Nella vita di un viaggiatore ci sono mete che magari si rimandano di anno in anno, per i motivi più svariati, e che talvolta, se si esaurisce il periodo giusto, diventano praticamente inaccessibili.
Mi è successo, ad esempio, di visitare lo Yemen proprio nell’intervallo tra la fine di una guerra e l’inizio di un nuovo conflitto, in una breve tregua. Così è stato anche per il Mali, il grande paese africano noto per il fiume Niger e la leggendaria città di Timbuctù, la regina delle sabbie. Nella seconda metà degli anni Novanta ho avuto il piacere di visitare accuratamente questa autentica parte di Africa nera, che ricorda i paesaggi del film di Allan Quattermain, avventuriero e cacciatore, ottimamente interpretato da Stewart Granger, che mi incantò da ragazzo per gli sconfinati spazi africani. Purtroppo oggi il Mali, a causa dell’attività di svariati gruppi terroristici, è inavvicinabile.
Dopo la grande Moschea di fango di Djennè (il più grande edificio di fango del mondo) e il suo coloratissimo mercato, sicuramente uno dei punti di maggior interesse risiede nella falesia di Bandiagara e i famosi villaggi Dogon, con una scenografia che sembra quasi uscita dal film Le miniere di Re Salomone, non a caso premio Oscar per la migliore fotografia nel 1951.
Questa grande muraglia, lunga più di 200 kilometri, si alza imperiosa per diverse centinaia di metri di fronte al grande vuoto del Sahel, quella striscia semidesertica che divide l’Africa della zona piovosa dal mondo secco e desolato dell’immenso Sahara. Sotto la spettacolare gialla falesia sono sparsi i piccoli villaggi del popolo Dogon, costituiti da case di argilla di forma rettangolare e con il caratteristico tetto di paglia.
Molte di queste costruzioni sono granai, dove conservare sorgo e miglio, cereali che forniscono la base dell’alimentazione. Dal miglio si ricava una specie di birra fermentata abbastanza diffusa nella zona, mentre le cipolle lì coltivate si dice siano le migliori di tutto il paese.
La popolazione Dogon è nota, tra le tante etnie africane, per la sua complessa cosmogonia, in alcuni casi accessibile solo agli adepti di particolari sette, ed è una caratteristica peculiare di questo popolo tra le tanti che abitano la zona di Mopti, dove appunto Bandiagara è situata. Le loro conoscenze astronomiche sono incredibilmente vaste, specialmente se si considera la povertà assoluta dei loro mezzi, ed acuisce il mistero della loro reale provenienza.
Essendo tra l’altro un collezionista di maschere etniche, specialmente africane, ho potuto ammirare dei manufatti davvero belli e non ho potuto resistere dall’acquistarne uno, in cambio di due magliette di cotone, molto ambite. In tre giorni di trekking lungo la scogliera, dormendo in semplici lodge, abbiamo potuto notare diverse tipologie di costruzioni, che si intravedono nelle immagini, ed approfondire la conoscenza della cultura e dell’ambiente dei Dogon, fatto di vertiginosi sentieri lungo la falesia e di abitazioni e necropoli situate in grotte ed anfratti, raggiungibili solo con scale di corda verticali. Questa loro capacità di nascondersi li ha resi quasi invisibili per decenni sino a quando, verso la metà degli anni Trenta, la zona fu scoperta e studiata da antropologi francesi, poiché il Mali faceva parte dell’Impero coloniale francese. Una esperienza affascinante nel cuore dell’Africa più autentica.
L’attrezzatura
Tra l’attrezzatura che avevo scelto per questo viaggio, spicca sicuramente la mia MP Hammertone con il Summicron 35mm f/2 nella versione asferica, ottica particolarmente indicata per far risaltare i colori, accesi e solari, dei paesaggi e dei costumi locali. La versione silver, con barilotto in ottone da me utilizzata, è più pesante della versione nera in alluminio ed arriva a 350g, circa 100g in più. E’ composta da 7 lenti in 5 gruppi, con un elemento asferico, su disegno di Peter Karbe. Anche se è molto difficile poter usare un Summicron a f/2, data l’intensità della luce africana, la resa a f/5,6 di quest’ottica è spettacolare, con uniformità di resa su tutto il fotogramma, colori squillanti, e resa satura, che dona una tridimensionalità eclatante alle dia proiettate su grande schermo.
Rispetto alla versione precedente, il noto Summicron 35mm con 7 lenti, il ns Asferico presenta sicuramente una resa migliorata ai primi due diaframmi, che nella situazione da me affrontata ho avuto poche occasioni di testare, ma una resa coloristica spettacolare ai diaframmi centrali, donata appunto dalla presenza della lente asferica. Ogni colore ne viene esaltato accuratamente dettagliato, grazie anche ad una incisione superlativa, ma non urlata. Se la versione a 7 lenti era molto indicata per i ritratti ambientati e per il suo sfuocato (King of Bokeh, era stato soprannominato dalla solita enfasi anglosassone), questa versione ci pare perfetta per la fotografia etnica e di reportage, senza nessuna incertezza a nessun diaframma di lavoro. Pertanto corregge sia i punti deboli della versione precedente (il rendimento a TA, ed anche la tenuta al controluce) e ne stravolge la resa ai diaframmi centrali, portandoli ad una enfasi di contrasto e conseguente stacco dei piani, sconosciuta precedentemente. Anche nelle immagini monocromatiche (capanne gialle su pietra gialla) questa caratteristica risulta evidente, con un disegno e una definizione perfetta del primo piano, mai impastato.
A distanza di anni, nel rivedere queste immagini rivivo lo stupore, il caldo, la fatica, la sorpresa nel constatare che esistono (esistevano?) ancora in Africa posti quasi primordiali e autosufficienti, proprio come nei film della mia giovinezza, quando l’Africa era il continente misterioso popolato da culture e popoli primitivi, come recitavano le locandine. Situazioni lontanissime dai grattacieli della capitale Bamako, che offre (offriva?) una visione moderna dell’Africa, lontana dagli stereotipi che spesso si vanno cercando, condizionati appunto da racconti e pellicole.
Le camminate alla base della grande falesia gialla, sotto un sole cocente, rimangono impressi nella mia mente in modo indelebile, e le immagini mi restituiscono quella sensazione che provai allora.
La sorpresa, soprattutto: la sorpresa di ritrovarmi, come in un film, alla scoperta delle origini dell’uomo e della sua lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile: la concretizzazione del mito di un mondo autonomo e isolato dal resto dell’umanità. Solo anni dopo seppi che il film che mi aveva tanto colpito era tratto da un romanzo dell’inglese Haggart, risalente addirittura al 1885, divenuto nel tempo il prototipo della ricerca del Mondo Perduto, tema diventato molto popolare sia nella letteratura che nel cinema. La realizzazione di un sogno di ragazzo quando, al cinema domenicale dei Salesiani di Catania, che avevano un debole per i film d’epoca, guardavo incantato quelle terre lontanissime e misteriose, chiedendomi se fossero reali o un’invenzione cinematografica. Oggi mi chiedo: saranno sopravvissuti i Dogon alle crudeli guerre civili che imperversano nel loro paese?
Le immagini del Summicron 35/2 Asferico mi restituiscono la violenta emozione di una realtà vissuta ma prima ancora sognata durante una domenica pomeriggio con gli amici di allora, in un afoso cinema della città etnea.
Pierpaolo Ghisetti © 09/2023
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