una luminosità che lo stop-down mortifica in parte, pur senza pregiudicarne le possibilità creative (v. “Elogio del fuoco manuale”). Ma è ovviamente a tutta apertura che egli dispiega per intero la sublime sinfonia di sfumature di cui è capace, esaltando l’essenza iscritta nel suo nome.
Non apprezzo particolarmente l’uso spregiudicato della profondità di campo (detesto i ritratti con un occhio a fuoco e l’altro no), tuttavia ogni tanto è bello affogare nella luce, e bisogna riconoscere che è nel rituale della piena apertura che il Lux sprigiona tutta la sua psichedelica energia, sulla tacca dell’uno-e-quattro, dove ogni volta il miracolo si rinnova, il sangue si scioglie, la realtà si vaporizza come in un narghilé, dove perdersi è un’estasi e ritrovarsi una piacevole fatica.
È l’incanto della luce. Nel visibilio dell’indistinto poter intravvedere sogni venturi, nell’oceano di sfuocato riassaporare sensazioni che ormai davi perdute per sempre. Come i biscotti della nonna.
Carlo Riggi © 10/2010
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